Come primo "editoriale" di questo blog/sito, penso che questo post si meriti un'introduzione. I fondatori del blog hanno deciso, da questa data in poi, di pubblicare "periodicamente" (senza, quindi, scadenze fisse) un editoriale che si occupi di un argomento inerente al mondo della musica e, perché no, dell'arte in generale. Questo post in particolare parla della musica come arte, e del suo concetto trasformato nel tempo; leggetelo per capire meglio a cosa mi riferisco. E no, non sono articoli simili a quelli megaintellettualoidi a cui vi ha abituato Rockit. Avanti, so che lo leggete!
L'argomento è molto semplice. La musica, nei secoli, ha sempre avuto un ruolo "artistico" (non per niente proprio di arte si tratta), nel senso che, come tutti i movimenti artistici più o meno conosciuti (futurismo, dadaismo, cubismo, ecc.) nasce, vive e muore, nei suoi stili e nelle sue più variegate trasformazioni, da e per un tale contesto sociale, storico e politico. Ogni "movimento", di qualunque natura, è tale perché "figlio del suo tempo" e la musica non fa eccezione. Abbiamo visto che la musica classica, dapprima musica su commissione (un po' come i quadri) nasceva da contesti religiosi, o comunque salottieri, perbenisti e filomonarchici (per le commissioni che richiedevano talune opere), come tanti movimenti artistici (i capolavori di Michelangelo, Leonardo, Giotto ecc. chi li potrebbe annoverare come tali se non fossero derivati da committenze ecclesiastiche o di nobili spendaccioni che volevano decorare le loro sale da ballo?). La vera rivoluzione in questo senso arriva nel '900, prima con i gospel, il jazz e il blues (in tutte le loro evoluzioni), poi con generi più "moderni". Di questi volevo parlare.
Il punk, nato negli anni '70 ma che conta tra i suoi precursori (dal punto di vista strettamente artistico) musicisti del calibro degli Who, ha radici sociali ben definite. Nasce dalle reazioni e dalle conseguenze delle spinte rivoluzionarie degli anni sessanta che hanno avuto precise ripercussioni storiche e sociali negli anni settanta, e i portavoce di questo genere non erano solo musicisti, ma persone qualunque. Diciamo che chi faceva questa musica si identificava più facilmente con chi la doveva subire (ascoltare, diremo noi), perché il contenuto trasmesso faceva parte di un contesto più ampio dove i bisogni del mittente e del destinatario del medesimo messaggio coincidevano. Per questo motivo i testi, più che la musica, rappresentavano un certo tipo di ideali, e colpivano certi ceti sociali che non potevano rimanere estranei da questo tipo di "cultura" (poi, puntualmente, trasformata in "popolare" da qualche squalo affamato di soldi, tra produttori, discografici e quant'altro) perché parte integrante della stessa. Negli anni '60, non solo per i sessantottini ma anche per i precursori della "beat generation" o per i rivoluzionari dei campus universitari americani di metà decennio, la musica beat, hippie e il pop d'autore (Bob Dylan e molti altri), insieme alla letteratura affine, significava davvero qualcosa. Era quello che si voleva sentire.
La domanda è: nel 2009 quello che ascoltiamo ha davvero un significato per noi? Ci dicono davvero quello che vogliamo farci sentire? Nella società anestetizzata dalla pubblicità, cioè dalla TV, e dai modelli imposti dalla stessa, direi che la risposta più appropriata è un laconico si. Ci tocca molto da vicino il fatto che MTV e canali affini siano i più diretti responsabili di una degenerazione, nel commerciale, della musica come arte, sempre più disposta a vendersi per non trasmettere più niente. I nostalgici dei vinili non sono sempre e solo collezionisti, del resto negli anni '70 ascoltare certa musica significava anche appartenere ad una certa estrazione sociale.
Oggi la musica pop, propinataci come unica soluzione da TV e radio pagate da poche grandi major per diffondere solo e soltanto questo, ha perso tutto il suo contenuto. Nessuno mette in dubbio che una canzonetta di musica leggera à-la-Max Pezzali o Cesare Cremonini possa comunicare tanto ad una persona, perché il tipo di messaggio ricevuto è soggettivo quando i testi parlano d'amore o di situazioni simili. E' che questo tipo di contenuti non rispecchia la nostra società, che ha bisogno di qualcuno che si faccia portavoce dei problemi che realmente esistono (e mi perdonino i lettori se non li sto qui a citare, sapete benissimo quali e quanti sono). Nessuno pretende di dire cosa avete bisogno di sentire voi che leggete, ma questo tipo di comunicazione artistica ha perso ogni valore. Se una volta l'arte era specchio della società in maniera positiva, oggi lo è per il contrario. Nessun genere musicale dopo gli anni '80 (a partire dal metal e dal grunge) rispecchia vere situazioni che possiamo trovare in certi contesti sociali (anche se l'hip hop ha più volte tentato di invertire questo trend, con eccezioni a confermare la regola prima che le eccezioni prendessero il sopravvento); e se davvero i Nirvana potevano (e possono) comunicare qualcosa per giovani nel pieno delle loro turbe adolescenziali, possiamo tranquillamente dire che lo sbiaditissimo panorama di Seattle, che ha dato vita a decine di gruppi dal valore artistico a volte ottimo a volte un po' meno, non rispecchia la natura di quella città (o perlomeno avremo una città di 602.000 abitanti che vogliono tagliarsi le vene), così come la musica "emo" si presenta più come una moda che come una necessità di dire qualcosa. E chi la vive in maniera diretta, tagliandosi le vene o cose di questo tipo, dovrebbe rendersi conto che chi la fa non sta dicendo a lui di farlo, ma sta trasformando le tipiche paranoie (o "pare", per dirla in slang giovanile) adolescenziali in un modo intelligentissimo di fare soldi con un apporto artistico veramente basso.
La musica è diventata un sordido modo di guadagnare, anche se nessuno poteva impedirlo. Ma è tanto facile quando gente onesta come Bob Marley e De Andrè se n'è andata, e ha dato tanto per dire la loro per poi schiattare lasciando alle case discografiche che detenevano i diritti delle loro canzoni tutto il guadagno che ne deriva. Teniamoci le trovate pubblicitarie per beneficienza di Bono Vox, intanto i suoi miliardi se li godrà sempre e solo lui. E non me ne voglia nessuno, ma questo è quello che tutti noi ci meritiamo. Perché la società siamo noi, e l'anestetico che ci sta addormentando ogni tentativo di reagire ce lo stiamo lasciando inculcare noi. Senza tanti problemi. Dandogli anche una mano. Wake up.
Avvicinare Max Pezzali a Cremonini è come non accorgersi della differenza tra un Tavernello e un Amarone!
RispondiEliminaCremonini sicuramente superiore musicalmente, ma la qualità dei testi è veramente molto simile. Inoltre mi piacciono entrambi, ma questo è un altro discorso.
RispondiEliminaBrizz
Muoio dalla voglia di sapere chi dei due è il Tavernello e chi l'Amarone. Sarà anche per questo che sono astemio? Brrrrrrrrrrrrrrr.
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