martedì 26 ottobre 2010
Conqueror - Madame Zelle (Maracash, 2010)
Tracklist:
1. Margaretha
2. Indonesia
3. Occhio Dell'Alba
4. Fascino Proibito
5. Eleganza Perfetta
6. #21
7. Doppio Gioco
8. Da Sola
9. Ad Occhi Alti
Recensione:
I Conqueror sono una band messinese, attiva da qualche anno nel fiorente ma sommerso mondo del prog italiano moderno. Dico moderno perchè bisogna sempre fare le dovute distinzioni dal filone classico che continua con le imitazioni, che non funzionano più di tanto, e da quello moderno, che invece prende dal linguaggio delle grandi band degli anni '70 (in primis Area, PFM e Banco del Mutuo Soccorso, ovviamente) le sue caratteristiche di base per poi espanderle e contaminarle con qualcos'altro, magari di nuovo.
E' il caso di questo interessante quintetto, che ha deciso di elaborare la più alta tradizione progressive con una certa dose di psichedelia pinkfloydiana per proporre un album concettuale che parli di Mata Hari. Ebbene si, questo personaggio intrigante, fascinoso perché misterioso, svolge la triplice funzione di principio e character ispiratore dell'album, concetto base attorno al quale imbastire un lavoro complesso e dinamico, e infine banco di prova per la prosecuzione di un progetto che proprio nella sua ambizione trova anche un punto di forza.
In linea con il prog storico non mancano evidenti tentativi di far visualizzare agli occhi di tutti la bravura tecnica dei singoli, senza le esagerazioni accademiche di band che proprio in questi anni stanno buttando al macero la loro carriera (mi sto riferendo ai DreamTheater, ma non solo), ma con una capacità di adattarsi ai vari canoni del rock e della "canzone italiana" che veramente stupisce. Perchè alcuni momenti riflettono dei scenari pop che proprio nella canzonetta sentimentale sedimentata ormai nelle chart italiane da quando esistono trovano la loro espressione massima, con un trasporto e una vena romantica che i Conqueror sanno esternare e rinvigorire, ma soprattutto aggiornare, con un codice proprio e non dimenticandosi di fornire le chiavi giuste per decifrarlo. Questo può essere considerato un limite, ma il fatto che questo disco sia progressive pur restando accessibile, dà in realtà un punto in più al tutto.
Il disco di per sé è molto equilibrato: non si notano sovrappiù, né di parti strumentali né di parti vocali, ma soprattutto, neanche di barocche evoluzioni che si limitano semplicemente a dare il giusto tocco a certe parti, sottolineandole o andando, di volta in volta, ad alleggerirle o riempirle, colorarle, dipingerle. Come veri artisti, non lasciando in disparte i fiati e le tastiere, strumenti che vanno molto "di moda" ultimamente ma che di certo non sono utilizzati, all'interno delle canzoni dei cinque, con finalità commerciali. Se ci fossero più dischi così, Demetrio Stratos starebbe sorridendo ancora adesso, ma forse preferirà continuare a gorgheggiare con la sua splendida voce nel cimitero di Scipione Castello, abbozzando solo un semplice ghigno di sfida quando band come queste escono dall'anonimato. In un paese artisticamente sepolto, come l'Italia.
Voto: 8.5
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