mercoledì 31 marzo 2010
Riaffiora - Antonio P (Soviet Studio/Musicalbox, 2010)
Recensione Scritta per Indie For Bunnies
Tracklist
L'ambizioso progetto Antonio P. dei Riaffiora si presenta con una veste immacolata, spoglia di ogni caratteristica rock, per rimanere su un livello più onirico, spensierato, nonostante la malinconia onnipresente all'interno del breve lavoro. Non ci sono ostacoli per i Riaffiora, che continuano a comporre brani irreprensibili, dotati di una vena compositiva di altissimo livello e una produzione assolutamente invidiabile. Vediamo nei tre episodi che compongono questo EP la tristezza più completa, piegata alla musica dei padovani secondo i loro schemi, ben noti alla fan base, che però sono questa volta soffocati da un tetro distacco dal contesto "musica" per passare più a quello lirico/poetico. Non è un difetto. Non a caso ci si ispira liberamente alle "Ultime Lettere di Jacopo Ortis", di Foscolo, per parlare di inadeguatezza, di impotenza, di estraniamento. Questo avviene nella blanda ma commovente Vera Storia di Due Amanti Infelici, in cui la voce di Andrea D'Amato effonde tutta la drammaticità che il suo timbro sa produrre in un propagarsi di onde quasi noise che basso e pianoforte sanno sciogliere in un unica, sapida, miscela pop. Lo stesso avviene per la title-track Antonio P. che inghiotte le poche citazioni "verdeniane" presenti nel vecchio repertorio del trio cittadellese per definire un nuovo livello di musica "alternative", molto meno stereotipato e personale. Singolo indimenticabile. Avviene invece una strana fuga dal pop/rock sempre da loro proposto in Sospesi - Tema di Antonio, duecentoquarantatré secondi netti di melodia che racconta senza le già commosse parole del singolo la storia di Antonio, la sua alienazione, la sua fuga dal livello terreno. Una strumentale da non sottovalutare, perfetta in ogni suo secondo e momento. Un brano che cauterizzerà ogni definizione di "chamber pop", che non è quello barocco o post-rock, né quello evanescente dei compositori d'avanguardia, ma bensì più palpabile, "terrestre", quasi plasmato con lo stesso surrealismo con cui sono state composte le parole delle due canzoni, aiutate nella loro resa melodrammatica da violini e pianoforte, elementi nuovi per la formazione veneta.
Insomma un EP da non perdere, che anticipa un disco che si spera arrivi davvero, dopo tutti questi anni di continue corse e rincorse per produrlo e, per noi, aspettarlo. I Riaffiora valgono davvero ogni secondo speso ad ascoltarli, e se c'è una band che incarna perfettamente lo spirito pop/rock tipico della traduzione italiana senza categorizzarsi in quegli stilemi ormai troppo abusati (alternative, indie, "catchy", ecc.) questi sono proprio loro. Pollice alzato.
Voto: 8
April and Performances
I mesi più caldi dell'anno sono in arrivo, e con loro una montagna di live. A Good Times Bad Times si è deciso da tempo di dedicare un post mensile ai concerti più cool del nord Italia. Non si parla di Laura Pausini, né dei Negramaro, sia chiaro. E c'era pure la rima.
Ecco una piccola listarella:
01.04.2010 LINEA 77 - Estragon, Bologna
06.04.2010 THEE SILVER MT. ZION - Unwound Club, Padova
06.04.2010 LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA - Teatro Espace, Torino
07.04.2010 AHLEUCHATISTAS - Tetris, Trieste
07.04.2010 LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA - Teatro Duse, Bologna
08.04.2010 AHLEUCHATISTAS - Locomotiv Club, Bologna
09.04.2010 LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA - Teatro Palladium, Roma
09.04.2010 MOLTHENI e IL PAN DEL DIAVOLO - Locomotiv Club, Bologna
09.04.2010 THESE NEW PURITANS - Estragon, Bologna
09.04.2010 TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - New Age, Roncade (TV)
10.04.2010 CARMEN CONSOLI - Gran Teatro, Padova
10.04.2010 SILVER ROCKET - Zuni, Ferrara
10.04.2010 GIULIANO PALMA & THE BLUEBEATERS - CSO Rivolta, Venezia
11.04.2010 THE VICKERS - Zuni, Ferrara
15.04.2010 THE BURNING HELL, SHOTGUN JIMMIE e CONSTRUCION & DEDUCTION - Zuni, Ferrara
16.04.2010 CARMEN CONSOLI - New Age, Roncade (TV)
17.04.2010 PIOTTA e ULTIMA FASE - CSO Pedro, Padova
17.04.2010 MOTEL CONNECTION - Estragon, Bologna
17.04.2010 LINEA 77 - New Age, Roncade (TV)
17.04.2010 LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA - Teatro Parenti, Milano
18.04.2010 MISFITS - New Age, Roncade (TV)
21.04.2010 65DAYSOFSTATIC - Locomotiv Club, Bologna
23.04.2010 PRODIGY - Palabam, Mantova
23.04.2010 MY AWESOME MIXTAPE - Zuni, Ferrara
23.04.2010 LINEA 77 - Mac2, Schio (VI)
24.04.2010 SIR OLIVER SKARDY - Fahrenheit 451, Padova
25.04.2010 THE WAVE PICTURES - Zuni, Ferrara
26.04.2010 MOUTH OF THE ARCHITECT - Locomotiv Club, Bologna
30.04.2010 TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - Estragon, Bologna
30.04.2010 PUNKREAS - New Age, Roncade (TV)
martedì 30 marzo 2010
Serj Tankian - Elect The Dead Symphony (Reprise/Warner/Serjical Strike, 2010)
Tracklist
Con notevole ritardo rispetto all'iniziale tabella di marcia ecco spuntare negli scaffali dei negozi (si fa per dire...) "Elect The Dead Symphony", il live di Serj Tankian che ripropone la scaletta dei concerti elettrici seguiti all'uscita di "Elect the Dead", primo album solista, con un'orchesta filarmonica di settanta elementi. Trattasi della prestigiosa Auckland Philarmonia Orchestra, che ha impreziosito questo pregiato prodotto con i suoi archi e fiati, suonati ovviamente da professionisti che hanno eseguito gli splendidi arrangiamenti di John Psathas, compositore neozelandese. L'incredibile voce di Tankian, potente e versatile come pochi, ha fatto il resto.
Nella scaletta praticamente tutto il disco di debutto più qualche inedito, sui quali spicca la vecchia conoscenza dei fan dei System Of A Down Blue e un brano già sentito per i live di Axis of Justice, lasciato fuori dall'ultimo disco dei SOAD "Hypnotize", The Charade, dagli arrangiamenti molto pomposi. Ancora più "baroccheggianti" quelli di Feed Us, Empty Walls e Sky Is Over, che rendono in maniera davvero sublime in questa nuova veste orchestrale, per la quale si spera un buon seguito con i prossimi concerti che il cantautore armeno proporrà come conseguenza alle reazioni di questo lavoro. Non c'è molta varietà in un concerto così, ma si ascolta ogni singola nota prodotta dagli orchestrali, a supportare una voce che non stona mai, si spera non grazie a sovraincisioni o filtri di sorta, utilizzando anche le conoscenze ereditate dalla tradizione classica e lirica che il buon Serj ha studiato (si parla di un diploma a riguardo). Alcune canzoni tuttavia non trovano la collocazione giusta con l'orchestra: trattasi soprattutto di Lie Lie Lie, un po' troppo "fuori fuoco", sbilanciata tra i ghiribizzi dell'orchestra e le liriche sempre precise e coinvolgenti del protagonista, in questo caso un po' soffocate dagli elementi acustici. Incredibili invece le versioni di Beethoven's Cunt e Honking Antelope, che non brillavano particolarmente nel disco ma che in live hanno un'aura quasi magica, ovviamente grazie all'apporto tecnico ed "atmosferico" degli strumenti "classici" utilizzati in questa occasione.
Tankian dovrebbe tornare ai SOAD. E' quello che pensano in molti. In ogni caso dopo un disco di debutto di tutto rispetto, fa uscire un live di grande presa, caratteristico nonostante non sia il primo né l'ultimo a farne uno di questo genere. L'orchestra garantisce sempre un'incredibile qualità musicale, ma sono gli arrangiamenti di Psathas e la voce di Serj a farla da padroni in una performance del genere, con una voce che fa miracoli e musiche super-coinvolgenti. Non lasciatevelo scappare.
Voto: 8
lunedì 29 marzo 2010
Le Vibrazioni Live @ New Age, Roncade (TV) 26.03.10
Non c'è forse un gruppo italiano più sottovalutato delle Vibrazioni. Non è un fatto di crederli peggiori di quello che sono, ma semplicemente di ignorare le loro reali potenzialità, quelle che emergono solo in un concerto, o con un'analisi accurata delle musiche. Sarà anche che molti dei singoli fanno parte di quella sezione mediocre del repertorio per la quale hanno ottenuto la notorietà, diventando pertanto "famosi" grazie a canzoni banali ovvero inutili per comprendere le loro qualità e "odiati" agli occhi di quel capannello di rockettari/metallari "sapientoni" che non li vogliono considerare parte della cerchia. O semplicemente li temono.
La verità è che il concerto al New Age del quartetto milanese, come già i due DVD lasciavano immaginare, è stato un concentrato di novanta minuti di "puro rock'n'roll", utilizzando un lessico vicino a quello del sempre coinvolgente ed egocentrico frontman Francesco Sàrcina, con l'esecuzione di ben otto canzoni (e mezza) delle undici dell'ultimo disco, Le Strade del Tempo, e alcune delle più cariche dei primi tre lavori, tra le quali spiccano senz'altro Seta, Sani Pensieri, L'Inganno del Potere e Su Un Altro Pianeta, cantate a squarciagola dai fan sopraggiunti anche da non molto vicino per questa data (il club tour per l'uscita di questo album in effetti non lascia molta scelta ai seguaci). Qualche momento più lento, diciamo (non spregiativamente) commerciale, è dato da Respiro, molto meglio live che in studio (come gran parte delle nuove canzoni, la cui resa live, vedasi la title-track oppure Va Così e Le Sirene Del mare, sa stupire) e l'immancabile Raggio Di Sole. Scenetta già nota agli aficionados in Drammaturgia, molto "involving" in concerto ma che viene forse prolungata in maniera esagerata, rubando spazio che poteva essere occupato con qualche "sorpresa". Ma senza lamentarsi troppo per una setlist in realtà molto interessante, e neanche troppo banale (soprattutto l'assenza di Ovunque Andrò, Dimmi e Dedicato a Te, un vero toccasana per l'atmosfera "totale" della serata), c'è da dire che pochissime band in Italia possono vantare un sound così pieno e compatto, aiutato da brani assolutamente adatti ad essere eseguiti in concerto (dato da non sottovalutare) e abilità tecniche dei singoli strumentisti sicuramente sopra la media. Con un numero di errori praticamente vicino allo zero ed una tenuta di palco da vere rockstar, brillano ognuno per caratteristiche proprie, passando inevitabilmente per la "pacca" ineguagliabile di Alessandro Deidda alle pelli, elemento determinante per il fattore live. Il calore del pubblico fa il resto, sottolineando ulteriormente la buona riuscita della performance, alla fine della quale i componenti della band come da copione escono per qualche foto.
L'invito è quello di approfondire Le Vibrazioni soprattutto nel loro aspetto rock, che si evince più dai concerti che dai dischi (perlomeno se ascoltate gli ultimi due), i quali non sono solo performance in piccole situazioni dal clima molto intimo, ma anche spettacoli dove si respira quella brezza "speciale", tipica delle grande occasioni. Sarà che nonostante tutto quello che hanno ottenuto, questi quattro meritano molto di più. Eccome se lo meritano.
* foto di Paola "Dott. Hewson" De Ros
domenica 28 marzo 2010
Intervista a EDO
INTERVISTA SCRITTA PER INDIE FOR BUNNIES
Edoardo Cremonese, in arte Edo, è un artista padovano trapiantato in terra milanese negli ultimi tempi. Propone un cantautorato non troppo raffinato, affezionato alle sue origini, colmo di provincialismi e, soprattutto, di ironia dall’impronta giovane. Per certi versi, l’anima dell’universitario tradotta in musica. Con il suo ultimo lavoro, “Naso A Tramezzino EP”, registrato nel suo armadio, prova ad entrare nel giro che conta della capitale dell’indie italiano. L’abbiamo contattato per chiedergli qualcosina sulla sua attività e sulla sua visione della musica, e questo è il risultato. In forma di chat, per fare concorrenza a Rolling Stone.
Allora ciao Edo, come butta? Dono qui per una chiacchierata sul tuo progetto, tempo per qualche domanda?
Ciao Brizz tutto bene te?
Tutto bene grazie, anche se sicuramente te la passi meglio tu in quel di Milano! allora, la prima domanda introduttiva può essere un po noiosa ma facciamola lo stesso dai… parla un po’ di te, da quanto suoni, cosa suoni e perché suoni. di quello che vuoi…
Allora non ricordo da quanto suono però so dirti che principalmente suono la chitarra acustica e canto, poi se serve suono anche qualcos’altro…ma solo se serve…
Diciamo un po’ per contornare? Principalmente usi un’impostazione da cantautorato, ma questo lo sappiamo già. Di cosa parlano i tuoi pezzi e a cosa ti ispiri per comporli?
I miei pezzi parlano delle cose curiose che possono accadere a me come anche agli altri e cerco di metterli sempre in una chiave più ironica possibile, perché credo che senza ironia saremo perduti
Il brano “Coinquilino Fernando”, dal tuo nuovo ep, ne è un grande esempio. E sempre nel nuovo lavoro, di cui se vuoi puoi parlare, c’è anche un pezzo con delle citazioni di Antonio Albanese. sei un fan?
Si Antonio é il mio attore e comico italiano preferito fin da bambino. Oltretutto ha sempre mantenuto una certa coerenza in quel che fa (che non è da pochi) e mi é venuto naturare omaggiarlo con un pezzo!
Senz’altro Albanese è uno degli attori comici (e non solo comici) più rappresentativi d’Italia, e dire che se lo merita è ancora poco…un gran personaggio e una grande persona. Avvicinare un comico alla musica è stata una cosa per certi versi innovativa, in cos’altro ti reputi un artista che può contribuire con qualcosa di nuovo in ‘questo’ panorama alternativo italiano?
Non lo so, onestamente non ci penso mente compongo o registro, pero riascoltando l’ EP sono contento perchè viene fuori un lato di me anche troppo autentico poi….. de gustibus.
Certo, beh molti artisti si preoccupano più di citare influenze ed ascolti vari, risultando così quasi dei mosaici di altre cose, con prodotti poco innovativi. Non è il tuo caso, e il tuo ep lo attesta appieno. E della copertina che mi dici? Questo coccodrillo in bianco e nero vicino al tuo faccione…
Si, la copertina viene da un quadro di un bravissimo artista toscano, Jacopo Pischedda, che ho conosciuto qui a Milano. Mi piaceva l’ idea che quel coccodrillo stesse per mangiarmi la testa…(ride, ndr)
Un’idea tipo pesce grosso mangia pesce piccolo? No suppongo non c’entri niente, ma mi piace delirare. Quale futuro ha questo ep? Precede un album, un tour, o cosa? Insomma, quali sono i tuoi progetti per questo tuo periodo milanese?
Qui a Milano sto conoscendo un sacco di gente e c’é tutto il giro giusto e l’aristocrazia della musica che gira. Io sono ancora un piccolo satellite ed é bello che il futuro sia incerto, felicità a momenti haha. Comunque sicuramente registrerò ancora! Scusa interrompo un attimo, vado a prendermi la Nutella e un po’ di crackers, ho cali d’affetto…
Va tranquillo uomo! Comunque senz’altro sei nel posto giusto, e ti auguro il meglio possibile. Per non tirarla troppo per le lunghe vado verso la chiusura dell’intervista con una domandina trabocchetto. Qual è la tua visione della musica in Italia in questo momento? dove pensi andrà a finire la scena alternativa. e come ti ci trovi? Un po’ parlando della tua esperienza
Milano è il posto giusto sicuramente, sei circondato da un sacco di gente che riesce a camparci con la musica, e questo mi stimola….fammi entrare per favoreeee nel tuo giro giusto…hahahha
Citiamo Bugo qui eheh.
Si si! Vorrei precisare come ho registrato l’EP, se mi permetti.
Certo, avevo sentito delle leggende metropolitane sulla registrazione del tuo ep, spiegaci.
Lo ho suonato e registrato dentro un capiente armadio di casa mia a Padova. Ci ho suonato tutto quello che ero in grado di prendere in mano e mi son divertito un casino…poi al missaggio e al mastering ci ha pensato il mitico Manuel Massarotto et voilà! Ora devo scappare perche si sono connessi personaggi loschi sulla mia chat e ho paura, mooolta paura.
Bene se non hai nulla da aggiungere, i migliori auguri per sfuggire da questi loschi personaggi e ci risentiamo presto. Bye!
Edoardo Cremonese, in arte Edo, è un artista padovano trapiantato in terra milanese negli ultimi tempi. Propone un cantautorato non troppo raffinato, affezionato alle sue origini, colmo di provincialismi e, soprattutto, di ironia dall’impronta giovane. Per certi versi, l’anima dell’universitario tradotta in musica. Con il suo ultimo lavoro, “Naso A Tramezzino EP”, registrato nel suo armadio, prova ad entrare nel giro che conta della capitale dell’indie italiano. L’abbiamo contattato per chiedergli qualcosina sulla sua attività e sulla sua visione della musica, e questo è il risultato. In forma di chat, per fare concorrenza a Rolling Stone.
Allora ciao Edo, come butta? Dono qui per una chiacchierata sul tuo progetto, tempo per qualche domanda?
Ciao Brizz tutto bene te?
Tutto bene grazie, anche se sicuramente te la passi meglio tu in quel di Milano! allora, la prima domanda introduttiva può essere un po noiosa ma facciamola lo stesso dai… parla un po’ di te, da quanto suoni, cosa suoni e perché suoni. di quello che vuoi…
Allora non ricordo da quanto suono però so dirti che principalmente suono la chitarra acustica e canto, poi se serve suono anche qualcos’altro…ma solo se serve…
Diciamo un po’ per contornare? Principalmente usi un’impostazione da cantautorato, ma questo lo sappiamo già. Di cosa parlano i tuoi pezzi e a cosa ti ispiri per comporli?
I miei pezzi parlano delle cose curiose che possono accadere a me come anche agli altri e cerco di metterli sempre in una chiave più ironica possibile, perché credo che senza ironia saremo perduti
Il brano “Coinquilino Fernando”, dal tuo nuovo ep, ne è un grande esempio. E sempre nel nuovo lavoro, di cui se vuoi puoi parlare, c’è anche un pezzo con delle citazioni di Antonio Albanese. sei un fan?
Si Antonio é il mio attore e comico italiano preferito fin da bambino. Oltretutto ha sempre mantenuto una certa coerenza in quel che fa (che non è da pochi) e mi é venuto naturare omaggiarlo con un pezzo!
Senz’altro Albanese è uno degli attori comici (e non solo comici) più rappresentativi d’Italia, e dire che se lo merita è ancora poco…un gran personaggio e una grande persona. Avvicinare un comico alla musica è stata una cosa per certi versi innovativa, in cos’altro ti reputi un artista che può contribuire con qualcosa di nuovo in ‘questo’ panorama alternativo italiano?
Non lo so, onestamente non ci penso mente compongo o registro, pero riascoltando l’ EP sono contento perchè viene fuori un lato di me anche troppo autentico poi….. de gustibus.
Certo, beh molti artisti si preoccupano più di citare influenze ed ascolti vari, risultando così quasi dei mosaici di altre cose, con prodotti poco innovativi. Non è il tuo caso, e il tuo ep lo attesta appieno. E della copertina che mi dici? Questo coccodrillo in bianco e nero vicino al tuo faccione…
Si, la copertina viene da un quadro di un bravissimo artista toscano, Jacopo Pischedda, che ho conosciuto qui a Milano. Mi piaceva l’ idea che quel coccodrillo stesse per mangiarmi la testa…(ride, ndr)
Un’idea tipo pesce grosso mangia pesce piccolo? No suppongo non c’entri niente, ma mi piace delirare. Quale futuro ha questo ep? Precede un album, un tour, o cosa? Insomma, quali sono i tuoi progetti per questo tuo periodo milanese?
Qui a Milano sto conoscendo un sacco di gente e c’é tutto il giro giusto e l’aristocrazia della musica che gira. Io sono ancora un piccolo satellite ed é bello che il futuro sia incerto, felicità a momenti haha. Comunque sicuramente registrerò ancora! Scusa interrompo un attimo, vado a prendermi la Nutella e un po’ di crackers, ho cali d’affetto…
Va tranquillo uomo! Comunque senz’altro sei nel posto giusto, e ti auguro il meglio possibile. Per non tirarla troppo per le lunghe vado verso la chiusura dell’intervista con una domandina trabocchetto. Qual è la tua visione della musica in Italia in questo momento? dove pensi andrà a finire la scena alternativa. e come ti ci trovi? Un po’ parlando della tua esperienza
Milano è il posto giusto sicuramente, sei circondato da un sacco di gente che riesce a camparci con la musica, e questo mi stimola….fammi entrare per favoreeee nel tuo giro giusto…hahahha
Citiamo Bugo qui eheh.
Si si! Vorrei precisare come ho registrato l’EP, se mi permetti.
Certo, avevo sentito delle leggende metropolitane sulla registrazione del tuo ep, spiegaci.
Lo ho suonato e registrato dentro un capiente armadio di casa mia a Padova. Ci ho suonato tutto quello che ero in grado di prendere in mano e mi son divertito un casino…poi al missaggio e al mastering ci ha pensato il mitico Manuel Massarotto et voilà! Ora devo scappare perche si sono connessi personaggi loschi sulla mia chat e ho paura, mooolta paura.
Bene se non hai nulla da aggiungere, i migliori auguri per sfuggire da questi loschi personaggi e ci risentiamo presto. Bye!
venerdì 26 marzo 2010
Virginiana Miller - Il Primo Lunedì Del Mondo (ZAHR/Altrove, 2010)
Tracklist
Se il primo lunedì del mondo lo fai coi Virginiana Miller non avrai certo una vita di sorprese. Questo per dire che se uno ascolta i VM non si fa sicuramente l'idea della tipica band che parte da un punto per raggiungere obiettivi distanti, magari seguendo piste diverse per non diventare mai banali. Dal primo disco, distante ormai tredici anni, non sono cambiati di molto, ed è forse un bene per la piccola fan base che li ha sempre seguiti. Non per questo l'ultimo loro album si presenta vuoto di contenuti, e raggiunge comunque picchi di apprezzabile livello artistico.
In tutto questo ennesimo sforzo dei toscani si respira un'aria melodica, profondamente influenzata dal vecchio lessico proveniente dai più soffusi CCCP e Marlene Kuntz, in qualche misura vicini a shoegaze e post-rock, nei lavori di chitarra, generi dai quali prende la distanza per il grande utilizzo della voce. Le linee vocali di Simone Lenzi, sempre uguale a sé stesso diventando in questo modo "speciale" rispetto ai tanti gruppi comunque simili che costellano il panorama italiano, danno la giusta dimensione all'importanza dei testi, a tratti intimi in altri più dispersi a rincorrere i cliché del lemmario alternative italiana, ma senza problemi di "insensatezza" et similia (no, non si copiano i Verdena, anche perché i VM sono nati prima). Si parla di "satanico nord-est" in L'Inferno Sono Gli Altri e il suo sfondo quasi folk reinterpretato dalla mente noise-leggera della band livornese, come nella sommessa agonia di Cruciverba o in La Carezza del Papa, col suo retrogusto di critica che vuole uscire libera ma che si trattiene. Giorgio Canali musicalmente, un cantautore pop qualunque nell'approccio. Gran pezzo, gran pezzo, "anche un calcio nel culo fa bene, come segno di amore sicuro, di contatto e calore animale senza tante parole" . Altri episodi degni di nota sono sicuramente la traccia di apertura Frequent Flyer, unico momento anglofono del "primo lunedì del mondo" (quello poi sviscerato in lungo e in largo nella seconda Lunedì, altra ottima canzone), e Acque Sicure, con il monito "apri gli occhi e resta a galla". Abbastanza a passo coi tempi come consiglio no?
Strumentalmente, anche dalle esperienze live con cui la band ha rallegrato tutta l'Italia negli ultimi due lustri e mezzo, la band ha dimostrato di cavarsela. Nell'album non si sente particolarmente, per un uso molto spesso minimale del comparto ritmico, che svolge comunque in maniera ottima il suo ruolo di supporto ad una sezione protagonista, di chitarre, piani e voce, di tutto rispetto. L'intesa tra le tue parti è infatti eccellente. Ciò che manca al disco per superare alcuni dei precedenti lavori dei VM (soprattutto Gelaterie Sconsacrate) è quella ventata di fresco e di novità che dava l'album citato all'epoca, ormai superato da una marea di band che propongono la stessa cosa e dagli stessi colleghi di Lenzi, che si sono con il tempo dispersi ad imitare le loro medesime caratteristiche. Come dire, ci si aspettava di più. Ma d'altro canto quando una formula funziona non ha sempre molto senso cambiarla, per cui chiudendo un occhio e mezzo, e accontentandosi, questo potrebbe essere uno dei dischi "da ascoltare" di questo buon duemiladieci. From Livorno to the aficionados.
Voto: 7-
Se il primo lunedì del mondo lo fai coi Virginiana Miller non avrai certo una vita di sorprese. Questo per dire che se uno ascolta i VM non si fa sicuramente l'idea della tipica band che parte da un punto per raggiungere obiettivi distanti, magari seguendo piste diverse per non diventare mai banali. Dal primo disco, distante ormai tredici anni, non sono cambiati di molto, ed è forse un bene per la piccola fan base che li ha sempre seguiti. Non per questo l'ultimo loro album si presenta vuoto di contenuti, e raggiunge comunque picchi di apprezzabile livello artistico.
In tutto questo ennesimo sforzo dei toscani si respira un'aria melodica, profondamente influenzata dal vecchio lessico proveniente dai più soffusi CCCP e Marlene Kuntz, in qualche misura vicini a shoegaze e post-rock, nei lavori di chitarra, generi dai quali prende la distanza per il grande utilizzo della voce. Le linee vocali di Simone Lenzi, sempre uguale a sé stesso diventando in questo modo "speciale" rispetto ai tanti gruppi comunque simili che costellano il panorama italiano, danno la giusta dimensione all'importanza dei testi, a tratti intimi in altri più dispersi a rincorrere i cliché del lemmario alternative italiana, ma senza problemi di "insensatezza" et similia (no, non si copiano i Verdena, anche perché i VM sono nati prima). Si parla di "satanico nord-est" in L'Inferno Sono Gli Altri e il suo sfondo quasi folk reinterpretato dalla mente noise-leggera della band livornese, come nella sommessa agonia di Cruciverba o in La Carezza del Papa, col suo retrogusto di critica che vuole uscire libera ma che si trattiene. Giorgio Canali musicalmente, un cantautore pop qualunque nell'approccio. Gran pezzo, gran pezzo, "anche un calcio nel culo fa bene, come segno di amore sicuro, di contatto e calore animale senza tante parole" . Altri episodi degni di nota sono sicuramente la traccia di apertura Frequent Flyer, unico momento anglofono del "primo lunedì del mondo" (quello poi sviscerato in lungo e in largo nella seconda Lunedì, altra ottima canzone), e Acque Sicure, con il monito "apri gli occhi e resta a galla". Abbastanza a passo coi tempi come consiglio no?
Strumentalmente, anche dalle esperienze live con cui la band ha rallegrato tutta l'Italia negli ultimi due lustri e mezzo, la band ha dimostrato di cavarsela. Nell'album non si sente particolarmente, per un uso molto spesso minimale del comparto ritmico, che svolge comunque in maniera ottima il suo ruolo di supporto ad una sezione protagonista, di chitarre, piani e voce, di tutto rispetto. L'intesa tra le tue parti è infatti eccellente. Ciò che manca al disco per superare alcuni dei precedenti lavori dei VM (soprattutto Gelaterie Sconsacrate) è quella ventata di fresco e di novità che dava l'album citato all'epoca, ormai superato da una marea di band che propongono la stessa cosa e dagli stessi colleghi di Lenzi, che si sono con il tempo dispersi ad imitare le loro medesime caratteristiche. Come dire, ci si aspettava di più. Ma d'altro canto quando una formula funziona non ha sempre molto senso cambiarla, per cui chiudendo un occhio e mezzo, e accontentandosi, questo potrebbe essere uno dei dischi "da ascoltare" di questo buon duemiladieci. From Livorno to the aficionados.
Voto: 7-
giovedì 25 marzo 2010
Asia - Asia (Geffen Records, 1982)
Qualcuno ha fantasiosamente definito gli Asia "l'ospizio dei musicisti progressive", e magari, senza essere così cattivi, non si può nemmeno dare torto al 100% a quest'affermazione.
Infatti, i musicisti di questo disco sono John Wetton alla voce e al basso (King Crimson, UK, Family), Steve Howe alla chitarra (Yes), Geoff Downes alle tastiere (Yes, The Buggles) e Carl Palmer alla batteria (Emerson, Lake and Palmer, Atomic Rooster), che però suonano musica per lo più tendente al pop, magari non emozionante, ma efficace e ben congegnata, con solo "Wildest Dreams" e "Time Again" che accennano leggermente al prog, la prima di queste addirittura contenente un assolo di batteria.
Poco da dire sulla tecnica dei musicisti (eccelsi), sulla voce di Wetton (splendida) o sulla produzione (suoni cristallini e puliti), ma purtroppo si fa lo stesso discorso anche sulla musica: nessun brano, infatti, lascia particolarmente il segno anche se d'altra parte nessun brano (a parte l'orrida "Only Time Will Tell", uno scempio che sarebbe potuto uscire dai peggiori Europe) è particolarmente offensivo.
Certo, la famosissima hit "Heat of the Moment" è irresistibile, la ballata "Without You" è emozionale e offre una splendida prova vocale di Wetton e "Sole Survivor" è accattivante e energica, ma nessuno di questi brani è esattamente un capolavoro.
Il brano migliore del disco è probabilmente "Cutting it Fine", riuscita nell'arrangiamento, nella scelta delle melodie e nella costruzione in se del brano (anche se il finale, di per se bello, è rovinato da un infelice suono di tastiere).
Come potete immaginare non è assolutamente un disco essenziale, ma è pur sempre un elegante pop suonato brillantemente e l'ascolto di questo album non provocherà certo disturbi gravi alle vostre orecchie. E poi la copertina è fighissima!
Voto: 7
mercoledì 24 marzo 2010
Toto - Turn Back (Columbia, 1981)
I Toto sono tra i maestri della musica soft elegante e raffinata. Questo "Turn Back" di cui parliamo oggi è il loro terzo album e benché godibile, non è il loro album migliore. Ho scelto proprio questo album, però, perché ingiustamente dimenticato e molto oscuro rispetto al loro catalogo. Sebbene qualche brano ("English Eyes") sia entrato nel repertorio del gruppo come cavallo di battaglia, non c'è pressoché nessuna hit e il brano più famoso è la ruffiana "A Milion Miles Away", anche se certo non raggiunge le vette di alcune loro future e passate hit come "Africa", "99", "Hold the Line" e "Rosanna".
La formazione è quella iniziale, con la mitica sezione ritmica Jeff Porcaro (batteria) - David Hungate (basso), una vera e propria macchina da guerra che rende il sound compatto e potente, e la magica voce di Bobby Kimball, ragazzotto che anche oggi a 63 anni è capace di fare cose straordinarie.
Come ho detto prima, "Turn Back" non è esente da punti deboli: poco riuscito infatti è il rock di "Live for Today" e eccessivamente melense risultano "I Think I Could Stand You Forever" e "If It's the Last Night".
Il resto dell'album però, è assolutamente pregevole: il suono tagliente e deciso di brani come "Gift with a Golden Gun" e "Goodbye Eleonore" è una delle vette dell'album, e la title-track è una piccola gemma dimenticata, con atmosfere dark e cupe riuscitissime.
Ottima anche la già citata "English Eyes", con un potentissimo Steve Lukather nel suo massimo splendore.
Parole di lode anche ai tastieristi David Paich e Steve Porcaro, che riescono a dare un buon contributo al sound del gruppo senza cadere nel kitsch e nella banalità.
Non è il migliore disco dei Toto, ma c'è abbastanza per potersi divertire, ed è una ulteriore dimostrazione della dimostrazione della bravura dei Toto sia dal punto di vista compositivo, sia da quello strumentistico.
A volte, eccessivamente sottovalutati, i Toto sono un gruppo da riscoprire e da studiare, soprattutto dai giovani musicisti.
Voto: 7/8
lunedì 22 marzo 2010
Curved Air - Air Cut (Warner Bros, 1973)
I Curved Air, assieme ai Renaissance, sono uno dei pochi esempi di progressive con voce femminile. L'album di cui parliamo oggi si potrebbe definire il primo album dei "nuovi" Curved Air.
Infatti, di membri storici, su questo disco c'è solo l'ottima (e sexyssima) cantante Sonja Kristina Linwood (anche se al basso c'è comunque Mike Wedgwood, che aveva suonato nell'ultimo album dei "classici" Curved Air, "Phantasmagoria"), mentre non c'è traccia di Darryl Way, storico violinista del gruppo. Al suo posto, vi è un giovane, all'epoca sconosciuto, il grande Eddie Jobson, qua solo 17enne, che ricopre anche il ruolo di tastierista, ed è responsabile di molti punti alti di questo disco (tra cui il capolavoro "Metamorphosis", di cui parleremo tra poco). Jobson faceva parte di un gruppo chiamato Fat Grapple, che non incise nessun album, ma che riuscì ad andare come supporter ai Curved Air, i quali rimasero strabiliati dalla bravura di questo giovane, ma esperto, musicista. Dopo un concerto, i Curved Air invitarono Jobson nel backstage col violino e gli fecero suonare "Vivaldi", un loro cavallo di battaglia, e rimasero a bocca aperta, perché il ragazzo aveva imparato a suonare anche le parti che in studio erano state ottenute grazie alle sovraincisioni. Così, quando l'anno successivo, i Curved Air ebbero una frattura interna, Sonja Kristina non ci pensò due volte e arruolò il giovane Jobson.
Alla chitarra troviamo l'ottimo Graham Gregory, detto Kirby, che assieme al batterista su questo album Jim Russell formerà l'anno successivo gli Stretch (nei quali militerà anche Nicko McBrain degli Iron Maiden).
Wedgwood e Jobson sono responsabili della maggior parte delle composizioni dell'album. Il primo è infatti l'autore dell'ottima "U.H.F.", un brano ben costruito, con tanto di fade out a metà pezzo a la Gentle Giant, che alterna grintosi riff di chitarra e incastri di basso/violino a delicatissime sezioni con piano, della Skynyrdiana "Two Three Two" dove ha anche il ruolo di cantante solista (la sua voce ricorda un po' quella di Paul McCartney) nella quale la sezione ritmica, supportata dal piano, fa un lavoro ineccepibile, e di "World", intermezzo in stile anni 30 che forse serve ad alleggerire la tensione dopo di "Metamorphosis".
Jobson contribuisce invece alla dolce e tenue "Elfin Boy", e soprattutto alla succitata "Metamorphosis", indubbiamente il brano migliore del disco, che presta molta fede al suo titolo. Alla grandiosa introduzione di piano, segue una trionfale marcia con sapiente uso di organo e di chitarra che pur facendo poche note separate fa un lavoro atmosferico ineccepibile e con una melodia vocale orecchiabile. A questo segue una lunga sezione di piano alla quale si aggiunge tenuemente la voce che introduce un trionfale ritorno di tutto il gruppo supportato dall'organo e sorprendentemente, un finale honky tonk, possibile omaggio a Keith Emerson (che ha chiaramente influenzato Jobson).
Tuttavia Kristina non si lascia certo mettere i piedi in testa, e compone l'ottima "Easy", il brano di chiusura del disco, brano pop non convenzionale, incredibilmente complesso, e ben studiato: sia nell'alternanza tra la sua voce calda e suadente e quella acerba (ma gradevolissima) di Wedgwood, sia nelle ottime prove virtuosistiche di chitarra e di moog, e, infine, anche nella bella sezione strumentale a metà brano.
Completano l'album lo strumentale "Armin" (con il violino in grande risalto) che è quanto più si avvicini a "Vivaldi" in tutto l'album, e l'hard rock di "Purple Speed Queen".
L'album non ha veri e propri punti deboli, e nel complesso risulta molto buono, diverso dal prog tradizionale. I Curved Air non hanno mai fatto veri e propri capolavori, ma la loro musica si è sempre mantenuta a livelli pregevoli, consentendo loro di creare una serie di album buoni nei quali c'è sempre almeno qualcosa di positivo o di notevole.
Se vi interessa vederli dal vivo, i Curved Air si sono riformati da un paio di anni, con il ritorno di alcuni membri originali, tra cui il grande Way, e hanno in programma qualche concerto in Maggio. Chissà che non approdino anche in Italia!
Voto: 8
domenica 21 marzo 2010
King Crimson - In The Wake of Poseidon (Island Records, 1970)
In che razza di situazione si trovava Robert Fripp quando iniziarono le session per "In The Wake of Poseidon"?
Quasi tutto il gruppo lo stava abbandonando: Ian McDonald (fiati) se n'era andato e Greg Lake (basso e voce) e Michael Giles (batteria) avevano appena deciso di seguirlo (Lake avrebbe formato i celeberrimi Emerson, Lake and Palmer mentre Giles collaborerà con McDonald per un album a nome McDonald and Giles).
Fripp quindi si trovò di colpo da solo con Peter Sinfield, il paroliere del gruppo. Con varie suppliche tentò comunque di convincere i membri uscenti del gruppo a restare per lo meno per le registrazioni del disco.
Giles accettò, McDonald rifiutò, e Lake volle registrare solo le parti cantate (tranne "Cadence and Cascade", cantata da Gordon Haskell che sostituirà Lake al basso e alla voce per l'album successivo, "Lizard") in cambio dell'impianto vocale dei King Crimson.
Il rimpiazzo bassistico di Lake, per questo album, era il fratello di Giles, Peter, mentre Mel Collins sostituì in pianta stabile McDonald ai fiati (e più avanti, anche al mellotron). Ad arricchire il suono venne aggiunto anche il pianista Keith Tippett, che non fu mai un membro ufficiale del gruppo, ma che collaborò anche altre volte con loro. Ovviamente, Fripp manteneva il suo ruolo di chitarrista, suonando però anche il mellotron.
Questa situazione molto fratturata risentì in parte anche sulla musica: indubbiamente infatti, molto dell'album attinge dal precedente "In The Court of the Crimson King" ("Pictures of a City" -> "21st Century Schizoid Man", "Cadence and Cascade" -> "I Talk to the Wind", "In the Wake of Poseidon" -> "Epitaph"). Ma questo però non è un buon motivo per disprezzare la musica qua contenuta, o per ignorarla: questo album infatti, offre comunque moltissimi spunti di interesse.
Il disco è intermezzato da tre brevi episodi intitolati "Peace". A parte il secondo dei quali, molto struggente (Fripp solo con l'acustica), sono però uno dei punti più bassi del disco (uno dei rari casi dove la voce di Lake risulta irritante) e anche la riedizione di "Mars: Bringer of War" del compositore Inglese Gustav Holst, qua intitolata "The Devil's Triangle" va troppo per le lunghe, e l'unico momento che sembra catturare la mia attenzione è quando durante il caos finale spunta dal nulla un frammento di "In The Court of the Crimson King".
Il resto del disco, però, è tutt'altra storia. La magistrale "Pictures of a City" (originariamente intitolata "A Man, A City") offre un ottimo contrasto tra forte e pianissimo, e la melodia vocale in se è eccellente. La title-track sebbene sia, come già citato, una specie di copia carbone di "Epitaph", a mio parere le è superiore (musicalmente parlando almeno): la voce di Lake risulta splendidamente, l'intermezzo strumentale ("Libra's Theme") è stupendo e il mellotron da il giusto tocco epico necessario. Secondo me, è il capolavoro del disco.
"Cadence and Cascade" è una dolce oasi tra questi due brani epici e "Cat Food" è un brano stranamente orecchiabile per i canoni Crimsoniani (sebbene vi sia una parte di piano molto free jazz) non a caso pubblicata anche come 45 giri (alcune edizioni in CD includono anche il lato B di "Cat Food", ovvero "Groon", un delirio strumentale di due minuti e mezzo come solo Fripp sapeva creare, che dal vivo, verrà esteso oltre i quindici minuti, come testimonia il live album del 1972 "Earthbound").
Tralasciando volontariamente i testi di Sinfield, che sono di difficile interpretazione, e per i quali bisognerebbe spendere paragrafi interi, "In the Wake of Poseidon" risulta sicuramente inferiore all'album di debutto, ma i lati positivi del disco sono talmente alti e il disco è suonato talmente bene, che sarebbe semplicemente ingiusto ignorarlo. Però procuratevi prima "In the Court of the Crimson King", ovviamente!
Voto: 8+
venerdì 19 marzo 2010
Duchenne Music Project - Duchenne Music Project (Inconsapevole, 2009)
Tracklist
Le spiegazioni sono dovute. Cos'è Duchenne Music Project? La biografia del progetto è la seguente: Matteo Caldari e Alessio Carli, di Inconsapevole Records, decidono di supportare Parent Project Onlus, associazione che si occupa della distrofia muscolare nota con il nome di Duchenne, scrivendo sedici pezzi poi registrati e incisi dagli stessi con l'aiuto di numerosi ospiti provenienti dal panorama underground italiano. Di lusso solo Olly dei The Fire, ma la nomea conta poco quando sono presenti anche tanti altri nomi di grande levatura artistica.
Nel primo brano, Innocence, si assiste ad un'eruzione pop di stampo puramente cantautorale all'americana (la stessa sensazione si avvertirà poi in Son Of Tomorrow e Pollyanna, entrambi ottimi pezzi) dai toni piuttosto pacati, tipo di approccio che la restante parte del disco stigmatizzerà. Proseguendo in ordine Anymore, con la sua tastiera blues e il suo mood in pieno delirio da felicità, grazie anche ai fiati sintetizzati e le voci del già citato Matteo Caldari e Valerio Casini degli ottimi Badloveexperience. Here I Am torna negli USA a recuperare di nuovo la tradizione pop/rock che nel tempo si è anestetizzata fino a cedere sotto il peso schiaccante delle chart (e infatti la rappresentano i Jonas Brothers negli ultimi tempi), ma che ha avuto in passato qualche grande nome. Qualcosa ricorderà anche famose cover dei Blues Brothers, ma scoprite voi quali. Idem per Cash, con un ottima performance di Fabio Fantozzi adatta al contesto ("Johnny Cash is coming back to town"). Come la seconda traccia rimaniamo indietro nel tempo con le influenze per Cicadas, dove la voce di Giacomo Vaccai dei Jackie O's Farm si fonde appieno con l'atmosfera piuttosto sommessa del brano. Rockettone con momenti ballabili e qualche tono ska/reggae soffuso in All My Moment (unico momento dove il distorto la fa da protagonista oltre a Goodbye My Friend, ballad punk rock per nulla "italianizzata" come molti artisti hanno pensato di fare negli ultimi anni. Non serve citarli per odiarli), e ottimo pop d'autore per The Artist, "artisticamente" (brutto gioco di parole) il pezzo più riuscito del disco. Chi conosce gli Eels alzi la mano? The Answer sembra presa direttamente dai primi lavori di Everett, e non è per nulla una brutta scelta in un album così variopinto. A concludere questo interessante lavoro una botta di malinconia assolutamente indimenticabile: Crossing The Roads, The Portrait Of My Sweet Storm, Dorothy e Sea of November sono tutti episodi più che pregevoli, tutti molto "tristi", gonfi di arpeggi strappalacrime e un continuo senso di vuoto, ma senza tagliarsi le vene.
Non si sta ascoltando infatti un disco emo, ma un disco di "solidarietà". La qualità dei brani per questo non va certo a comprometterne il significato, che al di là del valore dei singoli episodi che lo compongono (in quasi tutti i casi buono, a dire il vero) merita un elogio per l'umanità che dimostrano le persone che vi hanno partecipato e ancor di più quelle che lo hanno ideato. Il fratello minore del progetto Rezophonic, come lo definirebbero alcuni, si assesta quindi come un disco il cui unico filo conduttore musicale è un songwriting sempre pulito, semplice e senza sbavature, suonato da artisti competenti e, si, con un gran cuore. Quello che serve in questi casi.
Voto: 7.5
Le spiegazioni sono dovute. Cos'è Duchenne Music Project? La biografia del progetto è la seguente: Matteo Caldari e Alessio Carli, di Inconsapevole Records, decidono di supportare Parent Project Onlus, associazione che si occupa della distrofia muscolare nota con il nome di Duchenne, scrivendo sedici pezzi poi registrati e incisi dagli stessi con l'aiuto di numerosi ospiti provenienti dal panorama underground italiano. Di lusso solo Olly dei The Fire, ma la nomea conta poco quando sono presenti anche tanti altri nomi di grande levatura artistica.
Nel primo brano, Innocence, si assiste ad un'eruzione pop di stampo puramente cantautorale all'americana (la stessa sensazione si avvertirà poi in Son Of Tomorrow e Pollyanna, entrambi ottimi pezzi) dai toni piuttosto pacati, tipo di approccio che la restante parte del disco stigmatizzerà. Proseguendo in ordine Anymore, con la sua tastiera blues e il suo mood in pieno delirio da felicità, grazie anche ai fiati sintetizzati e le voci del già citato Matteo Caldari e Valerio Casini degli ottimi Badloveexperience. Here I Am torna negli USA a recuperare di nuovo la tradizione pop/rock che nel tempo si è anestetizzata fino a cedere sotto il peso schiaccante delle chart (e infatti la rappresentano i Jonas Brothers negli ultimi tempi), ma che ha avuto in passato qualche grande nome. Qualcosa ricorderà anche famose cover dei Blues Brothers, ma scoprite voi quali. Idem per Cash, con un ottima performance di Fabio Fantozzi adatta al contesto ("Johnny Cash is coming back to town"). Come la seconda traccia rimaniamo indietro nel tempo con le influenze per Cicadas, dove la voce di Giacomo Vaccai dei Jackie O's Farm si fonde appieno con l'atmosfera piuttosto sommessa del brano. Rockettone con momenti ballabili e qualche tono ska/reggae soffuso in All My Moment (unico momento dove il distorto la fa da protagonista oltre a Goodbye My Friend, ballad punk rock per nulla "italianizzata" come molti artisti hanno pensato di fare negli ultimi anni. Non serve citarli per odiarli), e ottimo pop d'autore per The Artist, "artisticamente" (brutto gioco di parole) il pezzo più riuscito del disco. Chi conosce gli Eels alzi la mano? The Answer sembra presa direttamente dai primi lavori di Everett, e non è per nulla una brutta scelta in un album così variopinto. A concludere questo interessante lavoro una botta di malinconia assolutamente indimenticabile: Crossing The Roads, The Portrait Of My Sweet Storm, Dorothy e Sea of November sono tutti episodi più che pregevoli, tutti molto "tristi", gonfi di arpeggi strappalacrime e un continuo senso di vuoto, ma senza tagliarsi le vene.
Non si sta ascoltando infatti un disco emo, ma un disco di "solidarietà". La qualità dei brani per questo non va certo a comprometterne il significato, che al di là del valore dei singoli episodi che lo compongono (in quasi tutti i casi buono, a dire il vero) merita un elogio per l'umanità che dimostrano le persone che vi hanno partecipato e ancor di più quelle che lo hanno ideato. Il fratello minore del progetto Rezophonic, come lo definirebbero alcuni, si assesta quindi come un disco il cui unico filo conduttore musicale è un songwriting sempre pulito, semplice e senza sbavature, suonato da artisti competenti e, si, con un gran cuore. Quello che serve in questi casi.
Voto: 7.5
giovedì 18 marzo 2010
Zidima - Cobardes (autoproduzione/Mousemen, 2010)
Tonnellate di distorsione per il milanoise di questi Zidima. Sarà che i gruppi italiani degli anni zero sono cresciuti a pane e Marlene Kuntz (o CCCP/CSI, Afterhours, Litfiba, primi Verdena), e che anche gli Zidima non fanno eccezione. Sarà che tutti i gruppi citati sono stati talmente geniali da rendere interessanti persino i lavori d'imitazione più palese e che il sottoscritto gradisce e gradirà sempre chi si ispira a questi.
C'è una verità non detta dietro a tutto ciò, che rischia di passare se non si specificano alcune cose. Gli Zidima, soprattutto la voce di Manuel Cristiano Rastaldi, suonano terribilmente identici ai primi dischi di Cristiano Godano e soci. Per questo c'è chi potrebbe gridare alla scarsità di originalità, al copia e incolla. Ma come si dice, chi se ne fotte. "Cobardes" è tutto sommato un ottimo disco. Come si era già sentito in Italia solo poche volte, magari con i ferraresi Devocka e qualcun altro, negli ultimi tempi.
Il disco esplode con una potenziale hit da "alternative radio station" con Flipp3r, primo brano subito pronto a divampare con la sua carica profondamente grunge (l'eredità del fenomeno post-Seattle invasion non risparmia nessuno), poi con la già citata Milanoise e Diaz, completando il primo trittico di brani con il martellare incessante di una batteria precisa e che mai esagera, rimanendo nei canoni del q.b. per non spaventare nessuno. La voce rimane troppo simile a Cristiano per parlare di novità o particolari caratteristiche canore, però i testi hanno il loro perché, utilizzando un lessico confacente al genere, e passando anche per l'impegno politico di Diaz che rievoca brutti ricordi della storia recente di questa triste Italia. "Solo un altro colpo". Le derive noise che la band ci tiene a precisare sono quantomai evidenti, nei brani già citati ma poi ulteriormente in A Testa In Giù e Ci Accontentiamo, pezzi dotati di una struttura per nulla banale, e un'atmosfera resa tiepida dalla presenza di fuzz ed overdrive che rievocano le vecchie sperimentazioni di My Bloody Valentine, Sonic Youth e i primi scienziati dello shoegaze e del post-rock. Ancora più MK in Catrame, dove le linee di basso, meritevoli di nota non solo in questo pezzo, scandiscono il ritmo della canzone che esplode a più riprese in momenti di grande potenza sottolineati dalle liriche: "adagio catrame sopra il tuo petto". I segmenti più melodici del disco si trovano in fondo, prima Elenoire, ricettacolo di tutto l'insieme di influenze post-grunge, che si sentono relativamente poco nel resto del disco, ma che qui sono quantomai evidenti. "Li puoi valutare gli squarci, tesoro?" Questa la frase-simbolo dell'ultimo brano, Contatti, canzone in continuo crescendo dal testo discretamente emo (in realtà oltremodo fico), che decreta il punto artistico più alto del disco.
Ma chi l'ha detto che somigliare ai "grandi nomi" degli Italian nineties significa per forza copiare? Con tutto quello che hanno avuto da dire poi. Questo disco, proprio come la sorpresa del 2009, Perché Sorridere, dei Devocka, è una reale e pregevole dimostrazione di come in Italia fare alternative si possa ancora. Senza essere accusati di plagio, di anacronismo, di forzature. Alla fine dei conti il disco fila liscio, si assesta su quel tipo di canale che piacerà senz'altro ai fan dei gruppi citati sopra. Senza sé e senza ma.
Exceptionnel.
Voto: 8
mercoledì 17 marzo 2010
Piano For Airport - Another Sunday On Saturn (autoprodotto, 2010)
Tracklist
I Piano For Airport. Ma chi lo conosce, i Piano For Airport? Appunto. Per questo hanno il loro perché. Perché se fossero una band rinomata, con il loro bel stuolo di fanecchi pronti a tutto per sostenerli, probabilmente sarebbero meno rilassati e non produrrebbero lavori come questi. La verità, infatti, è che "Another Sunday On Saturn" è un gran disco, che segue un ottimo debutto, che passò sotto il nome "Much More EP" agli onori della critica delle webzine più underground della rete, dalle sonorità gelide e ricercate, simile ai connazionali Giardini di Mirò o Armstrong?. C'è la tentazione di rifuggire verso l'estero, nelle influenze messe in campo, ma la pronuncia tradisce, come al solito, ogni dubbio.
Le prime note che seguono il tasto play sono quelle di We Are Coming Up With A Light Jump, Overturn the Lap e Monkey Theorem, un trittico di potenziali hit per playlist indie/alternative di stazioni radio su web, con la loro potenza quasi post-destrutturalizzante, scomponibili in sezioni più aggressive ed altre, più frequenti, fortemente melodiche e votate ad un senso di tiepido relax, al quale sono estremamente tendenti gli arpeggi e gli inserimenti di synth soprattutto del terzo pezzo. Si continua poi con y-eL e la sua struttura compatta ma disomonogenea, complice una ritmica non troppo incisiva ma che fa compiere così al pezzo un percorso unico, che parte e finisce deciso su una traiettoria mai deviata. Insomma, un gran brano. Le pieghe più elettroniche vengono esplorate con grande consapevolezza e un certo "savoir faire" sintetico in Tired Eyes e 20 years-old killer revolver, la seconda un inquietante viaggio di toni quasi dark/horror per l'improbabile soundtrack di un inseguimento tra carrelli della spesa. S.O.S. (Sink or Swim) è la decadente terminazione di una pista di decollo per aerei carichi di malinconia, colmi di spavento e una certa vena ironica, spezzati dagli strumenti della band per essere poi ricomposti in una bozza, riuscitissima, completamente diversa dal prodotto originale.
Questo disco non è facile da recensire. E' giusto ammetterlo. Sarà che si ascoltano dischi come questo giorno e notte, da quando la musica rock e la cultura del post-tutto sono diventate a loro volta pane per i denti di chiunque. Diciamo meglio, accessibili. I Piano for Airport hanno un grande pregio: quello di saper superare tutti gli ostacoli che comporre canzoni con questi ingredienti comporta. I meccanismi di difesa della band riescono a superare infatti i rischi concreti di assemblare brani troppo macchinosi e perciò noiosi, evitando ridondanze e ripetizioni, essendo sempre schietti, semplici ma non per questo banali e creando un lavoro pieno e a tutto tondo, sbozzato e smussato al punto giusto da non risultare mai la copia di sé stesso né di altri lavori già sentiti nel panorama italiano o internazionale. Squisita pietanza per palati raffinati, in Italia e fuori. Ascoltatelo.
Voto: 8
I Piano For Airport. Ma chi lo conosce, i Piano For Airport? Appunto. Per questo hanno il loro perché. Perché se fossero una band rinomata, con il loro bel stuolo di fanecchi pronti a tutto per sostenerli, probabilmente sarebbero meno rilassati e non produrrebbero lavori come questi. La verità, infatti, è che "Another Sunday On Saturn" è un gran disco, che segue un ottimo debutto, che passò sotto il nome "Much More EP" agli onori della critica delle webzine più underground della rete, dalle sonorità gelide e ricercate, simile ai connazionali Giardini di Mirò o Armstrong?. C'è la tentazione di rifuggire verso l'estero, nelle influenze messe in campo, ma la pronuncia tradisce, come al solito, ogni dubbio.
Le prime note che seguono il tasto play sono quelle di We Are Coming Up With A Light Jump, Overturn the Lap e Monkey Theorem, un trittico di potenziali hit per playlist indie/alternative di stazioni radio su web, con la loro potenza quasi post-destrutturalizzante, scomponibili in sezioni più aggressive ed altre, più frequenti, fortemente melodiche e votate ad un senso di tiepido relax, al quale sono estremamente tendenti gli arpeggi e gli inserimenti di synth soprattutto del terzo pezzo. Si continua poi con y-eL e la sua struttura compatta ma disomonogenea, complice una ritmica non troppo incisiva ma che fa compiere così al pezzo un percorso unico, che parte e finisce deciso su una traiettoria mai deviata. Insomma, un gran brano. Le pieghe più elettroniche vengono esplorate con grande consapevolezza e un certo "savoir faire" sintetico in Tired Eyes e 20 years-old killer revolver, la seconda un inquietante viaggio di toni quasi dark/horror per l'improbabile soundtrack di un inseguimento tra carrelli della spesa. S.O.S. (Sink or Swim) è la decadente terminazione di una pista di decollo per aerei carichi di malinconia, colmi di spavento e una certa vena ironica, spezzati dagli strumenti della band per essere poi ricomposti in una bozza, riuscitissima, completamente diversa dal prodotto originale.
Questo disco non è facile da recensire. E' giusto ammetterlo. Sarà che si ascoltano dischi come questo giorno e notte, da quando la musica rock e la cultura del post-tutto sono diventate a loro volta pane per i denti di chiunque. Diciamo meglio, accessibili. I Piano for Airport hanno un grande pregio: quello di saper superare tutti gli ostacoli che comporre canzoni con questi ingredienti comporta. I meccanismi di difesa della band riescono a superare infatti i rischi concreti di assemblare brani troppo macchinosi e perciò noiosi, evitando ridondanze e ripetizioni, essendo sempre schietti, semplici ma non per questo banali e creando un lavoro pieno e a tutto tondo, sbozzato e smussato al punto giusto da non risultare mai la copia di sé stesso né di altri lavori già sentiti nel panorama italiano o internazionale. Squisita pietanza per palati raffinati, in Italia e fuori. Ascoltatelo.
Voto: 8
martedì 16 marzo 2010
Marlene Kuntz - Cercavamo Il Silenzio (Consorzio Produttori Indipendenti/Virgin, 2009)
Tracklist
Tutte le volte che si citano i Marlene Kuntz tutto il panorama alternative degli anni '90 ritorna alla mente. Afterhours, CCCP, Verdena, i primi Litfiba e Timoria, Ritmo Tribale, Scisma. I soliti nomi. Si leggono su YouTube e forum vari imbarazzanti diverbi su chi sia il più grande cantante rock italiano, prendendoli tra questi nomi, e la sfida tra Manuel Agnelli e Cristiano Godano sembra non avere fine. C'è da dire che non c'è storia, Agnelli vince 10 a 1, ma sinceramente sembra abbastanza palese che la tecnica di Renga non ce l'ha nessuno degli altri citati.
Lasciato perdere questo inutile incipit, il disco che si sta per recensire è un lavoro delicato, quindi bando alle ciance. Un live. L'ennesimo dei Marlene, ancora una volta (forse per ragioni di contratto) pronti a spezzare la loro carriera discografica con inserimenti abbastanza forzati di concerti, best of, EP vari. Il che sarebbe un problema, se non che la qualità delle release di Godano e soci è sempre elevatissima. Questo "Cercavamo Il Silenzio" propone essenzialmente un riadattamento teatrale dei set molto potenti della formazione piemontese, che si spengono qui in toni più soffusi, quasi "silenziosi", come suggerisce il titolo. Non mancano le distorsioni, seppur leggere, ma palpita nell'aria un'atmosfera elettrostatica più che elettrica, quasi calamitante, magnetica. In queste tracce, riprese al Teatro Sannazaro di Napoli, i Marlene appaiono spogliati di tutta la loro elettrizzante aggressività, che ha sempre caratterizzato i loro fulminati concerti. Tutta la malinconia e la dolcezza, fuse con la poesia erotica e sensuale di Cristiano, sempre pronto a rimodellare le onde sonore delle sue canzoni come plastilina modificabile in ogni possibile modo e maniera, in questo caso contaminandole con una sommessa vena noise inquinata di art rock evanescente, languido, tiepido, vengono alla luce in un fiato, come elemento di coesione determinante per comprendere il disco. "Uno: Live in Love" era il nome del tour. L'amore è il tema portante delle canzoni scelte per la setlist (su cui spiccano per resa La Lira di Narciso e Canzone Sensuale), e questo spettacolo sembra quasi coltivato in una provetta, esperimento di intime atmosfere e impalpabili arpeggi gonfi di delay e riverberi post-decadenti (La Mia Promessa), allucinante testimonianza della versatilità di una band tanto multiforme da fuggire ad ogni definizione e contestualizzazione. Musica come forma d'arte, nobilitando la sua funzione ludica quasi ad un fine catartico, devoto ad un'interpretazione emozionale dei moti dell'animo (la favola conclusiva Il Vortice, stucchevole quanto pregevole momento poetico del frontman sempre più propriamente definibile "artista" quando si cala in vesti di narratore più che di musicista).
Alla fine dell'ascolto di questo disco, appesantito solo dai quindici (troppi) minuti di Sonica (e fanculo tutte le pippe da critici snob dell'ultim'ora riguardo possibili sovraincisioni eccetera), proposta in realtà in una veste assolutamente nuova ed originale, si percepisce come un senso di relax, un rilassamento che non deriva dalla stanchezza consecutiva ad ore di estenuanti fatiche, ma dopo una bizzarra cura a base di raffinatezze e ricercatezze acustiche provenienti soprattutto dalle chitarre di Tesio e Godano, aiutate da una sezione ritmica talmente appiattita da risultare sofferente (il grande Bergia ridotto a pochi colpi, sempre precisissimi ed azzeccatissimi, si intende), arriva un momento in cui ogni centro sensoriale si addormenta. E stop. Cercavamo il silenzio, ed eccolo. Cala il sonno insieme all'estasi per queste note, come una sensazione, più verosimile e credibile che mai, che band come queste non smetteranno mai di stupire. Grazie Marlene.
Non è facile riuscire a descrivere il tipo di sensazioni che produce tutto questo groviglio in cui mi trovo ora.
Dovrei porre a premessa che il loro rivelarsi alla mia sensibilità non avvenne in un particolare istante, ma s’irradiò maestoso volta dopo volta, diventando unica ricorrente esperienza globale di anima e corpo.
E che nel corso degli anni ho imparato ad affrontare con ragionevole ottimismo il superamento di ogni nuova cateratta che opponevo allo scorrere della fiumana.
L’impeto degli eventi sempre più ha gonfiato i suoi muscoli lavorando sui millimetri della mia acquiescenza complice e raggiungendo anfratti inesplorati e nascosti, avviluppandomi nella sua tensione centripeta e sparpagliandomi con la sua occasionale necessità centrifuga
Voto: 8
sabato 13 marzo 2010
My Glorious - Home is Where The Heart Breaks (2010
Tracklist
Diciamo che la scena indie austriaca non è per nulla famosa qui da noi. Aggiungiamoci che l'Italia è come sempre troppo chiusa mentalmente per accettare realtà musicali estranee e, più in generale, il rock, sempre troppo snobbato da MTV nonostante i timidi tentativi di avvicinamento di certi programmi infilati a forza nel palinsesto. La chiave di tutto questo è un condizionale. E se invece tutte queste band del panorama indie avessero il totale controllo delle emittenti radio e TV? Sarebbe la stessa cosa? Probabilmente tante morirebbero dopo poco tempo, tante dovrebbero commercializzarsi così tanto da diventare ridicole e ci sarebbe un pullulare di merchandising ancora più invasivo e ridicolo che comprometterebbe la serietà del movimento. La cosa è parzialmente già successa.
Voto: 7.5
Ora immaginando i My Glorious in una video rotation risulta abbastanza difficile comprendere chi se li filerebbe. Nonostante ciò, questo "Home Is Where The Heart Breaks" è un ottimo disco, di pregevole fattura e assolutamente imprevedibile nei suoi sviluppi, una serie di vie e viuzze interne che si diramano come capillari all'interno di un complesso sistema circolatorio (ma suvvia, perché dev'essere per forza quello umano?) percorrendo i percorsi più disparati. In un certo momento gli U2 e i Coldplay sembrano le principali influenze (Blue Horizon e Horse, la seconda con connotazioni più indie classiche, da Wire, Pavement et similia), in altri dei beat di elettronica (o pseudoelettronica) ci riportano ai Nine Inch Nails (tenuto conto che la voce in alcune delle sue sfumature ricorda proprio il Trent Reznor dei tempi migliori), soprattutto in brani come Break My Heart, con la sua base new wave al fulmicotone che tenta di sfuggire dalle leggi della gravità con continue impennate di chitarra in power chord prelevate dai più sfrontati Joy Division (oggi in questo aspetto reincarnati nei The Hives), e You Should Be Dancing, con il suo pulsare techno nell'incipit di traccia prima dell'irruzione del basso simil-sintetizzato a preambolo di un'incursione molto franzferdinandiana, anche se la voce ricorda altri mondi (un po' Liam Gallagher, un po' gli Sparta, gli Snow Patrol o Richard Ashcroft. Gran miscuglio) volendo neanche troppo distanti da quanto si sta ascoltando. Gli austriaci poi infilano le stesse violente combinazioni di distorto e ballabilità del brano, in salsa indie pop/new wave condita con pochi sintetizzatori a vivacizzarnne il contenuto, in Blind Believer, che si inerpica in cambi di tempo il cui picco massimo è raggiunto senz'altro dalla sezione dimezzata al centro, o Atmosphere e il suo piglio da NIN inaciditi dalle chitarre di Keith Richards. Ma ora si pretende troppo. Tutti i brani sono a loro modo piccole perle indie, a volte più folk o alternative, ma sempre terra terra, come le lente ed atmosferiche It's Love When (qua si che ci si vede bene Chris Martin) e Horse, non tralasciando la tesa strumentale finale Timetraveller con i suoi inquietanti rumori da "dietro la porta di uno sgabuzzino mentre l'epidemia di zombie di là sta dilagando inarrestabile". Insomma, datela a Romero e saprà cosa farne.
Aspettarsi dischi del genere dalla scena d'oltralpe non è cosa facile. Si pensa sempre alle loro affezioni metal o hard rock, poco a quanto possano tirare fuori piccoli gioiellini di pop rock contaminato da vibrazioni elettroniche che passano tutta la storia del genere, da Jimi Hendrix e i Rolling Stones fino ai più moderni Wilco, Oasis, Interpol ecc. Nomi a parte, un disco colmo di citazioni (non quelle dirette inserite volontariamente, chiamiamole meglio "influenze", anche se il termine può tradire), un lemmario di diverse nuances che interpretato con la giusta chiave di lettura rivela il reale valore dei My Glorious, un valore che va ben altro l'assimilazione forzosa di materiale ascoltato alla bell'e meglio, come uno scorrimento veloce della recensione può lasciar presupporre, ma un accostamento ponderato e ben calibrato di tutti gli ascolti fatti negli anni dai vari membri della band, pesati al punto giusto da produrre un disco assolutamente originale, per nulla anacronistico, che suona attuale senza apparire banale, aiutato anche dalla tecnica piuttosto sopra le righe degli strumentisti ed una produzione non eccezionale ma di qualità, affidata al buon nome di Raphael Spannocchi, già noto nell'ambiente. Insomma, un disco da prendere con le pinze e da sviscerare lentamente. Se avete fretta, ascoltate altro.
Voto: 7.5
venerdì 12 marzo 2010
Spoon - Transference (Merge, 2010)
Gli Spoon sono una band indie rock texana, o così dicono, attiva ormai da quasi vent'anni, con un curriculum di tutto rispetto. Avendo già proposto i suoi dischi migliori, investe il pubblico con una proposta non molto originale rispetto alla produzione passata, rimanendo comunque su livelli decisamente buoni. Un disco come "Transference" trova il suo perché nel momento in cui, dopo qualche ascolto (ne bastano pochi per cogliere l'aspetto superficiale, qualcuno di più per scoprire avvallamenti ed escoriazioni più profonde), ti premia con la sua grande combinazione di stilemi indie più o meno utilizzati dal panorama mainstream e qualche apprezzabile apporto personale della band medesima, combinazione di cui si fregia con un appeal catchy ma da non sottovalutare.
L'intensità del lavoro allontana i primi dubbi sull'invecchiamento della band con il trittico che lo inaugura, Before Destruction e la sua incisività quasi folk-cantautorale da parassitismo post-dylaniano (niente di negativo in realtà), che un po' ricorda gli Wilco, per penetrare poi nell'indie preso dal testamento dei Pixies (e magari un po' dei Butthole Surfers) di Is Love Forever? e la conseguenza di un'iniezione di spensieratezza neanche tanto a passo coi tempi ai Dandy Warhols e ai Verve (oddio che nomi!) che prende qui il nome di The Mystery Zone. Indie è una brutta definizione. Per questo chi ascolta questo album non si renderà conto di tutte le sfumature ma tenderà a snobbarlo. L'importante è sapere che brani come Written In Reverse, rallentamento di un brano degli Strokes (ritorniamo qui anche con Out Go The Lights e la bella Trouble Comes Running) con tutte le sue involuzioni à-la-Lou Reed rivisitato in salsa My Morning Jacket senza troppi fronzoli, e il veloce I Saw The Light che prima delle variazioni sul tema centrale puzza di Liam Gallagher americanizzato, non vengono certo da menti fredde ed assoggettate alla logica delle major come si crede quando si nomina, ormai, la parola "indie". Che palle, la parola indie. Questo è quasi meglio definibile art-rock, ed è per questo che la grazia di Goodnight Laura, quasi everettiana (meglio detto Mr Eels), o il garage punk di Got Nuffin che puzza pesantemente di Devo contaminati di dark tanto da diventare i Joy Division. Marea di nomi importanti per dire che questo non è un disco privo di influenze e sorprende la coesione dei vari elementi fino a mischiare il tutto con un'originalità preventivamente gonfiata dalle premesse gettate dai dischi precedenti. E il dubbio se ne va definitivamente con l'ultimo brano, Nobody Gets Me But You, che inganna con una falsa partenza quasi fosse un outtake di Thriller di Michael Jackson, per diventare poi pop d'autore alla buona ripreso dagli archivi dei Kraftwerk meno minimali (comunque tanto, tanto minimali) per concludersi in un incedere di rumori "industriali" da catena di montaggio proprio come questo riferimento critico suggerirebbe. Siamo lì.
Britt Daniel è tutto sommato un buon frontman, tecnicamente al passo con gli altri e una spanna sopra molti dei gruppi che si vantano delle stesse etichette di questa band. I testi non sono particolarmente interessanti, ma conta poco in un disco dall'aria pop ma dall'impeto pesantemente punk rock, veloce e graffiante, disteso ed autocelebrativo, quanto basta per non risultare né palloso né esibizionista. Vi basta? Vaffanculo devo smetterla di leggere le recensioni di Rolling Stone.
Voto: 7.5
L'intensità del lavoro allontana i primi dubbi sull'invecchiamento della band con il trittico che lo inaugura, Before Destruction e la sua incisività quasi folk-cantautorale da parassitismo post-dylaniano (niente di negativo in realtà), che un po' ricorda gli Wilco, per penetrare poi nell'indie preso dal testamento dei Pixies (e magari un po' dei Butthole Surfers) di Is Love Forever? e la conseguenza di un'iniezione di spensieratezza neanche tanto a passo coi tempi ai Dandy Warhols e ai Verve (oddio che nomi!) che prende qui il nome di The Mystery Zone. Indie è una brutta definizione. Per questo chi ascolta questo album non si renderà conto di tutte le sfumature ma tenderà a snobbarlo. L'importante è sapere che brani come Written In Reverse, rallentamento di un brano degli Strokes (ritorniamo qui anche con Out Go The Lights e la bella Trouble Comes Running) con tutte le sue involuzioni à-la-Lou Reed rivisitato in salsa My Morning Jacket senza troppi fronzoli, e il veloce I Saw The Light che prima delle variazioni sul tema centrale puzza di Liam Gallagher americanizzato, non vengono certo da menti fredde ed assoggettate alla logica delle major come si crede quando si nomina, ormai, la parola "indie". Che palle, la parola indie. Questo è quasi meglio definibile art-rock, ed è per questo che la grazia di Goodnight Laura, quasi everettiana (meglio detto Mr Eels), o il garage punk di Got Nuffin che puzza pesantemente di Devo contaminati di dark tanto da diventare i Joy Division. Marea di nomi importanti per dire che questo non è un disco privo di influenze e sorprende la coesione dei vari elementi fino a mischiare il tutto con un'originalità preventivamente gonfiata dalle premesse gettate dai dischi precedenti. E il dubbio se ne va definitivamente con l'ultimo brano, Nobody Gets Me But You, che inganna con una falsa partenza quasi fosse un outtake di Thriller di Michael Jackson, per diventare poi pop d'autore alla buona ripreso dagli archivi dei Kraftwerk meno minimali (comunque tanto, tanto minimali) per concludersi in un incedere di rumori "industriali" da catena di montaggio proprio come questo riferimento critico suggerirebbe. Siamo lì.
Britt Daniel è tutto sommato un buon frontman, tecnicamente al passo con gli altri e una spanna sopra molti dei gruppi che si vantano delle stesse etichette di questa band. I testi non sono particolarmente interessanti, ma conta poco in un disco dall'aria pop ma dall'impeto pesantemente punk rock, veloce e graffiante, disteso ed autocelebrativo, quanto basta per non risultare né palloso né esibizionista. Vi basta? Vaffanculo devo smetterla di leggere le recensioni di Rolling Stone.
Voto: 7.5
giovedì 11 marzo 2010
Afterhours Live @ Teatro delle Celebrazioni, Bologna, 10 Marzo 2010
C'erano tanti motivi per essere al Teatro delle Celebrazioni di Bologna il dieci marzo. La netta sensazione che per una volta avrebbero lasciato fuori dalla scaletta i soliti tormentoni in favore di rarities più care ai fan, la fondata previsione che la teatralità degli Afterhours si sarebbe riversata come un fiume in piena nell'atmosfera intima di un teatro sui sempre fedeli fan che anche stavolta hanno partecipato con il calore che poche fan base italiane sanno dare. C'erano anche grandi ospiti, l'ex Xabier Iriondo e lo Gnu Quartet, tanto cari ad Agnelli da averli portati addirittura nella "superband" che ha presentato al Primo Maggio di Roma del 2009.
Calandosi nel vivo della performance, occorre subito scorrere velocemente la scaletta. Le tre sezioni del live (separate dalle consuete due pause a cui i fan sono ormai abituati) sono concluse rispettivamente da Ritorno A Casa, tra le sorprese della scaletta, Orchi e Streghe Sono Soli (la sola, con E' Solo Febbre e Tarantella All'Inazione a provenire dall'ultimo criticato disco "I Milanesi Ammazzano Il Sabato") e Il Mio Ruolo, conclusa con un'uscita dal palco membro per membro che ha creato anche un po' di "scena", come alcuni si lamentano di non trovare negli Afterhours più recenti. Dai primi tre dischi escono brani rari come Posso Avere Il Tuo Deserto, Ho Tutto In Testa Ma Non Riesco a Dirlo e Musicista Contabile, i secondi due eseguiti particolarmente bene rispetto agli standard troppo "melodici" dei loro ultimi tempi, la prima ottima ma comunque scarica. Il resto non fa certo rimpiangere il passato, se canzoni come Punto G sono eseguite con la stessa furia dei bei tempi andati, e non ci si risparmia neanche le strappalacrime Oceano di Gomma (con Agnelli al suo amato pianoforte), Male In Polvere e Come Vorrei, impreziosita dallo Gnu Quartet, protagonista di un solo insieme a Manuel in La Vedova Bianca e Pelle, proposta in una versione a dir poco sublime, superiore a quella elettrica degli ultimi tour. Iriondo ha partecipato con strumenti particolari, come il theremin, a "rumorismi" di fondo per le letture di Ennio Flaiano, quattro in tutto, lette da Agnelli con un trasporto che alcuni in platea hanno definito "sensuale", e a riempire Simbiosi e Senza Finestra, canzoni che effettivamente senza di lui non avevamo più sentito eseguite come su disco.
Dal punto di vista tecnico la band trova così la sua dimensione perfetta. La condizione calante di Manuel Agnelli, non dovendo urlare né sforzarsi particolarmente, scompare così in una performance eccelsa, tranne un paio di sviste sui testi che sono quasi un marchio di fabbrica. Giorgio Prette che sembra obbedire ad un ordine tipo "picchia meno forte che puoi" si trova abbastanza fuoriluogo ma riesce sempre a cavarsela con i suoi ritmi tanto semplici quanto distintivi, cementati dall'apporto ritmico di Ciccarelli e Rodrigo d'Erasmo, impegnato tanto al violino quanto alla chitarra, lasciando come membro "meno utile" della band il povero Roberto Dell'Era che ci si chiede solamente quanto sia utile al basso. Un personaggio in ogni caso inseparabile dai "nuovi" Afterhours. La partecipazione degli ospiti che ha contribuito a "riscaldare" l'atmosfera ha reso questo live ancora più indimenticabile, sotto certi punti di vista tra i migliori che potevano proporre a questo punto della loro carriera; e chi si lamenta dell'assenza in scaletta di "Quello Che Non C'è" o "Non E' Per Sempre" semplicemente dovrebbe approfondire di più i loro dischi, per scoprire che un live senza queste canzoni, se ci sono i pezzi sopra citati non perde neanche un centesimo del suo valore. Eccezionali.
Ecco la setlist:
LETTURA da IL MERAVIGLIOSO TUBETTO
LETTURA ENNIO FLAIANO 1 (con base CI SONO MOLTI MODI)
TARANTELLA ALL'INAZIONE
MUSICISTA CONTABILE
POSSO AVERE IL TUO DESERTO
SIMBIOSI
SENZA FINESTRA
ICEBOX
HO TUTTO IN TESTA MA NON RIESCO A DIRLO
1996
LETTURA ENNIO FLAIANO 2
BALLATA PER LA MIA PICCOLA IENA
OCEANO DI GOMMA
IL PAESE E' REALE
VARANASI BABY
RITORNO A CASA
---bis---
LETTURA ENNIO FLAIANO 3
LA VEDOVA BIANCA
ORCHI E STREGHE SONO SOLI
---bis2---
COVER
COME VORREI
MALE IN POLVERE
LA GENTE STA MALE
IL MIO RUOLO
mercoledì 10 marzo 2010
Good Times is When Bands Play
Nuova rubrica per Good Times Bad Times, senza nome come chi vuol fare il figo perché può metterne uno diverso ogni volta, ma anche per rappresentare la diversità degli argomenti trattati all'interno. In realtà l'unica pretesa è quella di consigliare quali concerti andare a vedere, con una localizzazione geografica abbastanza ristretta, a dire il vero. Il fatto che chi scrive sia di Rovigo in effetti è abbastanza determinante perché la verità è che questi sono concerti che vorrei vedere io e che per questo consiglio a voi, quindi se siete di Roma, di Aosta o di Sassari, mi dispiace per voi. Qualche volta tenterò di sfuggire dal focusing territoriale in modo da non darvi troppo fastidio, ma non vi prometto niente. Smetterò di guardare Top Gear per essere meno stronzo di Clarkson, se possibile (nonostante sia un figo eh).
10.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro delle Celebrazioni, Bologna
12.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Colosseo, Torino
12.03.2010 MINISTRI: White Trash, Berlino
12.03.2010 LES CLAYPOOL: Estragon, Bologna
12.03.2010 THE CALORIFER IS VERY HOT & DAMIEN - Covo, Bologna
13.03.2010 MINISTRI: Kulturbrauerei, Berlino
13.03.2010 IL TEATRO DEGLI ORRORI: Estragon, Bologna
16.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Smeraldo, Milano
16.03.2010 YOSHMALO: Fahrenheit 451, Padova
18.03.2010 IL PAN DEL DIAVOLO: Porcupine Pub, Ariano Nel Polesine (RO)
19.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Valli, Reggio Emilia
19.03.2010 DIAFRAMMA: Renfe, Ferrara
19.03.2010 RETROLOVER: Fahrenheit 451, Padova
20.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Comunale, Firenze
20.03.2010 LIMES: Tetris, Trieste
20.03.2010 MY AWESOME MIXTAPE: Covo, Bologna
20.03.2010 ZEN CIRCUS: Shindy Club, Bassano del Grappa (VI)
21.03.2010 PAN DEL DIAVOLO: Locomotiv, Bologna
23.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Auditorium Conciliazione, Roma
25.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Carisport, Cesena
26.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Gran Teatro, Padova
26.03.2010 IL TEATRO DEGLI ORRORI: Onirica, Parma
26.03.2010 NOTWIST: Estragon, Bologna
26.03.2010 LE VIBRAZIONI: New Age, Roncade (TV)
27.03.2010 CALIBRO 35: Estragon, Bologna
27.03.2010 IL TEATRO DEGLI ORRORI: Deposito Giordani, Pordenone
27.03.2010 MASSIMO VOLUME & GIARDINI DI MIRO' + DJ SET DI MANUEL AGNELLI - Covo, Bologna
27.03.2010 PENELOPE SULLA LUNA - Patchanka, Pontelagoscuro (FE)
27.03.2010 PORT-ROYAL - Zuni, Ferrara
29.03.2010 LISA GERMANO & PHIL SELWAY - Sala Estense, Ferrara
30.03.2010 LISA GERMANO & PHIL SELWAY - Covo, Bologna
10.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro delle Celebrazioni, Bologna
12.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Colosseo, Torino
12.03.2010 MINISTRI: White Trash, Berlino
12.03.2010 LES CLAYPOOL: Estragon, Bologna
12.03.2010 THE CALORIFER IS VERY HOT & DAMIEN - Covo, Bologna
13.03.2010 MINISTRI: Kulturbrauerei, Berlino
13.03.2010 IL TEATRO DEGLI ORRORI: Estragon, Bologna
16.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Smeraldo, Milano
16.03.2010 YOSHMALO: Fahrenheit 451, Padova
18.03.2010 IL PAN DEL DIAVOLO: Porcupine Pub, Ariano Nel Polesine (RO)
19.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Valli, Reggio Emilia
19.03.2010 DIAFRAMMA: Renfe, Ferrara
19.03.2010 RETROLOVER: Fahrenheit 451, Padova
20.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Teatro Comunale, Firenze
20.03.2010 LIMES: Tetris, Trieste
20.03.2010 MY AWESOME MIXTAPE: Covo, Bologna
20.03.2010 ZEN CIRCUS: Shindy Club, Bassano del Grappa (VI)
21.03.2010 PAN DEL DIAVOLO: Locomotiv, Bologna
23.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Auditorium Conciliazione, Roma
25.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Carisport, Cesena
26.03.2010 AFTERHOURS (Tour Teatrale): Gran Teatro, Padova
26.03.2010 IL TEATRO DEGLI ORRORI: Onirica, Parma
26.03.2010 NOTWIST: Estragon, Bologna
26.03.2010 LE VIBRAZIONI: New Age, Roncade (TV)
27.03.2010 CALIBRO 35: Estragon, Bologna
27.03.2010 IL TEATRO DEGLI ORRORI: Deposito Giordani, Pordenone
27.03.2010 MASSIMO VOLUME & GIARDINI DI MIRO' + DJ SET DI MANUEL AGNELLI - Covo, Bologna
27.03.2010 PENELOPE SULLA LUNA - Patchanka, Pontelagoscuro (FE)
27.03.2010 PORT-ROYAL - Zuni, Ferrara
29.03.2010 LISA GERMANO & PHIL SELWAY - Sala Estense, Ferrara
30.03.2010 LISA GERMANO & PHIL SELWAY - Covo, Bologna
lunedì 8 marzo 2010
The Ties and the Lies - Behind the Barricade (Autoproduzione, 2008)
Tracklist
Indipendentemente dal fatto che ormai ci siano tanti pregiudizi su questa scena, ci si sente sempre più snob a criticare le copie dell'eredità raccolta da Ian Curtis. Purtroppo siamo di fronte all'ennesimo caso, neanche tanto nascosto, di palese volontà di riprodurre i fasti di una delle uniche band che del post-Joy Division ha saputo fare originale marchio di fabbrica, cioè gli Interpol.
Da Bologna i The Ties and the Lies escono con un repertorio che suona quasi un breve palinsesto televisivo di cover, August is For City Lovers in particolare, per una kermesse di tradizionalisti della new wave, così come ormai l'industria la vuole. Lenta come gli Interpol, poco più pensato dei White Lies, comunque abbastanza scarna. Nell'originalità quantomeno. Musicalmente i quattro ci sanno fare, mettendo a segno un full di ottime sonorità (notevole il suono per essere un EP di una band della scena indipendente) e proverbiali "citazioni", volute o meno, delle band più esperte del settore. Si stacca un po' dallo stanco incedere del quattro quarti lento e straziato dei primi due brani (la già citata e Fall, come un pezzo dei Verve con Paul Banks con pronuncia italiana alla chitarra e alla voce) con Untitled, un brano più dirottato verso le realtà meno ridondanti dell'alternative sempre esperto nel rinnovarsi nonostante gli attacchi dell'industria "uniformatrice". La voce non tradisce, ed ammetto che sulle prime pensavo fosse un riarrangiamento dell'omonimo estratto da "Turn on the Bright Lights", nel convogliare gli arpeggi di devozione quasi post-rock in un abisso di graffiante violenza che raggiunge il suo acme con l'esplosione a metà brano, prima di ritornare all'inizio come una spirale cupa e malinconica, che rende il pezzo il più dinamico e "vario" di questo lavoro (e sul finale si scappa di nuovo in una velocizzazione quasi Casablancas/Albert Hammond Jr. Di rito.). L'album si conclude con un nuovo rimando (o chiamiamolo, dimostrazione di come staccarsi dalle sonorità dei gruppi che ti piacciono di più dopo un po' diventi impossibile se non ti chiami Damon Albarn o Thom Yorke) ai soliti, The Bombs Over Town, su tonalità di triste vocazione curtisiana come ne abbiamo sentite a migliaia. Anche dai Cure.
Tradisce un po' l'idea di "copia" che trasuda da questo disco. Ormai si palesa nella mentalità critica una certa volontà di stroncare chiunque abbia preso questo genere troppo sul serio. Fare new wave alla fine è come fare punk. Sono generi morti e chiusi in sé stessi, con pochi cliché a disposizione, pochi colori sulla tavolozza che ti danno la possibilità di portare a termine poche combinazioni sulla tela. Il progetto definitivo è così sempre inquadrato in un certo numero di formule e connessioni che si possono ampiamente prevedere. Per i The Ties and the Lies il passo falso non è quindi volersi avvalere di questi stessi ingredienti, ma quello di arrivare al centro del tifone di critica per il genere, quella tendenza a non voler più lasciare che queste band facciano il loro corso. Ma qui la pensiamo diversamente: ben vengano band come queste, alfieri di un genere defunto ma armato di una vitalità immensa nel suo portare tristi messaggi dall'impeto rock e, in qualche modo, dark. Non come gli emo, ma come lo intendevano Smith, Curtis e i primi Depeche Mode. L'animo è quello, la musica è un'altra cosa. Un attimo di personalità in più e possono fare il colpaccio. Per ora, discreti.
Voto: 6
Indipendentemente dal fatto che ormai ci siano tanti pregiudizi su questa scena, ci si sente sempre più snob a criticare le copie dell'eredità raccolta da Ian Curtis. Purtroppo siamo di fronte all'ennesimo caso, neanche tanto nascosto, di palese volontà di riprodurre i fasti di una delle uniche band che del post-Joy Division ha saputo fare originale marchio di fabbrica, cioè gli Interpol.
Da Bologna i The Ties and the Lies escono con un repertorio che suona quasi un breve palinsesto televisivo di cover, August is For City Lovers in particolare, per una kermesse di tradizionalisti della new wave, così come ormai l'industria la vuole. Lenta come gli Interpol, poco più pensato dei White Lies, comunque abbastanza scarna. Nell'originalità quantomeno. Musicalmente i quattro ci sanno fare, mettendo a segno un full di ottime sonorità (notevole il suono per essere un EP di una band della scena indipendente) e proverbiali "citazioni", volute o meno, delle band più esperte del settore. Si stacca un po' dallo stanco incedere del quattro quarti lento e straziato dei primi due brani (la già citata e Fall, come un pezzo dei Verve con Paul Banks con pronuncia italiana alla chitarra e alla voce) con Untitled, un brano più dirottato verso le realtà meno ridondanti dell'alternative sempre esperto nel rinnovarsi nonostante gli attacchi dell'industria "uniformatrice". La voce non tradisce, ed ammetto che sulle prime pensavo fosse un riarrangiamento dell'omonimo estratto da "Turn on the Bright Lights", nel convogliare gli arpeggi di devozione quasi post-rock in un abisso di graffiante violenza che raggiunge il suo acme con l'esplosione a metà brano, prima di ritornare all'inizio come una spirale cupa e malinconica, che rende il pezzo il più dinamico e "vario" di questo lavoro (e sul finale si scappa di nuovo in una velocizzazione quasi Casablancas/Albert Hammond Jr. Di rito.). L'album si conclude con un nuovo rimando (o chiamiamolo, dimostrazione di come staccarsi dalle sonorità dei gruppi che ti piacciono di più dopo un po' diventi impossibile se non ti chiami Damon Albarn o Thom Yorke) ai soliti, The Bombs Over Town, su tonalità di triste vocazione curtisiana come ne abbiamo sentite a migliaia. Anche dai Cure.
Tradisce un po' l'idea di "copia" che trasuda da questo disco. Ormai si palesa nella mentalità critica una certa volontà di stroncare chiunque abbia preso questo genere troppo sul serio. Fare new wave alla fine è come fare punk. Sono generi morti e chiusi in sé stessi, con pochi cliché a disposizione, pochi colori sulla tavolozza che ti danno la possibilità di portare a termine poche combinazioni sulla tela. Il progetto definitivo è così sempre inquadrato in un certo numero di formule e connessioni che si possono ampiamente prevedere. Per i The Ties and the Lies il passo falso non è quindi volersi avvalere di questi stessi ingredienti, ma quello di arrivare al centro del tifone di critica per il genere, quella tendenza a non voler più lasciare che queste band facciano il loro corso. Ma qui la pensiamo diversamente: ben vengano band come queste, alfieri di un genere defunto ma armato di una vitalità immensa nel suo portare tristi messaggi dall'impeto rock e, in qualche modo, dark. Non come gli emo, ma come lo intendevano Smith, Curtis e i primi Depeche Mode. L'animo è quello, la musica è un'altra cosa. Un attimo di personalità in più e possono fare il colpaccio. Per ora, discreti.
Voto: 6
Recensione scritta per Indie for Bunnies - link