mercoledì 17 novembre 2010
Linkin Park - A Thousand Suns (Warner Bros., 2010)
Tracklist:
1. The Requiem
2. The Radiance
3. Burning In The Skies
4. Empty Spaces
5. When They Come For Me
6. Robot Boy
7. Jornada del Muerto
8. Waiting For The End
9. Blackout
10. Wretches and Kings
11. Wisdom, Justice and Love
12. Iridescent
13. Fallout
14. The Catalyst
15. The Messenger
Bollatelo come volete, un passo falso, un miracolo, una rinascita, un fallimento, ma questo è pur sempre un disco-sorpresa.
Questo lo rende senz'altro appetibile e meritevole di qualche riga di descrizione, insomma, di questa recensione. Chester Bennington si è montato la testa quasi subito quando i miliardi gli sono piovuti addosso già dai primi estratti di Hybrid Theory, facendo diventare i Linkin Park una delle band più osannate, ricche e a loro modo seguite degli ultimi dieci anni. La fama, si sa, può nuocere molto alla capacità compositiva di una band e visto che tutti gli aspetti che hanno contributo a creare la formula vincente dei primi due dischi dei Linkin Park se ne sono andati, sia per la volontà della band di seguire altri percorsi sia per il loro peso che, nel 2010, è diversissimo rispetto a quello di dieci anni fa, quando tutte le band sedicenti nu metal erano spietatamente acclamate, e il rap con un po' di screamo a sovrastare tonnellate di power chords in distorto vendeva milioni di copie.
Ecco perché il cambiamento, da bravi uomini di business, più che da bravi musicisti. Il problema è che loro in quella veste ci si trovavano bene, e hanno saputo coinvolgere migliaia di adolescenti con un groove pazzesco incalzato dalle due voci subito riconoscibili di Chester e Mike, che nel tempo si sono ridotte a macchietta di loro stesse (soprattutto quella di Shinoda), come si può sentire nei pochi brani in cui ancora si sforza di utilizzare la tecnica del rappato. Cosa c'è di buono quindi in un album così? A Thousand Suns, secondo gli autori, è un disco da prendere con le pinze, dove ogni brano è costruito come un viaggio a sé stante che si può leggere però anche nell'insieme. Questa dichiarazione di intenti, in realtà, serve solo a rovinare un disco che di per sé è molto debole, nell'impianto melodico, nella presa che può avere su un eventuale ascoltatore sia dei vecchi LP che di questo loro nuovo corso. Basta ascoltare canzoni spompe come "Burning In The Skies" e "When They Come For Me", per capire di cosa sto parlando, dove manca tutta la verve che li ha resi famosi. L'orientamento è molto più elettronico e lo si sente in tutti gli arrangiamenti, nella scelta dei suoni e nella costruzione dei pezzi: tra tutti i brani in cui l'elettronica viene usata "troppo", il migliore è sicuramente "Blackout", fortemente influenzato dal progetto parallelo Fort Minor, fondato nel duemilaquattro da Shinoda, con un tiro assolutamente techno che in alcuni tratti ricorda i Prodigy dei tempi andati. Ci pensa anche la criticatissima "The Catalyst" a regalare un po' di sollievo, nonostante il riff di tastiera principale sia dannatamente dance e non si levi dalla testa neanche a pagarlo: la voce di Chester fa un lavoro incredibile e soprattutto nei momenti più pacati rende evidente il coinvolgimento emotivo dal quale si lascia prendere tanto come sa coinvolgere chi ne subisce le conseguenze, cioè noi.
Rimangono molti altri pezzi, e il fatto che io non abbia molta voglia di citarli non è una gran cosa. I momenti più spinti suonano esageratamente pop, quelli più placidi incredibilmente banali e scarichi, privi d'impatto. Si contano sulle dita di una mano i momenti in cui li riconosci ancora, e il cambio di rotta è senz'altro fallimentare sotto questo punto di vista.
Permane una produzione incredibile targata Rick Rubin, con un appeal vagamente alt-pop che può piacere ai molti amanti della techno poco oltranzisti che girovagano per il mondo del rock alla ricerca di qualche nuova inclinazione degli artisti più celebri (e non per caso, visto che tantissimi preferiscono fare un salto nell'elettronica una volta ogni tanto, come hanno annunciato per il prossimo disco perfino gli U2). L'idea di creare un disco concettuale costa cara ai Linkin Park e nonostante sia più che evidente come qui dentro ci sia del gran lavoro, non possiamo astenerci dal criticarne la parziale riuscita, che non gli permette di raggiungere la sufficienza malgrado la bellezza di alcuni dei brani. Riprovateci di nuovo, prima di tornare in soffitta.
Voto: 5
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