Recensione su Indie for Bunnies
Tracklist
Dare un taglio originale alla recensione risulta difficile quando tutti quanti hanno detto la stessa cosa finora. Quindi lo ripeterà anche il sottoscritto. I Puerto Muerto suonano musica come se dovessero fare la colonna sonora perfetta del tipico bar di birraioli irlandesi che non aspettano altro che un compagno di bevute che entri dalla porta di legno. Ma poi, riascoltandolo, ci trovi dell'altro. Molto altro.
L'album si apre, infatti, con Song of the Moon, ballata folk dai toni vagamente blues e southern rock, come tutto il disco del resto, seguita da quel gran pezzo che è Tamar, che poteva essere migliore se dilatato di almeno un minuto e mezzo (alcuni pezzi, come The Bell Ringer e Settle Down Belinda soffrono invece del problema diametralmente opposto). La title-track apre la via a quegli inserti latini tipici di soundtrack di film di Tarantino e Rodriguez, e il paragone con Nancy Sinatra è d'obbligo. E' nelle liriche e nelle relative linee vocali che si sente la vera anima di Christa e Tim, con i loro toni scuri, o meglio, oscuri, quasi dark. Lo dice soprattutto l'episodio più sofferto di questo Drumming for Pistols, cioè Little Recourse, un ottimo lavoro chitarristicamente ma soprattutto per l'apporto vocale che ricrea un'atmosfera decentemente gothic. Interessanti il finale di "Arcadia" coi suoi riff fuzzettoni, la quasi "vuota" ma allo stesso tempo coinvolgentissima ballad country da ubriaconi molesti Hurting Now e il super blues Tanze, il pezzo più "involving" che troverete su questo lavoro, con dettagli di basso da non trascurare e una ballabilità sopra la media degli album del genere. E un altro highlight è sicuramente la conclusiva Goodbye To The End dove la bella voce di Christa Meyer conferisce la giusta, malinconica, profondità alla dimensione altamente cantautorale dei quasi quattro minuti di cui si compone.
I Puerto Muerto hanno un non so ché di particolare nel loro songwriting, una specie di anima che pulsa in maniera stranamente luminosa nonostante l'eccentricità quasi dark che aleggia per tutto il disco, inverosimile se paragonata ai toni blues e danzerecci che a volte lo risollevano dall'oscurità dei suoi momenti di depressione. E' come se finalmente ci fosse un disco che ti spara in faccia tutta la tristezza delle tue giornate fatta in musica senza dover passare per schifezze emo o goth-metal. Ci voleva.
Voto: 7.5
domenica 30 maggio 2010
sabato 29 maggio 2010
16Bit - 16Bit (Scripta/Self, 2010)
Tracklist:
1. Fiammifero
2. E Noi
3. Baby_Queen
4. In Una Lacrima
5. Nel Kaos
6. Libera Maria
7. Resta Perché
8. Sono Fuori
9. Mentre Vai Via
Un disco italiano come questo non si scorda mai più. I 16bit, ancora, sfortunatamente, troppo poco considerati dalla critica italiana, sfornano un lavoro assolutamente omogeneo, potente, pieno, completo. Insomma, fantastico. In questa produzione si trova un insieme veramente azzeccato di elementi tanto esterofili quanto italici, passando per il rock di stampo alternative degli anni '80 e '90 italiani (i soliti noti, cioè Afterhours, CCCP, Marlene Kuntz e Scisma), i più recenti Deasonika, e le tonalità britanniche di artisti come Bright Eyes (lo so, lo so, non sono inglesi), gli Arcade Fire o gli ultimi ritrovati della new wave.
E' così nelle code ambient di pezzi come la bonus track "Anima Nera", o nel gran lavoro di tastiera di Antonio de Francesco in "Mentre Vai Via", che conferisce al brano quelle tonalità classicheggianti che già si erano conosciute in brani italiani come "Come Vorrei" dei bei tempi della band di Manuel Agnelli. Paragoni a parte un gran pezzo, intenso anche nel testo, che parla della mancanza di futuro e del senso di inadeguatezza infuso da questi politici lontani dai problemi della gente.
Il rock più graffiante, quello simile ai primi Marlene Kuntz (ma anche Virginiana Miller), reso più vivido da alcuni inserimenti di tastiera e da un cantato più melodico di quelli delle band citate, si espande libero in tutto il disco, in particolare in episodi come "Sono Fuori" (con un inserto addirittura di un breve discorso del Beppe Grillo nazionale) e "E Noi", uno dei brani più orecchiabili del disco.
Il singolo tratto da questo self-titled è "Fiammifero", brano reduce del lavoro dei 16bit come compositori della colonna sonora del film Animanera (per Medusa, anche se non si direbbe viste le inclinazioni politiche che emergono da alcuni testi), che ricorda molto da vicino i cantati di Samuel dei Subsonica, con momenti di vicinanza anche a Max Zanotti (lo stesso accadrà nuovamente in "Baby_Queen" e "In Una Lacrima").
La produzione del disco è notevole, con un tocco British nei suoni pur senza scappare dai legami con l'alternative e il noise della nostra terra (soprattutto il sound delle chitarre). Ottime anche le capacità strumentali dei singoli componenti (sono un trio, che diventa quintetto per i live set), così come i testi, a tratti molto profondi, con tematiche come l'illusione della libertà, il coraggio di prendere delle decisioni, i pregiudizi, la manipolazione mediatica del nostro cervello e delle nostre inclinazioni. In sostanza un disco che percorre pregi e difetti di una nazione o, semplicemente, di noi.
Musicalmente perfetto per descrivere le emozioni che i brani stessi vogliono infondere; un disco da centellinare attentamente dal primo all'ultimo secondo, senza mai distrarsi per neppure un istante. Ascolto fatale. Può candidarsi a disco dell'anno.
Voto: 9-
1. Fiammifero
2. E Noi
3. Baby_Queen
4. In Una Lacrima
5. Nel Kaos
6. Libera Maria
7. Resta Perché
8. Sono Fuori
9. Mentre Vai Via
Un disco italiano come questo non si scorda mai più. I 16bit, ancora, sfortunatamente, troppo poco considerati dalla critica italiana, sfornano un lavoro assolutamente omogeneo, potente, pieno, completo. Insomma, fantastico. In questa produzione si trova un insieme veramente azzeccato di elementi tanto esterofili quanto italici, passando per il rock di stampo alternative degli anni '80 e '90 italiani (i soliti noti, cioè Afterhours, CCCP, Marlene Kuntz e Scisma), i più recenti Deasonika, e le tonalità britanniche di artisti come Bright Eyes (lo so, lo so, non sono inglesi), gli Arcade Fire o gli ultimi ritrovati della new wave.
E' così nelle code ambient di pezzi come la bonus track "Anima Nera", o nel gran lavoro di tastiera di Antonio de Francesco in "Mentre Vai Via", che conferisce al brano quelle tonalità classicheggianti che già si erano conosciute in brani italiani come "Come Vorrei" dei bei tempi della band di Manuel Agnelli. Paragoni a parte un gran pezzo, intenso anche nel testo, che parla della mancanza di futuro e del senso di inadeguatezza infuso da questi politici lontani dai problemi della gente.
Il rock più graffiante, quello simile ai primi Marlene Kuntz (ma anche Virginiana Miller), reso più vivido da alcuni inserimenti di tastiera e da un cantato più melodico di quelli delle band citate, si espande libero in tutto il disco, in particolare in episodi come "Sono Fuori" (con un inserto addirittura di un breve discorso del Beppe Grillo nazionale) e "E Noi", uno dei brani più orecchiabili del disco.
Il singolo tratto da questo self-titled è "Fiammifero", brano reduce del lavoro dei 16bit come compositori della colonna sonora del film Animanera (per Medusa, anche se non si direbbe viste le inclinazioni politiche che emergono da alcuni testi), che ricorda molto da vicino i cantati di Samuel dei Subsonica, con momenti di vicinanza anche a Max Zanotti (lo stesso accadrà nuovamente in "Baby_Queen" e "In Una Lacrima").
La produzione del disco è notevole, con un tocco British nei suoni pur senza scappare dai legami con l'alternative e il noise della nostra terra (soprattutto il sound delle chitarre). Ottime anche le capacità strumentali dei singoli componenti (sono un trio, che diventa quintetto per i live set), così come i testi, a tratti molto profondi, con tematiche come l'illusione della libertà, il coraggio di prendere delle decisioni, i pregiudizi, la manipolazione mediatica del nostro cervello e delle nostre inclinazioni. In sostanza un disco che percorre pregi e difetti di una nazione o, semplicemente, di noi.
Musicalmente perfetto per descrivere le emozioni che i brani stessi vogliono infondere; un disco da centellinare attentamente dal primo all'ultimo secondo, senza mai distrarsi per neppure un istante. Ascolto fatale. Può candidarsi a disco dell'anno.
Voto: 9-
venerdì 28 maggio 2010
Fratelli Calafuria - Altafedeltapaura EP (Massive Arts/Self, 2010)
Tracklist:
1. Altafedeltapaura
2. Ilfattodeicdincantati
3. Affattonormale
4. Denise
5. Bastaironia
Il nuovo disco dei Fratelli Calafuria è qualcosa di indefinibile. Superato il punk rock dell'esordio, reso valido e "diverso dalla massa" di questo genere solo dagli urletti del frontman, con quei momenti da divertimento-in-puro-cazzeggio-style, producono un EP completamente fuori dai ranghi, teso all'esplorazione di nuovi confini. Perlomeno per quel che riguarda la loro produzione.
I testi assolutamente inconsueti superano il nonsense del disco di debutto con perle come "oh mamma stasera esco, prendo la moto ma non c'ho le chiavi, che sfiga", deformando il celebre testo di Jovanotti; sono tanti altri i giochi di parole, le freddure, i riferimenti alla musica pop e rock italiana, le frasi apparentemente prive di significato, che adornano questo EP.
Musicalmente si è costretti a prendere parte all'evoluzione del loro sound verso lidi meno spensierati. Il singolo Affattonormale ricorda lo stile del primo album pur senza imitarne contenuti e stilemi, soprattutto per quanto riguarda l'apporto strumentale, qui talmente bizzarro da portare il post-punk a nuovi livelli di conoscenza. E' il primo singolo e c'era da aspettarselo. Denise è una canzone indefinibile, in fuga verso un'etichetta che non si può trovare, tra momenti di puro trip allucinogeno, inserimenti di piano, marcette di batteria ed immancabili wou-ou. Superato questo manifesto dei nuovi Calafuria si arriva alla veloce e potente Bastaironia, quasi un metallone suonato più lievemente, prima di diventare una versione accelerata dei successoni dei Joy Division, ma cantata come ben sappiamo (AAA cercasi disperatamente nuove linee vocali senza gridolini, per favore). Incredibile.
Le migliori in questo lavoro sono le prime due, che formano una combo sensazionale contrassegnata dai titoli Altafedeltapaura e Ilfattodeicdincantati, la prima quasi un tributo mal mascherato ai Talking Heads (fantastica), la seconda con una base creata con un giradischi rotto, come il nome suggerisce. "Mettere il cantato ai dischi incantati" è una battuta talmente brutta che ricorda i Fichi d'India dei peggiori tempi (gli ultimi). Ma guarda un po'.
In effetti i Fratelli Calafuria sono cresciuti, ma di strada da fare ce n'è ancora tanta. L'assenza di una nuova timbrica vocale che si adatti meglio alle novità strumentali, insieme con il ripetersi troppo pressante di alcuni patterns, sminuisce i parziali accenni di originalità presenti in questo extended play. Le attese erano alte, lanciate anche da alcuni articoli su RockIt in cui si parlava di manipolazione musicale (effettivamente udibile in alcuni tratti del secondo e del quinto brano), ma probabilmente un sessanta percento di queste tracce dovrà superare la prova live prima di poter decretare "cos'è" e "cosa significa" un disco del genere a metà 2010. Da Milano (ora) con furore. Un po' meno wou-wou ed il disco vinceva il premio sorpresa dell'anno, uno sforzo assolutamente convincente e che può portare ad universi migliori. Sicuramente.
Voto: 7+
1. Altafedeltapaura
2. Ilfattodeicdincantati
3. Affattonormale
4. Denise
5. Bastaironia
Il nuovo disco dei Fratelli Calafuria è qualcosa di indefinibile. Superato il punk rock dell'esordio, reso valido e "diverso dalla massa" di questo genere solo dagli urletti del frontman, con quei momenti da divertimento-in-puro-cazzeggio-style, producono un EP completamente fuori dai ranghi, teso all'esplorazione di nuovi confini. Perlomeno per quel che riguarda la loro produzione.
I testi assolutamente inconsueti superano il nonsense del disco di debutto con perle come "oh mamma stasera esco, prendo la moto ma non c'ho le chiavi, che sfiga", deformando il celebre testo di Jovanotti; sono tanti altri i giochi di parole, le freddure, i riferimenti alla musica pop e rock italiana, le frasi apparentemente prive di significato, che adornano questo EP.
Musicalmente si è costretti a prendere parte all'evoluzione del loro sound verso lidi meno spensierati. Il singolo Affattonormale ricorda lo stile del primo album pur senza imitarne contenuti e stilemi, soprattutto per quanto riguarda l'apporto strumentale, qui talmente bizzarro da portare il post-punk a nuovi livelli di conoscenza. E' il primo singolo e c'era da aspettarselo. Denise è una canzone indefinibile, in fuga verso un'etichetta che non si può trovare, tra momenti di puro trip allucinogeno, inserimenti di piano, marcette di batteria ed immancabili wou-ou. Superato questo manifesto dei nuovi Calafuria si arriva alla veloce e potente Bastaironia, quasi un metallone suonato più lievemente, prima di diventare una versione accelerata dei successoni dei Joy Division, ma cantata come ben sappiamo (AAA cercasi disperatamente nuove linee vocali senza gridolini, per favore). Incredibile.
Le migliori in questo lavoro sono le prime due, che formano una combo sensazionale contrassegnata dai titoli Altafedeltapaura e Ilfattodeicdincantati, la prima quasi un tributo mal mascherato ai Talking Heads (fantastica), la seconda con una base creata con un giradischi rotto, come il nome suggerisce. "Mettere il cantato ai dischi incantati" è una battuta talmente brutta che ricorda i Fichi d'India dei peggiori tempi (gli ultimi). Ma guarda un po'.
In effetti i Fratelli Calafuria sono cresciuti, ma di strada da fare ce n'è ancora tanta. L'assenza di una nuova timbrica vocale che si adatti meglio alle novità strumentali, insieme con il ripetersi troppo pressante di alcuni patterns, sminuisce i parziali accenni di originalità presenti in questo extended play. Le attese erano alte, lanciate anche da alcuni articoli su RockIt in cui si parlava di manipolazione musicale (effettivamente udibile in alcuni tratti del secondo e del quinto brano), ma probabilmente un sessanta percento di queste tracce dovrà superare la prova live prima di poter decretare "cos'è" e "cosa significa" un disco del genere a metà 2010. Da Milano (ora) con furore. Un po' meno wou-wou ed il disco vinceva il premio sorpresa dell'anno, uno sforzo assolutamente convincente e che può portare ad universi migliori. Sicuramente.
Voto: 7+
giovedì 27 maggio 2010
Mallory Switch - Mallory (Gb Sound, 2010)
Recensione Scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
Se i Garbage avessero ascoltato più industrial tedesco, si fossero fatti registrare e produrre da Marco Trentacoste e avessero avuto alla voce Karen O, probabilmente sarebbero stati simili ai Mallory Switch. E non sarebbero stati quella grande band che erano agli inizi. Ma tutto ciò non c'entra niente.
Dopo un paio di EP sopra la media se comparati con il panorama italiano, arrivano al momento della dimostrazione pratica con quell'hype di troppo che a volte gira attorno ai progetti di questo tipo nel nostro paese. Le sonorità non ci appartengono, le ispirazioni provengono dall'universo teutonico dei Rammstein e dei Kraftwerk, dai Garbage, dai Lacuna Coil e pure da qualcosa di dark. L'insieme dei generi mescolati dai Mallory Switch, in realtà, stupisce, per la raffinatezza con cui alcuni brani sono stati composti, quasi come uno splendido patchwork sonico. L'elettrorock dal piglio vagamente british dell'inizio di The Last Man On Earth (con il rap di Beans, ospite in questo pezzo), quell'alternative à-la-Yeah Yeah Yeahs che si sente prevalente in Business Television e No Evil, il primo più vicino alle sonorità dei primi lavori della formazione newyorkese, il secondo all'ultimo disco, salvo poi deflagrare in quel monumentale e preciso ritornello marziale che ricorda, alla batteria, le ritmiche di Christop Schneider dei Rammstein. Qualche nota gothic e dark aleggia in Brand New World, tra i pezzi meno riusciti, e Evolution Machine, sporcandosi poi di elettronica puramente rock nello spirito, in Mumbling My Time, dove liberano tutta la qualità del loro songwriting per produrre un brano di alto splendore compositivo, superando anche i fasti del secondo miglior pezzo del disco, Flow.
Le linee vocali di Audrey Lynch sono assolutamente fuori da ogni schema, a volte accostabili a quelle di Cristina Scabbia o la già citata Karen O, ma più spesso abbandonate all'inventiva della frontwoman, che crea un suo modo di cantare e comporre tale da alzare inoppugnabilmente le sorti del disco. Un difetto dell'album è forse quello di essere un po' fuori tempo massimo, in un periodo in cui questi generi non tirano più, ma se si badasse sempre a queste cose, le mode non cambierebbero mai. Essenziale l'apporto di Trentacoste giacché il suo lavoro sui suoni fortifica il già pesante comparto ritmico di basso e batteria, granitici come non mai, e smussa gli angoli anche della sezione elettronica/programmata, resa perfettamente unitaria con il resto del monolite sonoro tramite l'uso di un sound appropriato e di un'attenzione estrema all'equalizzazione. Il songwriting, come già detto, è ottimo e si macchia dell'unica colpa di essere troppo esterofilo, aspetto che non sarà certo così grave se i Mallory Switch punteranno all'estero come hanno già fatto band analoghe di più successo.
Gran sound, canzoni carine e ottime possibilità. Tentativo da apprezzare.
Voto: 7-
Tracklist
Se i Garbage avessero ascoltato più industrial tedesco, si fossero fatti registrare e produrre da Marco Trentacoste e avessero avuto alla voce Karen O, probabilmente sarebbero stati simili ai Mallory Switch. E non sarebbero stati quella grande band che erano agli inizi. Ma tutto ciò non c'entra niente.
Dopo un paio di EP sopra la media se comparati con il panorama italiano, arrivano al momento della dimostrazione pratica con quell'hype di troppo che a volte gira attorno ai progetti di questo tipo nel nostro paese. Le sonorità non ci appartengono, le ispirazioni provengono dall'universo teutonico dei Rammstein e dei Kraftwerk, dai Garbage, dai Lacuna Coil e pure da qualcosa di dark. L'insieme dei generi mescolati dai Mallory Switch, in realtà, stupisce, per la raffinatezza con cui alcuni brani sono stati composti, quasi come uno splendido patchwork sonico. L'elettrorock dal piglio vagamente british dell'inizio di The Last Man On Earth (con il rap di Beans, ospite in questo pezzo), quell'alternative à-la-Yeah Yeah Yeahs che si sente prevalente in Business Television e No Evil, il primo più vicino alle sonorità dei primi lavori della formazione newyorkese, il secondo all'ultimo disco, salvo poi deflagrare in quel monumentale e preciso ritornello marziale che ricorda, alla batteria, le ritmiche di Christop Schneider dei Rammstein. Qualche nota gothic e dark aleggia in Brand New World, tra i pezzi meno riusciti, e Evolution Machine, sporcandosi poi di elettronica puramente rock nello spirito, in Mumbling My Time, dove liberano tutta la qualità del loro songwriting per produrre un brano di alto splendore compositivo, superando anche i fasti del secondo miglior pezzo del disco, Flow.
Le linee vocali di Audrey Lynch sono assolutamente fuori da ogni schema, a volte accostabili a quelle di Cristina Scabbia o la già citata Karen O, ma più spesso abbandonate all'inventiva della frontwoman, che crea un suo modo di cantare e comporre tale da alzare inoppugnabilmente le sorti del disco. Un difetto dell'album è forse quello di essere un po' fuori tempo massimo, in un periodo in cui questi generi non tirano più, ma se si badasse sempre a queste cose, le mode non cambierebbero mai. Essenziale l'apporto di Trentacoste giacché il suo lavoro sui suoni fortifica il già pesante comparto ritmico di basso e batteria, granitici come non mai, e smussa gli angoli anche della sezione elettronica/programmata, resa perfettamente unitaria con il resto del monolite sonoro tramite l'uso di un sound appropriato e di un'attenzione estrema all'equalizzazione. Il songwriting, come già detto, è ottimo e si macchia dell'unica colpa di essere troppo esterofilo, aspetto che non sarà certo così grave se i Mallory Switch punteranno all'estero come hanno già fatto band analoghe di più successo.
Gran sound, canzoni carine e ottime possibilità. Tentativo da apprezzare.
Voto: 7-
mercoledì 26 maggio 2010
General Fiasco - Buildings (Infectious, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
Quanto indie identico dovranno ancora esportare l'Irlanda e la Gran Bretagna prima di venir denunciate dal resto del mondo per crimine contro le orecchie dell'umanità? C'è da dire che questo genere, al contrario di molti altri come il rap o la techno, che hanno trovato nei cliché e nella ripetitività una miscela di elementi che costituisce per loro linfa vitale, una linfa che ha però privato di ogni difficoltà di lavoro i poveri recensori, continua a produrre chicche non da poco. Se i capostipiti ormai assodati negli anni, tra Oasis, Coldplay, Snow Patrol, Babyshambles, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand e molti altri, si sono ritagliati un posto fisso nelle chart, ci sono centinaia o migliaia di band che continuano a nascere, fare successo con un singolo per poi scomparire, o semplicemente nascono e muoiono senza attrarre nessuno al di là degli amici di MySpace.
I General Fiasco stanno girando abbastanza ma suonano talmente sputati a tanti altri che lasciare il segno per loro non è impresa facile, a metà 2010 in maniera particolare. Ci provano comunque, utilizzando l'arma della melodia a presa immediata, quel tipo di composizione puramente radiofonica che ha reso celebri Jet e tanti altri, con ritornelli incredibilmente orecchiabili e riff indimenticabili. Impressionante il risultato raggiunto da questo disco, catchy in qualsiasi secondo del suo running time, così come impressiona l'amaro in bocca che rimane alla fine dell'ascolto, quando ti rendi conto che quello che hai sentito l'avevano già fatto centinaia d'altri gruppi, chi meglio chi peggio.
Scorrono veloci brani come We Are The Foolish, Ever So Shy, Please Take Your Time e I'm Not Made of Eyes, tutte nella tipica velocità di questo genere, a metà tra l'abusatissimo post-punk e l'alternative da classifica, con i loro refrain che come stelle comete si schiantano sui nostri organi uditivi senza scampo per la memoria, mentre brani più rilassati e midtempo come Sinking Ships e First Impressions scappano via senza lasciare traccia nemmeno in quell'angolino del cervello che conserva i ricordi delle canzoni commerciali da canticchiare anche senza pensarci mentre fai la spesa. Ottimo pezzo la title-track, con un finale quasi ballabile e un songwriting molto più originale rispetto al resto del disco, pur senza raggiungere vette particolari. Pezzi notevoli anche Talk to My Friends, con il suo ritmo in levare immancabile per questo stile (e il suo finale improvviso che dà un tocco di classe al tutto), la rocambolesca Dancing With Girls e Rebel Get By, quest'ultima elevabile a esempio massimo del tipo di canzone proposta all'interno di Buildings.
General Fiasco, oltre al nome della band, rischia anche di diventare la previsione più azzeccata di tutti i tempi, e azzeccata davvero, non come le profezie sul 2012. L'importante è che ad ascoltare questo album siano solo i patiti del genere e non i critici troppo severi che lo stanno stroncando ormai da un decennio. E noi diciamo che hanno torto, perché in fondo a questo tipo d'indie vogliamo anche bene, anche se chiamarlo indie non lo salva di certo. Suvvia, lo si ascolta volentieri, no?
Voto: 6
Tracklist
Quanto indie identico dovranno ancora esportare l'Irlanda e la Gran Bretagna prima di venir denunciate dal resto del mondo per crimine contro le orecchie dell'umanità? C'è da dire che questo genere, al contrario di molti altri come il rap o la techno, che hanno trovato nei cliché e nella ripetitività una miscela di elementi che costituisce per loro linfa vitale, una linfa che ha però privato di ogni difficoltà di lavoro i poveri recensori, continua a produrre chicche non da poco. Se i capostipiti ormai assodati negli anni, tra Oasis, Coldplay, Snow Patrol, Babyshambles, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand e molti altri, si sono ritagliati un posto fisso nelle chart, ci sono centinaia o migliaia di band che continuano a nascere, fare successo con un singolo per poi scomparire, o semplicemente nascono e muoiono senza attrarre nessuno al di là degli amici di MySpace.
I General Fiasco stanno girando abbastanza ma suonano talmente sputati a tanti altri che lasciare il segno per loro non è impresa facile, a metà 2010 in maniera particolare. Ci provano comunque, utilizzando l'arma della melodia a presa immediata, quel tipo di composizione puramente radiofonica che ha reso celebri Jet e tanti altri, con ritornelli incredibilmente orecchiabili e riff indimenticabili. Impressionante il risultato raggiunto da questo disco, catchy in qualsiasi secondo del suo running time, così come impressiona l'amaro in bocca che rimane alla fine dell'ascolto, quando ti rendi conto che quello che hai sentito l'avevano già fatto centinaia d'altri gruppi, chi meglio chi peggio.
Scorrono veloci brani come We Are The Foolish, Ever So Shy, Please Take Your Time e I'm Not Made of Eyes, tutte nella tipica velocità di questo genere, a metà tra l'abusatissimo post-punk e l'alternative da classifica, con i loro refrain che come stelle comete si schiantano sui nostri organi uditivi senza scampo per la memoria, mentre brani più rilassati e midtempo come Sinking Ships e First Impressions scappano via senza lasciare traccia nemmeno in quell'angolino del cervello che conserva i ricordi delle canzoni commerciali da canticchiare anche senza pensarci mentre fai la spesa. Ottimo pezzo la title-track, con un finale quasi ballabile e un songwriting molto più originale rispetto al resto del disco, pur senza raggiungere vette particolari. Pezzi notevoli anche Talk to My Friends, con il suo ritmo in levare immancabile per questo stile (e il suo finale improvviso che dà un tocco di classe al tutto), la rocambolesca Dancing With Girls e Rebel Get By, quest'ultima elevabile a esempio massimo del tipo di canzone proposta all'interno di Buildings.
General Fiasco, oltre al nome della band, rischia anche di diventare la previsione più azzeccata di tutti i tempi, e azzeccata davvero, non come le profezie sul 2012. L'importante è che ad ascoltare questo album siano solo i patiti del genere e non i critici troppo severi che lo stanno stroncando ormai da un decennio. E noi diciamo che hanno torto, perché in fondo a questo tipo d'indie vogliamo anche bene, anche se chiamarlo indie non lo salva di certo. Suvvia, lo si ascolta volentieri, no?
Voto: 6
martedì 25 maggio 2010
Mantler - Monody (Tomlab, 2010)
Recensione pubblicata anche su Indie for Bunnies
Tracklist
Mantler è il nome d'arte del musicista canadese Chris Cumming che, giunto ormai a quell'età di mezzo in cui anche gli artisti guardano alle loro spalle per vedere quanto hanno fatto nella loro carriera, tenta di riciclarsi producendo un disco lontano da quel passato da compositore di colonne sonore per opere teatrali e affezionato di musica pop nera. Spalleggiato dagli ottimi Jeremy Greenspan e Owen Pallett alla co-produzione, ricrea un ambiente sonoro che vede le sue luci luminose prendere l'energia dalla vitalità pop anni '70 e dalla leggerezza di certe branche disco della musica di quel periodo. Infatti pezzi come "Fresh and Fair" strizzano l'occhio a quella brezza disco-dance che ha fatto ballare tante persone, o quel pop assolutamente melenso ed inutile tipico di molti film risalenti al periodo d'amore del cinema d'amore, incarnato in Also Close To The Rainbow alla perfezione. E il brano funziona, anche se nessuno, giustamente, lo annovererà mai tra i capolavori del genere. L'anima di tutto Monody è pop e lo si sente nella title-track, in Fortune Smiled Again, in In Stride, ma soprattutto in Crying At The Movies, anche se certi momenti di quest'ultima ricordano un songwriting eighties meno orecchiabile. L'episodio più alto di questo lavoro è la lenta Author, malinconica ballad quasi completamente priva di comparto ritmico, prima del sofferto finale (emulata poi con un risultato leggermente inferiore dalla conclusiva Mount Shasta.
I suoi toni da camera, cupi ed a volte spensierati, allegri ma senza mai allontanarsi da quel clima lounge che rende tutti i brani adatti all'ascolto nel salotto colto di turno, con risvolti jazz e le piccole incursioni elettroniche sempre rivolte ai magnifici seventies del pop, si inerpicano in sentieri soul che rendono questo lavoro degno d'interesse perlomeno per la varietà, comunque circoscritta agli elementi storicamente propri di questo tipo di prodotti, delle influenze tirate in ballo. Perché se non apprezzate quel periodo non manderete mai giù un disco del genere, arrangiato ottimamente ma privo di legami con l'epoca presente, dove si trova scorporato da tutta la produzione contemporanea proprio per quella smisurata devozione a un'epoca che si rimembra solo per farne tribute band e compilation. Mediocre ed anacronistico tentativo, con una produzione notevole nonostante la mancanza di ispirazione nella scrittura di alcuni dei brani. Passabile.
Voto: 6+
Tracklist
Mantler è il nome d'arte del musicista canadese Chris Cumming che, giunto ormai a quell'età di mezzo in cui anche gli artisti guardano alle loro spalle per vedere quanto hanno fatto nella loro carriera, tenta di riciclarsi producendo un disco lontano da quel passato da compositore di colonne sonore per opere teatrali e affezionato di musica pop nera. Spalleggiato dagli ottimi Jeremy Greenspan e Owen Pallett alla co-produzione, ricrea un ambiente sonoro che vede le sue luci luminose prendere l'energia dalla vitalità pop anni '70 e dalla leggerezza di certe branche disco della musica di quel periodo. Infatti pezzi come "Fresh and Fair" strizzano l'occhio a quella brezza disco-dance che ha fatto ballare tante persone, o quel pop assolutamente melenso ed inutile tipico di molti film risalenti al periodo d'amore del cinema d'amore, incarnato in Also Close To The Rainbow alla perfezione. E il brano funziona, anche se nessuno, giustamente, lo annovererà mai tra i capolavori del genere. L'anima di tutto Monody è pop e lo si sente nella title-track, in Fortune Smiled Again, in In Stride, ma soprattutto in Crying At The Movies, anche se certi momenti di quest'ultima ricordano un songwriting eighties meno orecchiabile. L'episodio più alto di questo lavoro è la lenta Author, malinconica ballad quasi completamente priva di comparto ritmico, prima del sofferto finale (emulata poi con un risultato leggermente inferiore dalla conclusiva Mount Shasta.
I suoi toni da camera, cupi ed a volte spensierati, allegri ma senza mai allontanarsi da quel clima lounge che rende tutti i brani adatti all'ascolto nel salotto colto di turno, con risvolti jazz e le piccole incursioni elettroniche sempre rivolte ai magnifici seventies del pop, si inerpicano in sentieri soul che rendono questo lavoro degno d'interesse perlomeno per la varietà, comunque circoscritta agli elementi storicamente propri di questo tipo di prodotti, delle influenze tirate in ballo. Perché se non apprezzate quel periodo non manderete mai giù un disco del genere, arrangiato ottimamente ma privo di legami con l'epoca presente, dove si trova scorporato da tutta la produzione contemporanea proprio per quella smisurata devozione a un'epoca che si rimembra solo per farne tribute band e compilation. Mediocre ed anacronistico tentativo, con una produzione notevole nonostante la mancanza di ispirazione nella scrittura di alcuni dei brani. Passabile.
Voto: 6+
lunedì 24 maggio 2010
Zero In On - Silly Lilly (Autoproduzione, 2010)
Recensione Scritta per Indie for Bunnies
Con due album più che discreti alle spalle, arrivano al terzo sforzo con una certa consapevolezza di ciò che stanno facendo. E si sente eccome. Acclamati nelle riviste e nei blog del settore anche fuori dalla piccola nazione dei quattro cantoni, sfornano undici brani di grande presa, evidenziando una varietà che in questo genere gli dovrebbero invidiare da tutto il globo. Il disco si apre con la title-track, un potentissimo e stiracchiato brano in puro stile alternative/indie come le chart hanno dimostrato di apprezzare nell'ultimo decennio (soprattutto se sei inglese). Niente di particolare, ma un pezzo godibile e con dei riff di chitarra molto potenti. I toni diventano più British, ma meno "banali" nelle più malinconiche Los Angeles is Burning (Pete Doherty docet, qui) e Cherry Blossom, entrambe molto ben riuscite. Monday Funday ricorda, musicalmente, gli ultimi Placebo, con l'unico elemento a differenziarsi da ritrovare nelle linee vocali dell'ottimo frontman, che spazia in vari registri senza mai apparire fuori luogo. Ed ecco una Welcome To The Moon, molto vicina agli episodi più potenti dei primi Muse, anche questa lontana dall'assomigliare "troppo" alla band citata solo per il diversificarsi della voce. Comunque un pezzo di grande presa, grazie anche ad alcuni riff difficili da scordare. Interessante la lenta e tirata Boom Boom Baby che, prima di esplodere, accumula una tensione insuperata nel resto del disco, un brano che ricorderà, anche questo, i Babyshambles più potenti (e molte delle band simili), pur rimanendo un episodio personalizzato dalle virtù tecniche e dalle scelte dei suoni di questi ragazzi di Locarno, tutti espedienti di notevole efficacia. I toni sono più dark rispetto ai primi brani e lo conferma la prima sezione di Sergeant Dylan Sand, che però si converte poi in una tirata folk di tutto rispetto. A concludere l'album le due ballads dall'anima pop Coloured Wall e Words che, voce esclusa, ricorderanno ai più i primi fenomenali dischi degli Oasis, quando ancora erano una band che non aveva iniziato a perdere i pezzi lungo i sentieri delle interviste di NME.
In sostanza questa band elvetica sforna una perla di indie rock per nulla originale, ma interessante se letto come un collage di elementi già sfruttati ed esauriti da molte delle realtà più popolari degli ultimi anni, in quanto legati da questi Zero In On, abili anche dietro i loro strumenti, con un'approccio unico, personale, dettato solo dalla loro spiazzante capacità di mettere in gioco elementi già sentiti ovunque con caparbietà e una versatilità invidiabile. Un disco, tutto sommato, più che godibile.
Voto: 7
domenica 23 maggio 2010
Portland Souvenir - Portland Souvenir EP (||| Records, 2010)
Recensione Scritta per Indie for Bunnies
Tracklist:
1. Are You My Lady, Are You?
1. Are You My Lady, Are You?
2. Some Day One Day
3. Unsolved
4. Portland Souvenir
Ascoltare questo EP è come partecipare ad un listening party terapeutico, dove ogni nota colpisce una parte diversa dei sensi della persona che la subisce, con il duplice scopo di procurargli piacere uditivo e infondergli impulsi di conciliazione interiore, come a volergli mitigare i problemi della vita di tutti i giorni, come a volerlo anestetizzare e isolare da tutto ciò che lo circonda. Tutto questo perché oltre ad una grande capacità di composizione, i Portland Souvenir hanno anche una grande tecnica e utilizzano dei suoni di grande impatto emotivo. Gli inglesi direbbero "they strike the right note", e in questo caso avviene sia letteralmente che in senso figurato.
Grandi Portland Souvenir, un disco che non può mancare nella vostra collezione.
Voto: 8.5
sabato 22 maggio 2010
The Method Actors - This Is Still It (Acute, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
This Is Still It, pubblicato da Acute nel 2010, è una reissue tra le più importanti ed imponenti dell'ultimo lustro, anche se sarebbe più opportuno definirla una "ristampa antologica". Nati in pieno periodo post-punk, negli anni in cui Curtis ancora respirava l'aria inglese che lo portò al suicidio, rappresentavano e rappresentano tutt'oggi uno degli esempi più miracolosi di come far collidere con ottimi risultati vecchio punk, rock tradizionale e garage. Infatti tutti questi nomi, chi di più chi di meno, sembrerà parzialmente i Method Actors: Gang of Four, i Devo, Captain Beefheart, i the B52's, i Polvo, i Joy Division e qualcosa dei primi Sonic Youth e Wire. C'è chi li ha influenzati e chi invece li ha subiti, contaminandosene fino a perdere, per qualche momento, la loro identità. Ecco cosa si percepisce ascoltando un disco come questo.
Oltre all'ottimo lavoro fatto nella rimasterizzazione, bisogna dare i giusti meriti anche ai singoli brani. Ci hanno già pensato i tre decenni passati ad ascoltarli, tra gli aficionados e non, a rendere loro giustizia, ma rivedere insieme cosa significavano e significano brani come Do The Method e Can't Act non sarà certo considerato anacronistico dai gentili lettori. Questa musica è diventata in realtà sinonimo di abuso al giorno d'oggi, un abuso fatto da tantissime band che si sono appropriate di questo linguaggio per svuotarlo di significato in nome di posti sicuri nelle chart alternative e nei blog sedicenti "indie". Non lo si era detto, i Method Actors erano in due, e un dettaglio abbastanza essenziale è che, senza qualcuno a dircelo, non si sente. In pezzi pieni di suoni saltellanti, a volte felici a volte più tesi alla malinconia tipica degli strascichi successivi di questo genere, con linee vocali che passano dal pazzo biascichìo all'unidirezionalità più melodica, si sente tutta la passione che solo un periodo storico come gli anni '80 (o meglio la fine dei '70) poteva dare ad una band del genere, nata nella stessa città dei REM. Trattasi di brani come Dancing Underneath, My Time (oggi è impossibile non accostarla agli ultimi arrivati sulla scena, i Franz Ferdinand) e Bleeding, con tutta la loro carica che andrebbe riportata alla vita riguardando qualcuna delle loro spettacolari esibizioni live di cui anche Peter Buck si è detto estasiato dinanzi ad alcuni intervistatori.
E si può continuare con la lista di ottimi brani, passando per Distortion, Commotion (che, come Halloween, fa parte di quello stile che si è poi tramutato in elettronica durante e dopo l'invasione dei New Order) e My Time. Il vago sentore punk fa da filo comune nello scorrere delle diciannove tracce, ma ci sono anche gli ingredienti che hanno poi aiutato a definire in maniera più precisa l'etichetta di post-punk. L'assenza, o quasi, della politica nei testi, una tecnica che è ridotta al minimo solo per mantenere quella carica tipica solo di band dall'attitudine, per l'appunto, punk (o meglio, garage), ed infine, in particolare nel loro caso, l'utilizzo di pochi mezzi per veicolare tanto (e infatti, ripetiamo, erano solamente in due). Un suono quindi ridotto all'essenziale, spogliato di tutti i fronzoli e senza il minimo eccesso. Perché è questo che erano i The Method Actors, che con tutta la loro carica hanno influenzato decenni di produzione post-punk senza mai invecchiare, come i veri pezzi d'arte che, si sa, vengono mantenuti in vita dalla stima della gente che nei secoli continua a visitarli nei musei e nelle collezioni. E così sarà per band come queste, che non perderanno mai quella ineluttabile caratteristica che rende eterni i più grandi: l'essere sempre a passo coi tempi. Lunga vita agli M.A.
Voto: 8+
Tracklist
This Is Still It, pubblicato da Acute nel 2010, è una reissue tra le più importanti ed imponenti dell'ultimo lustro, anche se sarebbe più opportuno definirla una "ristampa antologica". Nati in pieno periodo post-punk, negli anni in cui Curtis ancora respirava l'aria inglese che lo portò al suicidio, rappresentavano e rappresentano tutt'oggi uno degli esempi più miracolosi di come far collidere con ottimi risultati vecchio punk, rock tradizionale e garage. Infatti tutti questi nomi, chi di più chi di meno, sembrerà parzialmente i Method Actors: Gang of Four, i Devo, Captain Beefheart, i the B52's, i Polvo, i Joy Division e qualcosa dei primi Sonic Youth e Wire. C'è chi li ha influenzati e chi invece li ha subiti, contaminandosene fino a perdere, per qualche momento, la loro identità. Ecco cosa si percepisce ascoltando un disco come questo.
Oltre all'ottimo lavoro fatto nella rimasterizzazione, bisogna dare i giusti meriti anche ai singoli brani. Ci hanno già pensato i tre decenni passati ad ascoltarli, tra gli aficionados e non, a rendere loro giustizia, ma rivedere insieme cosa significavano e significano brani come Do The Method e Can't Act non sarà certo considerato anacronistico dai gentili lettori. Questa musica è diventata in realtà sinonimo di abuso al giorno d'oggi, un abuso fatto da tantissime band che si sono appropriate di questo linguaggio per svuotarlo di significato in nome di posti sicuri nelle chart alternative e nei blog sedicenti "indie". Non lo si era detto, i Method Actors erano in due, e un dettaglio abbastanza essenziale è che, senza qualcuno a dircelo, non si sente. In pezzi pieni di suoni saltellanti, a volte felici a volte più tesi alla malinconia tipica degli strascichi successivi di questo genere, con linee vocali che passano dal pazzo biascichìo all'unidirezionalità più melodica, si sente tutta la passione che solo un periodo storico come gli anni '80 (o meglio la fine dei '70) poteva dare ad una band del genere, nata nella stessa città dei REM. Trattasi di brani come Dancing Underneath, My Time (oggi è impossibile non accostarla agli ultimi arrivati sulla scena, i Franz Ferdinand) e Bleeding, con tutta la loro carica che andrebbe riportata alla vita riguardando qualcuna delle loro spettacolari esibizioni live di cui anche Peter Buck si è detto estasiato dinanzi ad alcuni intervistatori.
E si può continuare con la lista di ottimi brani, passando per Distortion, Commotion (che, come Halloween, fa parte di quello stile che si è poi tramutato in elettronica durante e dopo l'invasione dei New Order) e My Time. Il vago sentore punk fa da filo comune nello scorrere delle diciannove tracce, ma ci sono anche gli ingredienti che hanno poi aiutato a definire in maniera più precisa l'etichetta di post-punk. L'assenza, o quasi, della politica nei testi, una tecnica che è ridotta al minimo solo per mantenere quella carica tipica solo di band dall'attitudine, per l'appunto, punk (o meglio, garage), ed infine, in particolare nel loro caso, l'utilizzo di pochi mezzi per veicolare tanto (e infatti, ripetiamo, erano solamente in due). Un suono quindi ridotto all'essenziale, spogliato di tutti i fronzoli e senza il minimo eccesso. Perché è questo che erano i The Method Actors, che con tutta la loro carica hanno influenzato decenni di produzione post-punk senza mai invecchiare, come i veri pezzi d'arte che, si sa, vengono mantenuti in vita dalla stima della gente che nei secoli continua a visitarli nei musei e nelle collezioni. E così sarà per band come queste, che non perderanno mai quella ineluttabile caratteristica che rende eterni i più grandi: l'essere sempre a passo coi tempi. Lunga vita agli M.A.
Voto: 8+
venerdì 21 maggio 2010
Verlaine - Rivoluzioni a Pochissimi Passi dal Centro (70 Horses Records, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
I Verlaine, da Torino, sono una realtà a sé stante, difficile da definire, difficile da inquadrare ed etichettare. Leggendo la loro presentazione del disco si nota un interessante trafiletto che spiega bene o male il contenuto di questo disco.
"Una fuga feroce tra ispirazioni indie d'oltreoceano dove gli archi dei My Latest Novel e disimpegni elettronici di casa Morr Music si accostano alla sapiente autoironia dei '60 di Piero Ciampi e Lucio Battisti."
Il disco è effettivamente un quantomai coinvolgente spaccato su come una band, utilizzando modeste capacità tecniche (comunque ottime, ma non utilizzate in maniera vistosa all'interno di questo lavoro) e tanta, ma proprio tanta, ispirazione, possa unire ingredienti talmente distanti tra loro da risultare quasi indigesti al primo ascolto, per poi penetrare nell'udito della vittima della ripetuta riproduzione dei brani come un raffinato collage dall'aspetto quasi "lussuoso". L'autoironia dei cantautori degli anni '60 citati nella presentazione sorvola tutti i testi inserendosi nelle scalanature della musica, soffusa come all'indie americano piace ma piena negli arrangiamenti che si abbelliscono di strumenti meno consuetudinari come l'ukulele e il trombone per creare un tappeto sonoro che ben si sposa con l'anima pop della musica, e precipitosa scende nelle faticose vite degli italiani per racconti che toccano un po' tutti. Negli ultimi tempi c'è riuscito anche Brunori SAS, anche lui aficionado di Piero Ciampi, e ci ha provato con una disillusione ancora maggiore e una grammatica molto inferiore il buon Vasco Brondi. C'è poesia in questa musica, ma c'è anche tanta voglia di fuggire, in testi come Ti Ho Già Detto Il Mio Nome o Dipendente Pubblico, pur senza mai rasentare la rassegnazione o il senso di sottomissione, lasciati superare da quel sentimento di speranza che è solito trapelare nella traduzione cantautorale anche tra le più pessimiste (Guccini e De André, tra i memorabili). Le atmosfere calorose di Tom Waits #2 e Da Giugno A Maggio creano un filo unico che come una rotaia attraverso tutto questo splendido disco, intimo e malinconico, ma non spietato, non esagerato nei toni e mai macabro, pur lasciando doloranti tracce d'inchiostro sulla pelle dell'ascoltatore. Il pop dei My Latest Novel, con qualche prospettiva di avvicinamento anche a Malcolm Middleton solista, è solo una parte dell'immenso mondo dei Verlaine, impegnati a creare un universo loro, dal quale fuggire, dopo i primi ascolti, sarà impossibile.
Ai Verlaine-dipendenti sconsigliamo di smettere, disintossicarsi da queste cose è sbagliato. Dovrebbe essere illegale. Gran disco.
Voto: 8.5
giovedì 20 maggio 2010
Missing Persons - Spring Session M (Capitol Records, 1982)
Tre ex membri delle band di Frank Zappa (Patrick O'Hearn al basso, Terry Bozzio alla batteria, peraltro già membro dei grandissimi UK e Warren Cuccurullo alla chitarra, più avanti chitarrista dei Duran Duran, e, ahimè, attore porno), più Chuck Wild alle tastiere e Dale Bozzio (all'epoca moglie di Terry) alla voce solista.
Questi in definitiva sono i Missing Persons. I brani sono stati composti tutti da Cuccurullo e da Terry Bozzio, la qualità tecnica dei musicisti è eccellente e la produzione buona. Quindi questo dovrebbe essere un buon disco, vero?
Sbagliato. Penso, nella mia vita, di non aver mai sentito uno spreco di talento peggiore. Chi si aspetta qualcosa di collegato al lavoro di Zappa o degli UK è destinato a rimanere deluso, perché questo disco non è altro che pop becero della peggior specie.
E questo non è l'unico problema. Come prima cosa, la voce squillante di Dale Bozzio è assolutamente irritante (benché questa sia stata la causa del loro successo, oltre che del suo aspetto provocatorio e sensuale, aiutato da qualche foto "osè" su qualche rivista). In secondo luogo, se i nomi non fossero stampati in bella vista su disco, non si direbbe assolutamente che sia la triade O'Hearn-Bozzio-Cuccurullo a suonare su questo album: non vi è infatti nessuna prova virtuosistica o di gusto infatti; sono particolarmente deluso dal drumming di Bozzio, sicuramente preciso, ma freddo, calcolato e senza il minimo feeling, distante anni luce dall'incredibile lavoro che aveva fatto con Zappa e con gli UK.
E infine, come già menzionato, la musica. Fastidiosi, infatti, i ritmi incalzanti di brani come "Tears", "Walking in LA", "It Ain't None Of Your Business", "US Drag" (con tracce di rap e una base che vorrebbe osare di più, ma non convince) e "Bad Streets", e i risultati non cambiano con le più pacate "Here and Now" e "Words" (la cui melodia vocale è qualcosa di particolarmente imbarazzante).
E il fatto che sia un brano come "Destination Unknown", la cui unica attrattiva è l'atmosfera dark e un riff carino, ma banale, la cosa più riuscita del disco dovrebbe indurre a pensare.
Il resto dell'album consiste in brani che spariscono dalla testa subito dopo essere stati ascoltati, ed essendo questo un disco commerciale, non va bene neanche un po'.
Niente di cui andare fieri, in parole povere. Questo album è consigliato solo se siete particolarmente curiosi. Bocciati.
Ah, e come se non bastasse, la copertina è una delle cose più tamarre mai create dalla notte dei tempi.
Voto: 4
mercoledì 19 maggio 2010
Melissa Auf Der Maur - Out of Our Minds (Roadrunner Records, 2010)
Tracklist
Melissa Auf Der Maur ha avuto una carriera in costante fermento, sempre sulla cresta dell'onda. Tra Hole, Smashing Pumpkins e un progetto cover dei Black Sabbath denominato Hand of Doom ha dato il massimo, distinguendosi sempre non solo per la sua "appariscenza" che l'ha fatta salire nell'olimpo delle donne più ammirate del rock, ma anche per una certa personalità da bassista. Poi ha provato un percorso da solista, che l'ha portata a produrre nei primi anni zero un grandissimo disco che ha superato ogni aspettativa. Dopo sei anni dà alle stampe il suo secondo sforzo, circondato dalle attenzioni provocate anche dagli accesi dibattiti con Courtney Love e, appunto, il disco appena uscito della "finta reunion" delle Hole.
Questo Out of Our Minds è di per sé un ottimo disco, seppur leggermente inferiore al suo precedessore, che vira verso nuove strade mantenendo quella venatura energica che contraddistingueva i primi suoi pezzi da compositrice solitaria, con apocalittici inserti new wave, qualche pizzico di elettronica (l'album è stato composto prima con l'ausilio di una drum machine e sintetizzatori, a quanto pare), più melodia ma senza cancellare la profondità e la violenza delle distorsioni, in più di qualche episodio a dire il vero piuttosto pesanti. La pecca è forse la voce di Melissa, che non brilla né per tecnica né per timbrica, pur assestandosi bene con melodie piuttosto catchy e uno stile che genera una specie di assuefazione, più che altro per la sua sensualità. Manca però di originalità e una volta ascoltati un paio di pezzi si può già presagire come si evolveranno tutte le successive linee vocali. Questa piccola falla è comunque insabbiata da una trama compositiva di grande qualità, che non diventa mai banale, e si arena su lidi sempre nuovi. C'è la melodia quasi new wave/ambient di Lead Horse, strumentale di poco meno di quattro minuti assolutamente diverso da qualsiasi cosa avessimo sentito dalla canadese, la straziante ballad alternative già presa come primo singolo Out of our Minds, la soffusa e quasi brit-pop nei suoi saltelli al piano Father's Grave, e poi i momenti più taglienti, quelli che scuriscono i toni piuttosto "grunge" di Isis Speaks, o le falciate di Mother's Red Box che ricordano, chitarristicamente, i Queens of The Stone Age più commerciali. Molti gli episodi dall'incedere quasi progressivo, ambientale, lontano da quel post-grunge predominante dell'esordio (ancora presente comunque in Meet Me On The Dark Side e The One).
In sostanza Melissa ha prodotto un lavoro diverso, alienando del tutto la parola "ripetizione" che proprio non si adatta ad un disco fresco, nuovo e, a suo modo, innovativo come questo. Le abilità tecniche non proprio eccelse si annullano immediatamente di fronte ad un sound pieno, pregno, privo di sbavature, supportato oltretutto da un songwriting incredibilmente studiato e che sfonda le barriere dell'alternative da classifica per rivolgersi ad un pubblico molto più settoriale. Da notare che questo progetto si propone come concept album supportato anche da una mostra d'arte, un cortometraggio e un fumetto, tutti forgiati dalla cantautrice nordamericana.
Un disco da avere ed assaporare lentamente, per non perdere nessuna delle sue tenui nuances. Candidato a disco dell'anno
Voto: 8
Melissa Auf Der Maur ha avuto una carriera in costante fermento, sempre sulla cresta dell'onda. Tra Hole, Smashing Pumpkins e un progetto cover dei Black Sabbath denominato Hand of Doom ha dato il massimo, distinguendosi sempre non solo per la sua "appariscenza" che l'ha fatta salire nell'olimpo delle donne più ammirate del rock, ma anche per una certa personalità da bassista. Poi ha provato un percorso da solista, che l'ha portata a produrre nei primi anni zero un grandissimo disco che ha superato ogni aspettativa. Dopo sei anni dà alle stampe il suo secondo sforzo, circondato dalle attenzioni provocate anche dagli accesi dibattiti con Courtney Love e, appunto, il disco appena uscito della "finta reunion" delle Hole.
Questo Out of Our Minds è di per sé un ottimo disco, seppur leggermente inferiore al suo precedessore, che vira verso nuove strade mantenendo quella venatura energica che contraddistingueva i primi suoi pezzi da compositrice solitaria, con apocalittici inserti new wave, qualche pizzico di elettronica (l'album è stato composto prima con l'ausilio di una drum machine e sintetizzatori, a quanto pare), più melodia ma senza cancellare la profondità e la violenza delle distorsioni, in più di qualche episodio a dire il vero piuttosto pesanti. La pecca è forse la voce di Melissa, che non brilla né per tecnica né per timbrica, pur assestandosi bene con melodie piuttosto catchy e uno stile che genera una specie di assuefazione, più che altro per la sua sensualità. Manca però di originalità e una volta ascoltati un paio di pezzi si può già presagire come si evolveranno tutte le successive linee vocali. Questa piccola falla è comunque insabbiata da una trama compositiva di grande qualità, che non diventa mai banale, e si arena su lidi sempre nuovi. C'è la melodia quasi new wave/ambient di Lead Horse, strumentale di poco meno di quattro minuti assolutamente diverso da qualsiasi cosa avessimo sentito dalla canadese, la straziante ballad alternative già presa come primo singolo Out of our Minds, la soffusa e quasi brit-pop nei suoi saltelli al piano Father's Grave, e poi i momenti più taglienti, quelli che scuriscono i toni piuttosto "grunge" di Isis Speaks, o le falciate di Mother's Red Box che ricordano, chitarristicamente, i Queens of The Stone Age più commerciali. Molti gli episodi dall'incedere quasi progressivo, ambientale, lontano da quel post-grunge predominante dell'esordio (ancora presente comunque in Meet Me On The Dark Side e The One).
In sostanza Melissa ha prodotto un lavoro diverso, alienando del tutto la parola "ripetizione" che proprio non si adatta ad un disco fresco, nuovo e, a suo modo, innovativo come questo. Le abilità tecniche non proprio eccelse si annullano immediatamente di fronte ad un sound pieno, pregno, privo di sbavature, supportato oltretutto da un songwriting incredibilmente studiato e che sfonda le barriere dell'alternative da classifica per rivolgersi ad un pubblico molto più settoriale. Da notare che questo progetto si propone come concept album supportato anche da una mostra d'arte, un cortometraggio e un fumetto, tutti forgiati dalla cantautrice nordamericana.
Un disco da avere ed assaporare lentamente, per non perdere nessuna delle sue tenui nuances. Candidato a disco dell'anno
Voto: 8
martedì 18 maggio 2010
Ciclope - Una Notte L'Inferno (Green Fog, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
I Ciclope sono una band veneta, nata tra Venezia e Padova nel 2009. Il progetto prende subito velocità e si arriva presto alla registrazione del primo full-length, questo "Una Notte L'Inferno", per Green Fog Records, ottima etichetta ligure. La band spara un CD di potente noise rock senza troppe pretese, con sonorità potenti che quasi ricordano quelle del Teatro degli Orrori e degli One Dimensional Man (soprattutto in certi momenti come Blu e Una Notte L'Inferno, la title-track), tumefatto dalle botte prese ascoltando i Sonic Youth di quando erano talmente fighi da scrivere la storia di questo genere, e poi imbrigliati in Italia dai Marlene Kuntz, i CSI ed alcuni momenti più recenti come i Devocka o qualche altra band.
Ma c'è bisogno di un approfondimento migliore. "Ho sbagliato la rotta, o forse ho perduto coscienza di me", grida il frontman Igor Pajalich. L'album è compatto, omogeneo, senza troppe "deviazioni". Un unico blocco di granito che non si spezza per nessun momento diverso, senza penetrare mai negli abissi più "italiani" dell'alternative o menate varie. Solo Ciclope, noise e rock pestone che un po' l'ultimo CD dei Meganoidi aveva introdotto al popolo dell'Italia tagliata a metà da una linea che vede le band rockeggiare di più al nord. E la cattiveria di Quattro Passi Nel Delirio fa una mossa vincente in questa partita di scacchi.
I testi parlano di insonnia, solitudine, buio, inesorabili attese, assumendo quella veste intimista che tanto piace ai cantautori italiani anche quando decidono di arrotondare chiamando qualche artista di buon nome a fargli da band. I Ciclope però nascono come band e portano questo tipo di scrittura ad una dimensione più personale, creando brani molto interessanti, nonostante gli stereotipi noise non aiutino certo a collocare vicino ai Ciclope la parola "originalità" con coerenza (es. Quando Eravamo Giovani o Ti Odio, con il suo fumoso finale rallentato quasi dagli echi post-rock), ed è per questo che nonostante gli ingredienti possano risultare vagamente insipidi e catastroficamente "già sentiti" i brani trovano comunque una loro forza, profondamente radicata nella potenza della voce e della batteria, nel graffiante duettare di basso (a volte doppio) e chitarra (ottimo Leonardo Gatto in questo ruolo), l'incedere sempre molto "radiofonico", a loro modo, delle strutture dei pezzi.
I Ciclope sfornano un album a metà tra quello che vorremo sentire e quello che ci siamo già stancati di sentire, in ogni caso sparandoci nelle orecchie un tour de force di inesorabile noise che in Italia pochi sanno fare come si deve senza sforare nell'imitazione forzosa. Interessanti e con grandi possibilità di evoluzione.
Voto: 7.5
Tracklist
I Ciclope sono una band veneta, nata tra Venezia e Padova nel 2009. Il progetto prende subito velocità e si arriva presto alla registrazione del primo full-length, questo "Una Notte L'Inferno", per Green Fog Records, ottima etichetta ligure. La band spara un CD di potente noise rock senza troppe pretese, con sonorità potenti che quasi ricordano quelle del Teatro degli Orrori e degli One Dimensional Man (soprattutto in certi momenti come Blu e Una Notte L'Inferno, la title-track), tumefatto dalle botte prese ascoltando i Sonic Youth di quando erano talmente fighi da scrivere la storia di questo genere, e poi imbrigliati in Italia dai Marlene Kuntz, i CSI ed alcuni momenti più recenti come i Devocka o qualche altra band.
Ma c'è bisogno di un approfondimento migliore. "Ho sbagliato la rotta, o forse ho perduto coscienza di me", grida il frontman Igor Pajalich. L'album è compatto, omogeneo, senza troppe "deviazioni". Un unico blocco di granito che non si spezza per nessun momento diverso, senza penetrare mai negli abissi più "italiani" dell'alternative o menate varie. Solo Ciclope, noise e rock pestone che un po' l'ultimo CD dei Meganoidi aveva introdotto al popolo dell'Italia tagliata a metà da una linea che vede le band rockeggiare di più al nord. E la cattiveria di Quattro Passi Nel Delirio fa una mossa vincente in questa partita di scacchi.
I testi parlano di insonnia, solitudine, buio, inesorabili attese, assumendo quella veste intimista che tanto piace ai cantautori italiani anche quando decidono di arrotondare chiamando qualche artista di buon nome a fargli da band. I Ciclope però nascono come band e portano questo tipo di scrittura ad una dimensione più personale, creando brani molto interessanti, nonostante gli stereotipi noise non aiutino certo a collocare vicino ai Ciclope la parola "originalità" con coerenza (es. Quando Eravamo Giovani o Ti Odio, con il suo fumoso finale rallentato quasi dagli echi post-rock), ed è per questo che nonostante gli ingredienti possano risultare vagamente insipidi e catastroficamente "già sentiti" i brani trovano comunque una loro forza, profondamente radicata nella potenza della voce e della batteria, nel graffiante duettare di basso (a volte doppio) e chitarra (ottimo Leonardo Gatto in questo ruolo), l'incedere sempre molto "radiofonico", a loro modo, delle strutture dei pezzi.
I Ciclope sfornano un album a metà tra quello che vorremo sentire e quello che ci siamo già stancati di sentire, in ogni caso sparandoci nelle orecchie un tour de force di inesorabile noise che in Italia pochi sanno fare come si deve senza sforare nell'imitazione forzosa. Interessanti e con grandi possibilità di evoluzione.
Voto: 7.5
lunedì 17 maggio 2010
Walter Schreifels - An Open Letter To The Scene (Arctic Rodeo Recordings, 2010)
Tracklist
Schreifels è un nome importante ma che in Italia pochi conosceranno. Fluttua nella scena rock e alternative da quando, o da prima che, esistesse. E' stato in importanti band come gli alfieri dell'hardcore newyorkese Gorilla Buscuits, gli Youth of Today, i Moondog, i Rival Schools, i Walter and the Motorcycles e infine i Walking Concert, toccando le più diverse nuances dell'indie e del British rock, dopo aver abbandonato quelle del punk estremo; tutto questo ricordando che è un newyorkese trapiantato a Berlino.
E' l'Aprile del 2010 quando esce "An Open Letter To The Scene", il suo primo lavoro da solista dopo più di vent'anni di carriera. Il titolo è niente di più e niente di meno che una dichiarazione d'intenti e lascia presagire, per un produttore di band hardcore politicamente schierate, un contenuto sovversivo o perlomeno pesantemente critico. Non c'è niente di tutto questo nei dieci pezzi contenuti nel disco, anche se qualche accenno di protesta o perlomeno di analisi lo si può ritrovare in qualche frase delle canzoni più agitate. In sostanza l'album è molto British-oriented, con possibili e avveduti accostamenti a band come Babyshambles e il progetto Rival Schools, sempre di Schreifels, ovviamente nomi che hanno radici comuni nelle vecchie glorie inglesi come Elvis Costello e i The Smiths, immancabili influenze di ogni artista che abbia a cuore la cultura musicale britannica. Lo si sente in She Is To Me, nella rilettura di Sucker City degli Agnostic Front, rivista con quello stampo folk rock cantautorale tipico di questo capitolo della vita artistica di Walter; e anche in Save The Saveables. Diciamolo, onestamente, in tutto il disco. Ma c'è di più. Ballad of Lil' Kim, con un titolo acuto nonché provocatorio, se paragonato al nome dell'album, è un brano che tocca con uno spirito molto passionale i cliché della musica brit, senza risultare né scontato né copiato, ma anzi fresco e vicino ai lidi alternative e mainstream dei progetti più recenti coinvolgenti il ritrovato "cantautore", in questa sua nuova veste.
Forse la definizione più appropriata per un album così è quella di indie folk-pop, che può andar stretta per alcuni brani ma ritrovarsi onesta ed adeguata per la totalità di questa "lettera aperta". Soprattutto per i capitoli più sofferenti, dove ogni nota spruzza malinconia languida, grazie alla bellissima voce del cantante, come Open Letter, in conclusione.
Il disco riesce nell'ambizioso tentativo di accorpare moltissimi luoghi comuni del folk e dell'alternative inglese per risultare un'analisi critica di questa scena. Che lo scopo ultimo di Walter Schreifels quando ha scelto per questo lavoro questo titolo fosse proprio questo è una considerazione che lasciamo ad eventuali intervistatori, ma il fatto che questo sia un ottimo disco, benché non presenti alcuna sorpresa o novità, proveniente da una persona con un passato collocato agli antipodi rispetto a questo genere, no, questo non lo può negare nessuno. Piacevole.
Voto: 7.5
Schreifels è un nome importante ma che in Italia pochi conosceranno. Fluttua nella scena rock e alternative da quando, o da prima che, esistesse. E' stato in importanti band come gli alfieri dell'hardcore newyorkese Gorilla Buscuits, gli Youth of Today, i Moondog, i Rival Schools, i Walter and the Motorcycles e infine i Walking Concert, toccando le più diverse nuances dell'indie e del British rock, dopo aver abbandonato quelle del punk estremo; tutto questo ricordando che è un newyorkese trapiantato a Berlino.
E' l'Aprile del 2010 quando esce "An Open Letter To The Scene", il suo primo lavoro da solista dopo più di vent'anni di carriera. Il titolo è niente di più e niente di meno che una dichiarazione d'intenti e lascia presagire, per un produttore di band hardcore politicamente schierate, un contenuto sovversivo o perlomeno pesantemente critico. Non c'è niente di tutto questo nei dieci pezzi contenuti nel disco, anche se qualche accenno di protesta o perlomeno di analisi lo si può ritrovare in qualche frase delle canzoni più agitate. In sostanza l'album è molto British-oriented, con possibili e avveduti accostamenti a band come Babyshambles e il progetto Rival Schools, sempre di Schreifels, ovviamente nomi che hanno radici comuni nelle vecchie glorie inglesi come Elvis Costello e i The Smiths, immancabili influenze di ogni artista che abbia a cuore la cultura musicale britannica. Lo si sente in She Is To Me, nella rilettura di Sucker City degli Agnostic Front, rivista con quello stampo folk rock cantautorale tipico di questo capitolo della vita artistica di Walter; e anche in Save The Saveables. Diciamolo, onestamente, in tutto il disco. Ma c'è di più. Ballad of Lil' Kim, con un titolo acuto nonché provocatorio, se paragonato al nome dell'album, è un brano che tocca con uno spirito molto passionale i cliché della musica brit, senza risultare né scontato né copiato, ma anzi fresco e vicino ai lidi alternative e mainstream dei progetti più recenti coinvolgenti il ritrovato "cantautore", in questa sua nuova veste.
Forse la definizione più appropriata per un album così è quella di indie folk-pop, che può andar stretta per alcuni brani ma ritrovarsi onesta ed adeguata per la totalità di questa "lettera aperta". Soprattutto per i capitoli più sofferenti, dove ogni nota spruzza malinconia languida, grazie alla bellissima voce del cantante, come Open Letter, in conclusione.
Il disco riesce nell'ambizioso tentativo di accorpare moltissimi luoghi comuni del folk e dell'alternative inglese per risultare un'analisi critica di questa scena. Che lo scopo ultimo di Walter Schreifels quando ha scelto per questo lavoro questo titolo fosse proprio questo è una considerazione che lasciamo ad eventuali intervistatori, ma il fatto che questo sia un ottimo disco, benché non presenti alcuna sorpresa o novità, proveniente da una persona con un passato collocato agli antipodi rispetto a questo genere, no, questo non lo può negare nessuno. Piacevole.
Voto: 7.5
domenica 16 maggio 2010
Deftones - Diamond Eyes (Warner Bros./Reprise, 2010)
Tracklist
I Deftones sono, paradossalmente, l'unica realtà nata nel periodo d'oro della scena impropriamente detta nu-metal durante gli anni '90 ad essere rimasta in piedi con una certa dignità. Dove quasi tutte le band sono morte nell'imitazione di sé stesse o delle band più fortunate di loro o altre si sono evolute in sbiaditi tentativi di commercializzarsi finiti nel ridicolo (i Korn?), i Deftones hanno tentato prima la svolta melodica, con un paio di dischi che iniziavano a "calmare un po' le acque" dopo la botta iniziale di Around The Fur e Adrenaline, per poi dare un Saturday Night Wrist di tutto rispetto, con addirittura piccoli deliri ambient e momenti di sperimentazione che hanno inevitabilmente consacrato la band come una realtà multiforme e per nulla statica. Quello che, logicamente, ci si aspettava era un disco commerciale o comunque dalle venature più intimistiche, come gli episodi più recenti degli americani lasciavano presagire. E invece ecco Diamond Eyes, un disco graffiante, esplosivo, dal quale non si direbbe mai che la band è invecchiata rispetto agli esordi, più simile, come indicava Chino Moreno dalle interviste, ad Around the Fur che ai suoi successori. E per una volta le dichiarazioni di un membro di una band riguardo "l'atteso album" sono state confermate dai fatti.
Nel disco undici brani, tutti caratterizzati da un sound tagliente e un tiro incalzante, molto più di quanto ci si potesse aspettare da loro nel duemiladodici. La potenza dei riff e delle ritmiche di brani come Diamond Eyes, Royal, CMND/CTRL e Rocket Skates, tutte con quel sentore di "tipicamente-Deftones" che li rende immediatamente riconoscibili ai più, lascia veramente frastornati dopo il palpabile affievolimento arrivato con i dischi più recenti. La prima evidenzia e visualizza perfettamente tutta l'esperienza maturata dalla band, con un frontman in grande spolvero nonostante i cali di voce e uno stile che, purtroppo, ristagna molto per la poca versatilità della sua timbrica. Ma non è questo ad impedirgli di forgiare testi sempre molto criptici e linee vocali di tutto rispetto, con venature pop anche se incastonate in cornici che attingono molto più al metal che all'alternative a cui si stavano abituando.
C'è spazio anche per le incursioni melodiche, ad esempio in Beauty School, più lenta rispetto alla velocità media di questo lavoro, oppure in Sex Tape, che ricorda in alcuni frangenti band del periodo grunge e post-grunge, in primis Smashing Pumpkins, riempita anche da alcuni delay che questa volta i Deftones rinunciano ad utilizzare spesso, forse per non cadere nella tentazione di ripetersi troppo. I pezzi più "classici", se prendiamo per standard White Pony, sono 976-evil e Prince, che come struttura si rifanno molto a quel periodo, mentre tutto l'album è protetto da un coriaceo rivestimento "metallico" come solo nei primi dischi era successo, impreziosendosi anche con alcuni tempi dispari e un uso maggiore dello screaming, lasciato piuttosto in disparte negli ultimi tre lavori.
In definitiva questo capitolo della carriera dei Deftones ci mostra una band assolutamente cresciuta, conscia dei suoi pregi e dei suoi difetti, che ha saputo, senza aver manifestato mai i sintomi dell'invecchiamento "artistico, utilizzare per creare un album che è sia un sunto di tutto ciò che sono stati, che un passo in avanti, ora che hanno allontanato, e di molto, i tentativi di inabissarli che la critica aveva intentato chiamandoli "band venduta" insieme a tutta la compagine nu-metal. Diamond Eyes dimostra che Moreno e soci avranno lunga vita, e se non diventerà un classico del genere, ci andrà vicino. Gran disco.
Voto: 8
I Deftones sono, paradossalmente, l'unica realtà nata nel periodo d'oro della scena impropriamente detta nu-metal durante gli anni '90 ad essere rimasta in piedi con una certa dignità. Dove quasi tutte le band sono morte nell'imitazione di sé stesse o delle band più fortunate di loro o altre si sono evolute in sbiaditi tentativi di commercializzarsi finiti nel ridicolo (i Korn?), i Deftones hanno tentato prima la svolta melodica, con un paio di dischi che iniziavano a "calmare un po' le acque" dopo la botta iniziale di Around The Fur e Adrenaline, per poi dare un Saturday Night Wrist di tutto rispetto, con addirittura piccoli deliri ambient e momenti di sperimentazione che hanno inevitabilmente consacrato la band come una realtà multiforme e per nulla statica. Quello che, logicamente, ci si aspettava era un disco commerciale o comunque dalle venature più intimistiche, come gli episodi più recenti degli americani lasciavano presagire. E invece ecco Diamond Eyes, un disco graffiante, esplosivo, dal quale non si direbbe mai che la band è invecchiata rispetto agli esordi, più simile, come indicava Chino Moreno dalle interviste, ad Around the Fur che ai suoi successori. E per una volta le dichiarazioni di un membro di una band riguardo "l'atteso album" sono state confermate dai fatti.
Nel disco undici brani, tutti caratterizzati da un sound tagliente e un tiro incalzante, molto più di quanto ci si potesse aspettare da loro nel duemiladodici. La potenza dei riff e delle ritmiche di brani come Diamond Eyes, Royal, CMND/CTRL e Rocket Skates, tutte con quel sentore di "tipicamente-Deftones" che li rende immediatamente riconoscibili ai più, lascia veramente frastornati dopo il palpabile affievolimento arrivato con i dischi più recenti. La prima evidenzia e visualizza perfettamente tutta l'esperienza maturata dalla band, con un frontman in grande spolvero nonostante i cali di voce e uno stile che, purtroppo, ristagna molto per la poca versatilità della sua timbrica. Ma non è questo ad impedirgli di forgiare testi sempre molto criptici e linee vocali di tutto rispetto, con venature pop anche se incastonate in cornici che attingono molto più al metal che all'alternative a cui si stavano abituando.
C'è spazio anche per le incursioni melodiche, ad esempio in Beauty School, più lenta rispetto alla velocità media di questo lavoro, oppure in Sex Tape, che ricorda in alcuni frangenti band del periodo grunge e post-grunge, in primis Smashing Pumpkins, riempita anche da alcuni delay che questa volta i Deftones rinunciano ad utilizzare spesso, forse per non cadere nella tentazione di ripetersi troppo. I pezzi più "classici", se prendiamo per standard White Pony, sono 976-evil e Prince, che come struttura si rifanno molto a quel periodo, mentre tutto l'album è protetto da un coriaceo rivestimento "metallico" come solo nei primi dischi era successo, impreziosendosi anche con alcuni tempi dispari e un uso maggiore dello screaming, lasciato piuttosto in disparte negli ultimi tre lavori.
In definitiva questo capitolo della carriera dei Deftones ci mostra una band assolutamente cresciuta, conscia dei suoi pregi e dei suoi difetti, che ha saputo, senza aver manifestato mai i sintomi dell'invecchiamento "artistico, utilizzare per creare un album che è sia un sunto di tutto ciò che sono stati, che un passo in avanti, ora che hanno allontanato, e di molto, i tentativi di inabissarli che la critica aveva intentato chiamandoli "band venduta" insieme a tutta la compagine nu-metal. Diamond Eyes dimostra che Moreno e soci avranno lunga vita, e se non diventerà un classico del genere, ci andrà vicino. Gran disco.
Voto: 8
sabato 15 maggio 2010
Sakee Sed - Alle Basi Della Roncola (autoproduzione/Mousemen Records, 2010)
Tracklist
Il duo bergamasco più vivace del momento ha avuto di che lavorare per produrre un album come questo. Un folk intriso di uno spirito pesantemente cantautorale vecchio stampo, con le anime evanescenti di Rino Gaetano e Piero Ciampi a veleggiare attorno alla loro sala prove durante tutto il processo compositivo, frutto di un passionale e scrupoloso tentativo di approfondire le atmosfere colorandole ora di toni più umoristici, simpatici, pieni di geniale e solare pathos, altre volte calando il sipario per raggiungere nuances più scure, buie, con le loro tetre e soporifere melodie. Paragonabili, alla bell'e meglio, agli ultimi Zen Circus (o al Pan Del Diavolo), i due ex De Seekas sono in realtà più vari delle due, seppur buonissime, formazioni italiche.
Nel disco testi ironici, che rasentano il ridicolo (basta leggere una manciata di titoli, tra cui il migliore sicuramente Cenami il Cefalo), a volte in inglese ed altre in italiano, a suggellare l'estensione del prodotto, che si protende anche geograficamente oltre i limiti italiani con quei pezzi che potrebbero incantare anche i più saggi ascoltatori britannici. Il folk più classico è tutto confezionato in un paio di pezzi, Vermouth And Baby e I'm Drunk, con quelle tonalità quasi irlandesi, riprese anche dal pazzerello punk-blues quasi completamente acustico di Mrs. Tennessee e le vivide colorazioni latine di Uncachaca. Libidine rustica in Benson & Eggs, con dei cori che si immaginano irriproducibili in concerto ma di sicuro impatto, a ricordare rincorse di pastori sardi dietro a greggi di pecore come neanche Heidi. Strumenti come il vibrafono e l'ukulele riempiono l'aria con quel sentore di spensieratezza che solo la musica regionale meridionale talvolta è in grado di riportare alla mente, e il banjo fa il resto. A partecipare al progetto ci sono anche alcuni amici musicisti, che aggiungono la loro esperienza e il loro apporto alla già innegabile bravura di Ghezzi e Perucchini. Il circondario della band è lo stesso di molti artisti Jestrai e dei Verdena, ed ecco infatti che si ricordano featuring live con Roberta Sammarelli e l'accostamento necessario con i Jennifer Gentle arriva da sé, per un brano come Honky Thonky Thonk e i suoi momenti parapsichedelici che effettivamente riportano alla mente il prestigioso progetto veneto.
Il termine più appropriato per descrivere questo lavoro è forse "bucolico". Quelle atmosfere quasi "da campagna" che di solito riguardano il folk nel senso più stretto del termine sono estese anche a questo interessante marasma di pop, psichedelia, folk, blues e cantautorale. Ce n'è per tutti i gusti, e la grande capacità compositiva, e strumentale, del duo non poteva che far sì che questo "Alle Basi Della Roncola" diventasse automaticamente uno dei candidati a disco dell'anno.
Gran lavoro.
Voto: 8.5
Il duo bergamasco più vivace del momento ha avuto di che lavorare per produrre un album come questo. Un folk intriso di uno spirito pesantemente cantautorale vecchio stampo, con le anime evanescenti di Rino Gaetano e Piero Ciampi a veleggiare attorno alla loro sala prove durante tutto il processo compositivo, frutto di un passionale e scrupoloso tentativo di approfondire le atmosfere colorandole ora di toni più umoristici, simpatici, pieni di geniale e solare pathos, altre volte calando il sipario per raggiungere nuances più scure, buie, con le loro tetre e soporifere melodie. Paragonabili, alla bell'e meglio, agli ultimi Zen Circus (o al Pan Del Diavolo), i due ex De Seekas sono in realtà più vari delle due, seppur buonissime, formazioni italiche.
Nel disco testi ironici, che rasentano il ridicolo (basta leggere una manciata di titoli, tra cui il migliore sicuramente Cenami il Cefalo), a volte in inglese ed altre in italiano, a suggellare l'estensione del prodotto, che si protende anche geograficamente oltre i limiti italiani con quei pezzi che potrebbero incantare anche i più saggi ascoltatori britannici. Il folk più classico è tutto confezionato in un paio di pezzi, Vermouth And Baby e I'm Drunk, con quelle tonalità quasi irlandesi, riprese anche dal pazzerello punk-blues quasi completamente acustico di Mrs. Tennessee e le vivide colorazioni latine di Uncachaca. Libidine rustica in Benson & Eggs, con dei cori che si immaginano irriproducibili in concerto ma di sicuro impatto, a ricordare rincorse di pastori sardi dietro a greggi di pecore come neanche Heidi. Strumenti come il vibrafono e l'ukulele riempiono l'aria con quel sentore di spensieratezza che solo la musica regionale meridionale talvolta è in grado di riportare alla mente, e il banjo fa il resto. A partecipare al progetto ci sono anche alcuni amici musicisti, che aggiungono la loro esperienza e il loro apporto alla già innegabile bravura di Ghezzi e Perucchini. Il circondario della band è lo stesso di molti artisti Jestrai e dei Verdena, ed ecco infatti che si ricordano featuring live con Roberta Sammarelli e l'accostamento necessario con i Jennifer Gentle arriva da sé, per un brano come Honky Thonky Thonk e i suoi momenti parapsichedelici che effettivamente riportano alla mente il prestigioso progetto veneto.
Il termine più appropriato per descrivere questo lavoro è forse "bucolico". Quelle atmosfere quasi "da campagna" che di solito riguardano il folk nel senso più stretto del termine sono estese anche a questo interessante marasma di pop, psichedelia, folk, blues e cantautorale. Ce n'è per tutti i gusti, e la grande capacità compositiva, e strumentale, del duo non poteva che far sì che questo "Alle Basi Della Roncola" diventasse automaticamente uno dei candidati a disco dell'anno.
Gran lavoro.
Voto: 8.5
venerdì 14 maggio 2010
Mallard - Mallard (Virgin, 1975)
I Mallard sono un gruppo molto interessante, sebbene la loro carriera si sia svolta interamente all'interno di tre anni. Il gruppo nasce dalle costole della Magic Band di Captain Beefheart, e producono una musica simile alle cose più blueseggianti del Capitano. La musica è meno strana di quella di Don Van Vliet, ma non per questo disprezzabile, e l'ascolto dell'album risulta molto interessante, con qualche vena sperimentale nel miscuglio nonostante tutto.
I Mallard sono infatti Mark Boston al basso, (Rockette Morton nella Magic Band), Arthur Tripp alla batteria e alle percussioni (conosciuto come Ed Marimba, che qualche anno prima aveva suonato anche con i Mothers of Invention di Frank Zappa), Bill Harkleroad (il leggendario Zoot Horn Rollo) alla chitarra più Sam Galpin alla voce (che in alcuni momenti ricorda vagamente il Capitano, pur non mancando di espressività) e John "Rabbit" Bundrick alle tastiere (che ha partecipato alla realizzazione del mitico The Rocky Horror Picture Show e ha collaborato con i Free, i Fairport Convention, Sandy Denny, Who e Roger Waters tra gli altri). I quattro vennero aiutati da un altro ex membro della Magic Band, ovvero John French (Drumbo, batterista storico del gruppo) che aiutò a comporre qualche canzone e dal grande Ian Anderson dei Jethro Tull, fan del gruppo e appunto di Capitan Beefheart, che li aiutò anche economicamente e li sostenne per tutta la loro, purtroppo breve, carriera.
"Back on the Pavement" e "She's Long and She's Lean" poste in apertura all'album si rifanno appunto al blues bizzarro del Capitano, ovvero accordi tipicamente blues ma struttura e ritmi parecchio strani, mentre si discosta totalmente da tutto ciò "Desperados Waiting for a Train", una cover di Guy Clark, ovvero una triste ballata basata sulla chitarra acustica suonata con lo slide e il piano.
"One Day Once" è quanto di più convenzionale vi sia nell'album (e il che dice tutto), "A Piece of Me" e "Winged Tuskadero" (con un tocco di marimba) sono validi pezzi rock incentrati sulla splendida voce di Galpin e sulla chitarra di Harkleroad, "Reign of Pain" è un ottimo miscuglio tra il Captain Beefheart di "Clear Spot" e i Gentle Giant "contemporanei" di "Free Hand" e "South of the Valley" riesce a conciliare molto bene un sound tranquillo basato su chitarre acustiche con una melodia tutt'altro che convenzionale.
Non mancano gli strumentali, come "Road to Morocco" con un'ottima linea di basso e una brillante prova di Tripp alle percussioni, l'acustica e quasi commovente "Yellow" e la conclusiva "Peon", cover di Captain Beefheart, meno bizzarra dell'originale, ma sempre efficace e di grande bellezza.
Al giorno d'oggi riscoprire gruppi come i Mallard è un vero piacere, e c'è un certo rimpianto sapendo che dopo l'album successivo (intitolato "In a Different Climate", inciso con un cambio di formazione che sostituiva a Arthur Tripp e a Rabbit Bundrick, George Draggotta e John Thomas rispettivamente) si sono sciolti, senza avere quella fama che sicuramente avrebbero meritato e che Ian Anderson avrebbe tanto sperato.
I due dischi dei Mallard sono stati ristampati in un unico CD a metà degli anni 90 e sono disponibili solo così.
Voto: 8
giovedì 13 maggio 2010
News: Nasce Kingem Records
Nasce Kingem Records, dalla passione musicale per la musica indipendente al desiderio di condividerla con appassionati non solo di nicchia.
Parigi, 10/05/2010 Il 4 Maggio 2010 è nata Kingem Records, una nuova etichetta musicale indipendente che si propone di raccogliere giovani artisti internazionali per coinvolgerli in interessanti progetti artistici e promuovere i loro nuovi progetti personali. Il progetto nasce da Marie-Agnès Hallé, già precedentemente coinvolta nelle attività di altre case discografiche e con alle spalle una seguitissima attività di DJ radiofonica e critica musicale, e Marco Zondini, conosciuto nell'ambiente come Mark Zonda, a capo della band Tiny Tide e a sua volta coinvolto nell'attività di giornalista musicale indipendente nel magazine online SleepWalKing Magazine e "Il Popolo del Blues", diretto da Ernesto De Pascale e Giulia Nuti.
Kingem Records ha subito marcato la sua presenza su internet con il sito www.kingemrecords.com e sugli immancabili canali social Twitter (twitter.com/kingemrecords) e Facebook (www.facebook.com/kingemrecords)
Tra gli artisti che la band sta promuovendo i francesi Blinding Signs, Doggy, Johnny Mary & Mark, Mark Monnone, Superflu, Tancarville, gli italiani Formanta e Tiny Tide, gli svedesi Friday Bridge e Stars in Coma e la promessa del cantautarato pop inglese The Brigadier, un piccolo Brian Wilson made in UK. Il primo progetto musicale raccoglie un'idea di Mark di rilanciare il fenomeno della Italo Disco fissando alcune regole estetiche che l'hanno contraddistinta per riproporla in un contesto più attuale per valutare come internet, file sharing e una tecnologia musicale avanzata a portata di tutti potrebbero avere influito su questo tipo di musica elettronica melodica e minimale. La prima uscita di Kingem Records verrà battezzata U.N.DISCO VOL.1, e presenterà artisti indipendenti conosciuti ed esordienti alle prese con nuovi brani inediti sulla falsa riga delle vecchie canzoni eurodisco. Tra gli artisti esterni all'etichetta la partecipazione di Charley Rivel degli svedesi SpeedMarket Avenue e gli americani Still Flyin'.
In attesa di nuove sorprese da parte di Mark e Marie vi invitiamo a visitare l'aggiornatisismo blog sulle pagine di www.kingemrecords.com
Parigi, 10/05/2010 Il 4 Maggio 2010 è nata Kingem Records, una nuova etichetta musicale indipendente che si propone di raccogliere giovani artisti internazionali per coinvolgerli in interessanti progetti artistici e promuovere i loro nuovi progetti personali. Il progetto nasce da Marie-Agnès Hallé, già precedentemente coinvolta nelle attività di altre case discografiche e con alle spalle una seguitissima attività di DJ radiofonica e critica musicale, e Marco Zondini, conosciuto nell'ambiente come Mark Zonda, a capo della band Tiny Tide e a sua volta coinvolto nell'attività di giornalista musicale indipendente nel magazine online SleepWalKing Magazine e "Il Popolo del Blues", diretto da Ernesto De Pascale e Giulia Nuti.
Kingem Records ha subito marcato la sua presenza su internet con il sito www.kingemrecords.com e sugli immancabili canali social Twitter (twitter.com/kingemrecords) e Facebook (www.facebook.com/kingemrecords)
Tra gli artisti che la band sta promuovendo i francesi Blinding Signs, Doggy, Johnny Mary & Mark, Mark Monnone, Superflu, Tancarville, gli italiani Formanta e Tiny Tide, gli svedesi Friday Bridge e Stars in Coma e la promessa del cantautarato pop inglese The Brigadier, un piccolo Brian Wilson made in UK. Il primo progetto musicale raccoglie un'idea di Mark di rilanciare il fenomeno della Italo Disco fissando alcune regole estetiche che l'hanno contraddistinta per riproporla in un contesto più attuale per valutare come internet, file sharing e una tecnologia musicale avanzata a portata di tutti potrebbero avere influito su questo tipo di musica elettronica melodica e minimale. La prima uscita di Kingem Records verrà battezzata U.N.DISCO VOL.1, e presenterà artisti indipendenti conosciuti ed esordienti alle prese con nuovi brani inediti sulla falsa riga delle vecchie canzoni eurodisco. Tra gli artisti esterni all'etichetta la partecipazione di Charley Rivel degli svedesi SpeedMarket Avenue e gli americani Still Flyin'.
In attesa di nuove sorprese da parte di Mark e Marie vi invitiamo a visitare l'aggiornatisismo blog sulle pagine di www.kingemrecords.com
mercoledì 12 maggio 2010
Speedy Peones - Karel Thole (Shyrec, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
Eccezziunale veramente.
Non so se Abatantuono aveva in mente gli Speedy Peones, la vedo dura, però questo è il modo migliore di introdurre questo disco. Frenetico, spassionato, ben composto, ben suonato nonostante l'anima cazzona. E tutto questo aiutato da una tecnica e una produzione sopra la media. All'inizio. Poi la verità. Vediamolo meglio.
Questa band padovana ha tirato fuori un bel "dischetto" per questo 2010. Una dozzina di brani tanto corti quanto incisivi, la voglia di spaccare, sfornando riff che sono quasi "provocazioni" e titoli talmente fuori di testa da risultare d'avanguardia. Si trovano tante influenze in un disco così, dal punk più classicheggiante che pulsa sopra qualche synth lo-fi in Die Neue Kindheit (con un'interruzione a metà che ti spara dritto nello spazio), al garage di Brand New Girl, passando inevitabilmente per il noise à-la-Jesus Lizard (ci avevano già provato Il Teatro degli Orrori) in Mafia, più qualche sano ritmo in levare per ballare un po' ai live, come insegnano Cinebrividus e la più "dritta" Système Solaire. E' un disco multiforme (e multilingue) e tutte le sue sfaccettature trovano la loro spiegazione in una furiosa smania di combinare vari ingredienti in una miscela dall'impeto quasi "hardcore". Pur sempre rock'n'roll.
Il disco scivola via veloce nonostante il numero di brani, essendoci infatti almeno un paio di episodi, vale a dire Voiture Tempo e A Bear, che durano meno di un minuto (il primo un'irascibile mistura di elettronica e "cattiveria" fine a sé stessa, il secondo una ballata dai sapori British-nostalgia), e tutta la sua rapidità si sente anche nei pezzi particolarmente uptempo come Grand Arab OK OK, che pecca però nella struttura che la fa sembrare troppo "istantanea", quasi precipitosa.
Il disco degli Speedy Peones è interessante perché ti mostra dei musicisti in erba alle prese con la composizione di un lavoro non banale e le sue buone dosi di pretenziosità, ma rischia anche di lasciare l'amaro in bocca. L'eccessiva eterogeneità di certe componenti, le canzoni che sembrano quasi senza né capo né coda, l'uso di linguaggi verbali e musicali lontani da quello che l'italiano medio vorrebbe sentire, sonorità a volte mischiate in maniera non troppo "ponderata". E il giudizio di un album dove c'è tutto quello che potrebbe piacere e tutto il suo contrario quale può essere? Sinceramente l'ho trovato un toccasana, per il panorama veneto e quello underground italiano, ma c'è bisogno di una spinta in più per raggiungere una dimensione più personale e meno "random".
Sforzo accettabile.
Voto: 7-
Tracklist
Eccezziunale veramente.
Non so se Abatantuono aveva in mente gli Speedy Peones, la vedo dura, però questo è il modo migliore di introdurre questo disco. Frenetico, spassionato, ben composto, ben suonato nonostante l'anima cazzona. E tutto questo aiutato da una tecnica e una produzione sopra la media. All'inizio. Poi la verità. Vediamolo meglio.
Questa band padovana ha tirato fuori un bel "dischetto" per questo 2010. Una dozzina di brani tanto corti quanto incisivi, la voglia di spaccare, sfornando riff che sono quasi "provocazioni" e titoli talmente fuori di testa da risultare d'avanguardia. Si trovano tante influenze in un disco così, dal punk più classicheggiante che pulsa sopra qualche synth lo-fi in Die Neue Kindheit (con un'interruzione a metà che ti spara dritto nello spazio), al garage di Brand New Girl, passando inevitabilmente per il noise à-la-Jesus Lizard (ci avevano già provato Il Teatro degli Orrori) in Mafia, più qualche sano ritmo in levare per ballare un po' ai live, come insegnano Cinebrividus e la più "dritta" Système Solaire. E' un disco multiforme (e multilingue) e tutte le sue sfaccettature trovano la loro spiegazione in una furiosa smania di combinare vari ingredienti in una miscela dall'impeto quasi "hardcore". Pur sempre rock'n'roll.
Il disco scivola via veloce nonostante il numero di brani, essendoci infatti almeno un paio di episodi, vale a dire Voiture Tempo e A Bear, che durano meno di un minuto (il primo un'irascibile mistura di elettronica e "cattiveria" fine a sé stessa, il secondo una ballata dai sapori British-nostalgia), e tutta la sua rapidità si sente anche nei pezzi particolarmente uptempo come Grand Arab OK OK, che pecca però nella struttura che la fa sembrare troppo "istantanea", quasi precipitosa.
Il disco degli Speedy Peones è interessante perché ti mostra dei musicisti in erba alle prese con la composizione di un lavoro non banale e le sue buone dosi di pretenziosità, ma rischia anche di lasciare l'amaro in bocca. L'eccessiva eterogeneità di certe componenti, le canzoni che sembrano quasi senza né capo né coda, l'uso di linguaggi verbali e musicali lontani da quello che l'italiano medio vorrebbe sentire, sonorità a volte mischiate in maniera non troppo "ponderata". E il giudizio di un album dove c'è tutto quello che potrebbe piacere e tutto il suo contrario quale può essere? Sinceramente l'ho trovato un toccasana, per il panorama veneto e quello underground italiano, ma c'è bisogno di una spinta in più per raggiungere una dimensione più personale e meno "random".
Sforzo accettabile.
Voto: 7-
martedì 11 maggio 2010
Il Teatro degli Orrori Live @ Festintenda 2010, Mortegliano (UD)
Cosa aspettarsi dall'ennesimo concerto del Teatro degli Orrori? Un Pierpaolo Capovilla scomposto, sclerato ed ubriacone, un Franz Valente che picchia come un forsennato, un Mirai in grande spolvero e la solita voglia di spaccare tutto condita con un pizzico di politica. In più i nuovi arrivi al basso e seconda chitarra.
Ma c'è sempre qualcosa di più. L'otto maggio a Mortegliano, sperduto comune della provincia di Udine, il Teatro degli Orrori, preceduti dai potenti Overunit Machine, hanno dato grande spettacolo per una folla numerosa (ma non troppo), con il loro solito piglio da furiosa band alternative ma dalle venature "hardcore", almeno nello spirito. Molti gli errori, soprattutto di batteria, e le imprecisioni di chitarra e voce (Pierpaolo se ne scusa personalmente), senza comunque alterare la resa ottima del concerto, potentissimo e molto vissuto dal pubblico, anche se nell'uguaglianza tra alcune canzoni si rischia di creare momenti di disattenzione per chi non mastica bene il linguaggio e i brani della band veneta.
In scaletta praticamente tutti i pezzi di tutti e due i dischi, con l'inclusione anche dell'inedito per ITunes Per Nessuno, uno dei brani di più facile presa in live, escludendo solo Die Zeit e Io Ti Aspetto dell'ultimo album, e Carrarmatorock!, Scende La Notte e Lezione di Musica dal primo, raggiungendo i 100 minuti circa di set. Ottima Due in apertura, molto potente anche se leggermente rallentata, si spera volutamente, Il Turbamento della Gelosia, incisive come sempre La Canzone di Tom, Compagna Teresa e A Sangue Freddo. La versione elettrica di Direzioni Diverse, singolo che sta spopolando ultimamente nelle chart di MTV Brand New, Rock TV e radio alternative varie, suona malissimo in concerto, troppo bassa la tonalità per la voce, troppo noiosi e ripetitivi gli arrangiamenti.
Il sound si sta lentamente raffinando nonostante nessun membro della band lavori particolarmente bene per definire il proprio, sporchissimo e poco curato per scelta, soprattutto per quanto riguarda le chitarre, abbastanza pulite durante gli stacchi melodici ma troppo ruvide durante i momenti più aggressivi, dove le melodie molto evidenti sugli album vengono completamente soffocate dal volume esagerato del distorto.
In ogni caso un concerto ad alto livello di intrattenimento, con un Pierpaolo che non riesce ad astenersi alle sue trovate da "profeta" con le consuete critiche all'Italia e i suoi politici, comportarsi in maniera più "ordinata" dopo la frattura del mignolo avvenuta al vicino concerto di Marghera di Febbraio 2010 (non si getta sul pubblico né al suolo, pur non risparmiandosi i tipici strattoni al cavo del microfono ormai troppo "distintivi" per essere evitati). Grande presenza scenica e ottimo sound. Per fan.
* foto di Paolo Proserpio
* video low-quality di Kaji80
lunedì 10 maggio 2010
Andrea Vercesi - Mad Fallen Leaf (SBM, 2009)
Andrea Vercesi, talentuoso musicista Pavese, si è creato una certa fama per aver interpretato, interamente da solo, brani (classici e non) dei Jethro Tull in due album ("Velvet Green" e "Songs from the Forum").
"Mad Fallen Leaf" esce dopo due anni dal suo ultimo lavoro solista, "Surrounded by Music", un disco quasi interamente acustico, che, nonostante sia brillantemente eseguito e ben prodotto, manca di luce propria, attingendo ancora un po' troppo dal lavoro dei Jethro Tull.
Questo "Mad Fallen Leaf" trionfa laddove "Surrounded by Music" ha fallito, poiché sebbene l'influenza Tullica si senta ancora (e non ci sarebbe nulla di strano visto che partecipano personaggi come Clive Bunker, Jonathan Noyce e Andrew Giddings), questa volta è mescolata ad originalità propria e ad altri sapori diversi dalla consuetudine dei Jethro Tull.
Un altro punto a favore è che mentre "Surrounded by Music" era interamente Vercesi solista, qui invece, si è fatto accompagnare da una vera e propria band di capacità estremamente valide, cosa che contribuisce a rendere maggiormente piacevole il lavoro.
Non a caso, i due brani che risultano minori rispetto al resto del disco, sono proprio quelli che risentono di più dell'influenza dei Jethro Tull, e sono la title-track (con i già citati Bunker, Noyce e Giddings, più al flauto traverso e al fagotto Franco Taulino, storico frontman della cover band dei Jethro Tull "Beggar's Farm", nella quale Vercesi ha militato) e la conclusiva "An Italian Love Song" che di Italiano ha ben poco (e infatti non è stata composta da Vercesi, ma in gran parte da Gary Pickford-Hopkins, cantante dei Wild Turkey).
Ma sono solo due episodi che non sbilanciano di troppo la media del disco, e perché parlare dei punti deboli quando ci sono molti altri motivi per apprezzare il disco?
Come ad esempio l'ipnotico opener "On The Top of The Hill", intriso di suoni acustici e intercci vocali ben studiati, "We are Starting to Sing This Tune" il cui titolo è azzeccatissomo (sarà difficile infatti una volta sentita togliersela dalla testa), il brillante strumentale "In The Forest", le soffuse e romantiche "This Is Us" e "Mary Doesn't Speak Much" e soprattutto la multiparte "It's Hunting Time... No More", il brano migliore del disco e la cosa che più si avvicina al prog, con una sezione ritmica basso-batteria davvero eccellente (e infatti al basso c'è Jonathan Noyce).
Insomma, è un lavoro non esente da difetti, che però è controbilanciato da molti pregi, una produzione cristallina, una capacità tecnica pressochè perfetta e una buona capacità compositiva di Vercesi, abile nel creare melodie semplici e orecchiabili senza renderle banali o eccessivamente zuccherose.
E se questo non vi ha convinto... beh, guardate sul retrocopertina gli ospiti!
Voto: 7/8
domenica 9 maggio 2010
Far - At Night We Live (Vagrant/ Arctic Rodeo Recordings, 2010)
Tracklist
I Far sono una band pressoché sconosciuta ma con un background di tutto rispetto. Traballanti, nell'opinione pubblica, tra etichette abbastanza "dubbie" come post-hardcore ed emo(punk), termini che, lo sappiamo, tendono ad essere riduttivi. Post-hardcore sicuramente è una "tag" adeguata per questa band, o perlomeno per i suoi esordi (ci sarà pur qualcuno che si ricorda l'ottimo Listening Game, del 1992, o il loro debutto su major Tin Cans With Strings To You, di quattro anni più giovane), perché con questo At Night We Live, pubblicato in Europa da Alive, abbandonano queste primordiali cornici per raggiungere sponde nuove, o meglio, diverse.
Abbastanza complesso da digerire per la sua natura quasi da "rompicapo", risulterà più facile da mandare giù agli aficionados di band come i Deftones (Deafening e When I Could See), quegli ultimi, più criptici, o i Jimmy Eat World, come Burns, brano molto energico ma contemporaneamente molto easy-listening, rispetto agli standard del disco. Effettivamente la vecchia definizione di emo non viene particolarmente incarnata da un album come questo, ma con brani così melodic punk si avvicina a questi lidi con singolare disattenzione. Impossibile sfuggire dai momenti quasi ambient e dai sincopati bui di Dear Enemy, dal pop-rock tipicamente americano (da dove provengono i Far infatti?) If You Cared Enough, dall'aggressione sonora che fa della parola coinvolgimento un vero e proprio inno in distorsione di Fight Song #16,233,241. E c'è addirittura un iniziale sentore di new wave in Better Surrender, riconvertita poi in un'esplosione di alternative senza fondo.
Un album come questo lascia per forza il segno. Prima di tutto per la lunga attesa (dodici anni), poi per l'intensità dei brani. Pop-punk, pop-rock, post-hardcore, alternative e rock melodico, tutti insieme per una potenza tipica di band molto più giovani di loro (tutti verso gli -anta, pur non dimostrandolo, come un Matranga, frontman, in grande forma), in un disco composto talmente bene da suonare fuori da ogni schema, buono per le radio e per la major (la Vagrant) con le sue richieste, pur senza suonare commerciale, banale o triviale. E poi ci sono la tecnica, i testi e la produzione, tutti sopra la media, e sopra le righe.
Incredibilmente figo.
Voto: 8
I Far sono una band pressoché sconosciuta ma con un background di tutto rispetto. Traballanti, nell'opinione pubblica, tra etichette abbastanza "dubbie" come post-hardcore ed emo(punk), termini che, lo sappiamo, tendono ad essere riduttivi. Post-hardcore sicuramente è una "tag" adeguata per questa band, o perlomeno per i suoi esordi (ci sarà pur qualcuno che si ricorda l'ottimo Listening Game, del 1992, o il loro debutto su major Tin Cans With Strings To You, di quattro anni più giovane), perché con questo At Night We Live, pubblicato in Europa da Alive, abbandonano queste primordiali cornici per raggiungere sponde nuove, o meglio, diverse.
Abbastanza complesso da digerire per la sua natura quasi da "rompicapo", risulterà più facile da mandare giù agli aficionados di band come i Deftones (Deafening e When I Could See), quegli ultimi, più criptici, o i Jimmy Eat World, come Burns, brano molto energico ma contemporaneamente molto easy-listening, rispetto agli standard del disco. Effettivamente la vecchia definizione di emo non viene particolarmente incarnata da un album come questo, ma con brani così melodic punk si avvicina a questi lidi con singolare disattenzione. Impossibile sfuggire dai momenti quasi ambient e dai sincopati bui di Dear Enemy, dal pop-rock tipicamente americano (da dove provengono i Far infatti?) If You Cared Enough, dall'aggressione sonora che fa della parola coinvolgimento un vero e proprio inno in distorsione di Fight Song #16,233,241. E c'è addirittura un iniziale sentore di new wave in Better Surrender, riconvertita poi in un'esplosione di alternative senza fondo.
Un album come questo lascia per forza il segno. Prima di tutto per la lunga attesa (dodici anni), poi per l'intensità dei brani. Pop-punk, pop-rock, post-hardcore, alternative e rock melodico, tutti insieme per una potenza tipica di band molto più giovani di loro (tutti verso gli -anta, pur non dimostrandolo, come un Matranga, frontman, in grande forma), in un disco composto talmente bene da suonare fuori da ogni schema, buono per le radio e per la major (la Vagrant) con le sue richieste, pur senza suonare commerciale, banale o triviale. E poi ci sono la tecnica, i testi e la produzione, tutti sopra la media, e sopra le righe.
Incredibilmente figo.
Voto: 8
sabato 8 maggio 2010
Quasi - American Gong (Kill Rock Stars/Domino, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
I Quasi sono un trio dell'Oregon, semisconosciuto fuori dalle soglie di Portland, che propone un indie rock banalotto ed ormai senza speranze. Questo dovrebbe far disperare una band, ma non scoraggia certo Coomes e soci, che avuto un contratto con la celebre Domino (Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Archie Bronson Outfit, ecc.), si sono fatti strada tra i nomi del settore in più di quindici anni di "quasi-scintillante" carriera, prendendosi comunque i meriti di una notevole voglia di fare.
Esaminando il contenuto del disco si può parlare di una leggera sottomissione ai cliché dell'indie e del pop/rock, con leggere flessioni rock'n'roll e quell'impeto grunge che sotto sotto pulsa in tutti gli americani post-Nirvana, e che fa fatica, in certi casi diremo per fortuna, ad emergere con tutta la sua prepotenza. Altrimenti ci sarebbero tutte copie dei Creed. Repulsion, primo brano del disco non da quel senso di rigetto che a volte si prova per il genere e che il titolo quasi rievoca, ma anzi spinge in alto le aspettative, essendo un onesto rockettino senza pro né contro. Little White Horse inizia con un sound quasi garage, o meglio post-punk, ma l'anima indie rimane prevalente, ed ecco che il pezzo poco dopo spara il suo noioso intermezzo rallentato tra arpeggi, inserti forzati di synth e cambi di tempo dei soliti. Per alzare un po' il tono del disco bisogna abbandonarsi a qualche spirito d'improvvisazione di stampo blues, dagli accenti fortemente ermetici, come in Everything & Nothing At All, canzone dalle forti inclinazioni malinconiche provenienti da quel panorama cantautorale quasi beat generation (di nuovo in The Sig Is Up, all'incirca una ballata acustica degli Oasis suonata dai Quasi), ma meglio ancora in Rockabilly Party. Alla fine dei conti Gallagher e amici vari non sono proprio distanti dal sound degli americani, e lo si sente in moltissimi episodi del disco, in particolar modo degli assoli e negli schemi compositivi, ripresi da quella tradizione post-beatlesiana che ha rotto i coglioni a chiunque.
Black Dogs & Bubbles è abbastanza catchy da salvare la pelle, con i suoi intermezzi da viaggione con cuffie a bomba in una notte che non puoi dormire, e pure Now What coi suoi fuzzettoni inutili ma inarrestabili. Poco di meglio per le ballate ricolme di piano come Laissez Les Bon Temps Rouler, tutto sommato riempitivi che si potevano evitare.
Il disco dei Quasi è di per sé un disco decente ma inutile, che si prende un minimo di dignità solo nel momento in cui si cerca di unire ai soliti schematismi indie qualche elemento diverso, un qualche passaggio nuovo, qualcosa di inaspettato. Questo, all'interno di American Gong, succede piuttosto raramente e risulta evidente che un disco così non potrà essere particolarmente apprezzato da chi questo genere non lo mastica. Per tutti gli affezionati della cosa, ma anche di chi questa pantomima la sa suonare molto meglio (Wire, Spoon, Pavement, ecc.), sicuramente un disco da mettere nella propria "collezione", per fare numero. Onesto tentativo di continuare una carriera senza mai trovare una vera fase crescente. Né calante. Una carriera che quindi, per una costanza che quasi nessuno ha mai avuto, merita la nostra riconoscenza.
Voto: 6-
Tracklist
I Quasi sono un trio dell'Oregon, semisconosciuto fuori dalle soglie di Portland, che propone un indie rock banalotto ed ormai senza speranze. Questo dovrebbe far disperare una band, ma non scoraggia certo Coomes e soci, che avuto un contratto con la celebre Domino (Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Archie Bronson Outfit, ecc.), si sono fatti strada tra i nomi del settore in più di quindici anni di "quasi-scintillante" carriera, prendendosi comunque i meriti di una notevole voglia di fare.
Esaminando il contenuto del disco si può parlare di una leggera sottomissione ai cliché dell'indie e del pop/rock, con leggere flessioni rock'n'roll e quell'impeto grunge che sotto sotto pulsa in tutti gli americani post-Nirvana, e che fa fatica, in certi casi diremo per fortuna, ad emergere con tutta la sua prepotenza. Altrimenti ci sarebbero tutte copie dei Creed. Repulsion, primo brano del disco non da quel senso di rigetto che a volte si prova per il genere e che il titolo quasi rievoca, ma anzi spinge in alto le aspettative, essendo un onesto rockettino senza pro né contro. Little White Horse inizia con un sound quasi garage, o meglio post-punk, ma l'anima indie rimane prevalente, ed ecco che il pezzo poco dopo spara il suo noioso intermezzo rallentato tra arpeggi, inserti forzati di synth e cambi di tempo dei soliti. Per alzare un po' il tono del disco bisogna abbandonarsi a qualche spirito d'improvvisazione di stampo blues, dagli accenti fortemente ermetici, come in Everything & Nothing At All, canzone dalle forti inclinazioni malinconiche provenienti da quel panorama cantautorale quasi beat generation (di nuovo in The Sig Is Up, all'incirca una ballata acustica degli Oasis suonata dai Quasi), ma meglio ancora in Rockabilly Party. Alla fine dei conti Gallagher e amici vari non sono proprio distanti dal sound degli americani, e lo si sente in moltissimi episodi del disco, in particolar modo degli assoli e negli schemi compositivi, ripresi da quella tradizione post-beatlesiana che ha rotto i coglioni a chiunque.
Black Dogs & Bubbles è abbastanza catchy da salvare la pelle, con i suoi intermezzi da viaggione con cuffie a bomba in una notte che non puoi dormire, e pure Now What coi suoi fuzzettoni inutili ma inarrestabili. Poco di meglio per le ballate ricolme di piano come Laissez Les Bon Temps Rouler, tutto sommato riempitivi che si potevano evitare.
Il disco dei Quasi è di per sé un disco decente ma inutile, che si prende un minimo di dignità solo nel momento in cui si cerca di unire ai soliti schematismi indie qualche elemento diverso, un qualche passaggio nuovo, qualcosa di inaspettato. Questo, all'interno di American Gong, succede piuttosto raramente e risulta evidente che un disco così non potrà essere particolarmente apprezzato da chi questo genere non lo mastica. Per tutti gli affezionati della cosa, ma anche di chi questa pantomima la sa suonare molto meglio (Wire, Spoon, Pavement, ecc.), sicuramente un disco da mettere nella propria "collezione", per fare numero. Onesto tentativo di continuare una carriera senza mai trovare una vera fase crescente. Né calante. Una carriera che quindi, per una costanza che quasi nessuno ha mai avuto, merita la nostra riconoscenza.
Voto: 6-
giovedì 6 maggio 2010
Gorillaz - Plastic Beach (Parlophone, 2010)
Tracklist
Tante critiche per nulla. Riassunto perfetto di cosa ha portato questo disco. I Gorillaz, o meglio Damon Albarn, non hanno/non ha smarrito la retta via. Il primo disco era fantastico, il secondo un po' meno, ma Plastic Beach rappresenta l'anima dei “cartoni animati musicali” più famosi di sempre come nessun altra release, loro o d'altri, poteva fare nel 2010. Un album pregno di ospiti che ne innalzano la pregevole qualità a qualcosa di più, anche se sono proprio le nomee esagerate di certe collaborazioni a soffocare l'estro dell'ex-Blur. Snoop Dogg e Lou Reed su tutti.
Tante critiche per nulla. Riassunto perfetto di cosa ha portato questo disco. I Gorillaz, o meglio Damon Albarn, non hanno/non ha smarrito la retta via. Il primo disco era fantastico, il secondo un po' meno, ma Plastic Beach rappresenta l'anima dei “cartoni animati musicali” più famosi di sempre come nessun altra release, loro o d'altri, poteva fare nel 2010. Un album pregno di ospiti che ne innalzano la pregevole qualità a qualcosa di più, anche se sono proprio le nomee esagerate di certe collaborazioni a soffocare l'estro dell'ex-Blur. Snoop Dogg e Lou Reed su tutti.
Cos'ha di così azzeccato “Plastic Beach”? Incarna al cento percento l'anima pop che dovrebbe possedere un disco così. Una volta ascoltato lo si può prendere e rimettere su in qualsiasi stagione, occasione o avvenimento. A una festa, in una giornata malinconica, in un dj set, a casa in momenti di cazzeggio. C'è di tutto, dall'hip-hop (White Flag, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, descrive perfettamente il tipo di inserimento hip-hop che veleggia su questa “spiaggia di plastica” anche grazie ad ospiti, di nuovo, di grande livello) agli pseudo spot pubblicitari lasciati affumicare sopra synth abbastanza semplici da non togliersi più dal cervello. Lo dice Stylo, primo singolo che si concretizza maggiormente guardando il grande videoclip con Bruce Willis, ma anche Superfast Jellyfish e il suo ritornello talmente catchy da non crederci, un po' come quel riff di tastiera lo-fi di Rhinestone Eyes. Ballate più lente come Empire Ants e On melancholy Hill allentano la tensione dimostrando anche la raffinatezza da compositore di Damon, già intravista in certi Blur e nei The Good, The Bad & The Queen, riecheggiati in qualche rumore “di classe” come quelli che affogano l'estivissima To Binge.
Il significato del disco si trova nella sua grande varietà, nella passionale svolta retrò, quasi vintage, ridefinita in ogni suo secondo da un certo gusto minimale, dove pochi strumenti tentano di riempire il più possibile la traccia senza sommergersi o contrastarsi mai l'uno con l'altro. Niente esagerazioni, niente arrangiamenti pomposi. Solo un Damon Albarn in grande spolvero, solito geniaccio. L'unica pecca è la velocità, un po' troppo lenta forse per sopportare sedici tracce tutte modestamente prolungate, ma assaporarne la qualità è solo una delle tante cose che si può fare per evitare di rimanerne delusi. Lunga vita ai Gorillaz.
Voto: 7.5