giovedì 20 gennaio 2011

Mr. Milk - Mr. Milk (Casa Molloy/EMI Publishing, 2010)


TRACKLIST:
1. Calls and Letters

2. Deepfar
3. Drawing A Kiss
4. Forced
5. Surprises
6. Little March For A Whore
7. Goodbye Prisoner!
8. Won

9. Cripple
10. Monster
11. Cardinal Legs
12. Stupid Guy

Due cose sono certe di questo disco: la prima è che il brano migliore è, per forza, “Cardinal Legs”, colorato da un pianoforte che non ha paragoni. La seconda che ascoltandolo la prima volta ti da l’idea di essere un disco da sentire altre dieci volte prima di capirlo, ma che ti lascia con l’amaro in bocca quando ti rendi conto che non c’è proprio niente di più da scoprire di quello di cui ti accorgi al primo incontro con lui.

Sia chiaro: l’album non è per niente brutto, e questo cantautore di Eboli ha comunque concepito un disco che lancia impulsi chiari e forti, con una grande verve comunicativa che ti dimostra dove voleva arrivare quasi subito e cioè a raccontare con dodici (e sono troppi) brani un romanticismo che è solo suo, che nonostante porti sulla schiena il peso notevole di non portare niente di nuovo ad una scena cantautorale ormai persa nel vuoto dell’eccesso di nomi e di parole, riesce ad acquistare personalità man mano che scorrono le tracce. Niente di nuovo dunque, per chi ha ascoltato Nick Drake, Bon Iver o, in italia, Bob Corn. Ed è comunque la cantautorale dai toni più folk (quelli che ormai si confondono troppo con l’indie brillantinoso dell’America musicale fighetta) a farla da padrona nel gioco delle influenze e delle ispirazioni, anche se è evidente una ricerca di una caratterizzazione nuova che esuli da paragoni immediati e confronti che non portano da nessuna parte (come quelli che stiamo facendo).
C’è della poesia, degli accordi che annientano ogni sentore di luce e di spensieratezza per portare ombre in un mondo di sentimentalismo al contrario, dove sono comunque candore e tenerezza le due parole chiave: le sfumature tenui e uniformi di brani come “Surprises”, “Cripple” e “Monster” servano da lezione per capire quello di cui stiamo parlando. La musica tende ad essere sempre più soffusa, limitata a spazi privi di ampiezza, quasi piatti, quasi si dissolve nel niente, con queste schitarrate soffocate che ci danno un senso di leggerezza che non si può descrivere altrimenti che con la parola “fragilità”. E questo ci piace, così come ci piacciono brani intimi come “Deepfar” e “Goodbye Prisoner”, manifestazioni ultime di un’interiorità che riesce a raccogliersi dentro pochi concetti chiave per non disperdersi nella vaghezza di una musica semplice e che può risultare banale, ma solo per rendersi più chiara ad un eventuale interessamento dell’ascoltatore. Sapete, c’è ancora chi vuole approfondire il comparto letterario di un lavoro musicale.
A nulla vale la critica di chi gli muove contro dicendo che il cantautorato ha rotto le palle e questo assomiglia troppo a tutti quelli venuti prima, perché negli anni zero da cui siamo appena usciti nessuno ha saputo coniare sensibilità folk e quotidianità più spietata (contro o a favore di un amore che sembra averlo fatto soffrire abbastanza) come questo salernitano, che utilizzando le poche sperimentazioni che una chitarra acustica ancora permette ha saputo creare una piccola perla di musica italiana come ce n’era proprio bisogno.
Giù le mani dalla nostra musica.

Voto: 7.5

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