Oggi finisce il 2009. Penso non sia una cosa che imparerete da me, ma Dicembre ha trentuno giorni.
Un anno strano, in cui c'è stato molto e non c'è stato niente. Sarà che per colpa dei politici e delle televisioni da loro gestite hanno tutti paura del duemiladodici in arrivo, e gli allineamenti astronomici insieme a tutte quelle cagate ci fanno delirare producendo un inevitabile decremento della creatività e della nostra voglia di passare le giornate in maniera costruttiva. Dico io, se siete così catastrofisti dovreste pensare di divertirvi prima della fine no?
Fortunatamente, anche se c'è chi lo crede, c'è una cosa che non si ferma mai: la musica. Anche negli anni peggiori, quelli in cui magari Vasco Rossi rovina un capolavoro dei Radiohead, quelli in cui arrivi alla fine chiedendoti che album ci siano da ricordare e perché dopo 12 mesi non ne hai comprato neppure uno, comunque è uscito qualcosa che ha fatto la storia (o che magari la farà a posteriori), perché ogni mattoncino fa parte delle grandi scene che si modificano nel tempo, a volte lentamente a volte meno, ognuna con proprie peculiarità ed evoluzioni storiche.
Anche quest'anno la new wave anni '80, o meglio i Joy Division uniti al punk uniti all'elettronica uniti al brit pop uniti al grunge uniti all'alternative, hanno ingenerato milioni di dischi d'alta classifica. Dopo i debut album notevoli, due bellissimi terzi dischi da parte di Arctic Monkeys (Humbug) e Franz Ferdinand (Tonight: Franz Ferdinand). Anche il disco di debutto dei White Lies non suona male, e neppure quello solista di Julian Plenti degli Interpol, ma siamo distanti dai vecchi masterpieces come Turn On The Bright Lights.
Recentemente è uscito anche Only Revolutions dei Biffy Clyro, interessante, mentre tra singoli rilasciati a casaccio dai Radiohead e un live gratuito dei Coldplay, spuntano un bellissimo live con scaletta di rarità dei R.E.M. e l'interessante nuovo disco dei Muse (The Resistance).
I migliori dischi vengono da panorami diversi, il metal sempre più d'avanguardia dei Mastodon (Crack the Skye), secondo chi vi parla il miglior disco dell'anno, Tarot Sport dei Fuck Buttons (vero e proprio miracolo d'elettronica, non da chart si intende), il potentissimo ma meno grezzo degli esordi Axe To Fall dei Converge e Geneva dei Russian Circles, per gli appassionati di post-generi vari (deludente invece il nuovo degli Isis, sebbene contenga buoni spunti soprattutto per la collaborazione coi Tool).
In Italia ci sono state tante belle release, anche se nessuno ha proposto novità particolari. Sicuramente dall'underground provengono scossoni importanti, con Sottoterra dei Serpenti, per l'elettronica; ma molto di più hanno voluto dare al panorama italiano i Devocka, con il bellissimo Perché Sorridere?. La band ferrarese, sotto Nagual Records, ha dato alle stampe un album veramente stupendo, che fa capire come possedere una buona cultura musicale degli anni '90 non significa semplicemente copiare (è per questo che molti accusano i Verdena del resto no?). Bellissimo anche Collateral dei torinesi Armstrong?, da ascoltare se vi piacciono l'alternative e il post-rock, di cui è un'originale ed inaspettata fusione. Sconvolgente, in senso ASSOLUTAMENTE positivo, Floppy Disk di Barbagallo, artista siciliano. Un disco da centellinare nota per nota, veramente ASSURDO. Sono usciti poi i nuovi di Ministri (Tempi Bui), Il Teatro degli Orrori (A Sangue Freddo), Meganoidi, Velvet, Valentina Dorme, Diaframma e Zen Circus (Andate Tutti Affanculo), di cui il migliore è di sicuro quest'ultimo, tutti comunque bellissimi dischi che consigliamo di ascoltare. E se vi piace la new wave, ascoltatevi pure il nuovo dei Frigidaire Tango, L'Illusione del Volo.
Anche la cantautorale italiana dopo lo scossone del 2008 con Le Luci della Centrale Elettrica, ha vissuto una buona annata, complici Simona Gretchen e Brunori SAS, due ottimi artisti giovani che comunque sono già conosciuti già da tempo per altre esperienze (Dario Brunori in particolari per i suoi trascorsi nei Blume). Imperdibile Carousel degli Annie Hall, e piacevole Il Nostro Cuore a Pezzi dei Melt, da Vicenza con furore.
Poi c'è anche chi propone del buon rock vecchio stampo, come gli Wilco e il loro self-titled, i Grizzly Bear e il loro fantastico Veckatimest, e il bellissimo Hombre Lobo degli Eels.
Live e riedizioni riservano qualche sorpresa. Gattini, una specie di greatest hits degli Elio e Le Storie Tese con orchestrazioni varie; il live acustico dei Marlene Kuntz (intitolato ironicamente Cercavamo il Silenzio), il live dei Kings of Leon, e perchè no anche il Greatest Hits dei Foo Fighters con due bellissimi inediti (Wheels e Word Forward).
Altre segnalazioni il debut album di Florence and the Machine (Lungs), Judy Sucks a Lemon For Breakfast (Cornershop), No Baggage di Dolores O' Riordan (ex Cranberries) e l'ennesimo bel disco dei Dinosaur Jr. (Farm). Se poi non vi basta c'è anche la ristampa di Bleach dei Nirvana, insieme al DVD Live at Reading, un regalo notevole ai fan da parte di chi non ha nessun interesse nei fan (Courtney Love e i discografici). Inutili gli ennesimi DVD di Iron Maiden (il quasi-documentario Flight 666) e Metallica (un live solo per francesi dal titolo Français Pour Une Nuit).
Infine, della serie, ai fan delle band basta poco per apprezzare un nuovo disco, i nuovi di Placebo, Pearl Jam, Paramore, Green Day ed Editors si assestano come dischi sicuramente sopra la media, ma senza particolari novità.
Facendo una classifica di quelle che fa figo fare, la mia personale top ten sarebbe la seguente:
1. MASTODON - CRACK THE SKYE
2. FUCK BUTTONS - TAROT SPORT
3. ARMSTRONG? - COLLATERAL
4. ZEN CIRCUS - ANDATE TUTTI AFFANCULO
5. DEVOCKA - PERCHE' SORRIDERE?
6. CONVERGE - AXE TO FALL
7. GRIZZLY BEAR - VECKATIMEST
8. FRANZ FERDINAND - TONIGHT: FRANZ FERDINAND
9. WILCO - WILCO (THE ALBUM)
10. RUSSIAN CIRCLES - GENEVA
Un monito per i lettori. E' chiaro che quello che c'è scritto a molti di voi non andrà a genio. In un commento ad una delle mie recensioni, il collega Jacopo Muneratti ha scritto "noi siamo recensori, e i recensori non sono mai simpatici." Parole sacrosante. E' logico che non ho ascoltato OGNI disco uscito, ed è logico che non ho gli stessi gusti di tutti voi che potete, potenzialmente, scrivere. Per cui se volete aggiungere qualcosa o dare la vostra opinione fatelo con correttezza (l'importante è non dirmi che mancano Cinema Bizarre o Tokio Hotel, questi commenti saranno seguiti da particolari espressioni di scherno e risa, come meritano). Se poi non vi va bene, lo sapete, basta leggere altre webzine, sicuramente fatte meglio e scritte da persone diverse. Ma il mio nome, se vi piacciono di più Indie for Bunnies, DelRock o Impatto Sonoro lo troverete anche là.
Della serie, non mi sfuggirete mai.
giovedì 31 dicembre 2009
lunedì 28 dicembre 2009
The Hives - Tyrannosaurus Hives (Interscope, 2004)
Cultura post-punk, ne hanno fatto libri, documentari, gadget. Ma non ha senso se non conosci i gruppi più rappresentativi di questa etichetta. Non che sia la definizione più adatta per questi The Hives, perché le radici affondate nel punk si sentono almeno quanto gli spunti “alternative”, sperando che per qualcuno questa parola significhi ancora qualcosa.
“Tyrannosaurus Hives” è il terzo disco, dopo due parti ben riusciti (in verità dalla troppo lunga gestazione, forse), ma più che un semplice ulteriore album è la con ferma discografica di una carriera in crescita. Ancora più ballabili i brani contenuti in questo “tirannosauro”, da gustare perlopiù in versione live. E' fin dal primo ascolto che si capisce che difficilmente lo toglieremo dallo stereo, e chi scrive questa recensione non per niente è già al decimo ascolto in due giorni. E' il rock'n'roll più puro, fuso con il punk rock più moderno e qualche sprazzo di quella “indie” da classifica, che produce tramite le mani e le menti della band svedese tormentoni al limite del radiofonico come il singolo Two Timing Touch and Broken Bones, la superballabile B Is For Brutus e No Pun Intended, forse la migliore delle dodici tracce (quattordici comprese le bonus track della versione inglese). C'è spazio per qualche salto nel passato, come in Walk Idiot Walk, con un sound quasi vintage, e la versione aggiornata degli Stones più rock (in senso moderno) appare infatti anche in altri pezzi, in particolare Antidote, per contaminarsi anche di Sex Pistols in Missing Link.
“Tyrannosaurus Hives” è il terzo disco, dopo due parti ben riusciti (in verità dalla troppo lunga gestazione, forse), ma più che un semplice ulteriore album è la con ferma discografica di una carriera in crescita. Ancora più ballabili i brani contenuti in questo “tirannosauro”, da gustare perlopiù in versione live. E' fin dal primo ascolto che si capisce che difficilmente lo toglieremo dallo stereo, e chi scrive questa recensione non per niente è già al decimo ascolto in due giorni. E' il rock'n'roll più puro, fuso con il punk rock più moderno e qualche sprazzo di quella “indie” da classifica, che produce tramite le mani e le menti della band svedese tormentoni al limite del radiofonico come il singolo Two Timing Touch and Broken Bones, la superballabile B Is For Brutus e No Pun Intended, forse la migliore delle dodici tracce (quattordici comprese le bonus track della versione inglese). C'è spazio per qualche salto nel passato, come in Walk Idiot Walk, con un sound quasi vintage, e la versione aggiornata degli Stones più rock (in senso moderno) appare infatti anche in altri pezzi, in particolare Antidote, per contaminarsi anche di Sex Pistols in Missing Link.
Ci si possono trovare milioni di influenze in un disco così, ma l'importante è che ogni pezzo brilla di luce propria, per usare un'espressione poco consona, nel senso che ogni canzone di questo “Tyrannosaurus Hives” sa colpire a suo modo, con la sua modesta durata (non si arriva mai ai quattro minuti) ed una carica veramente degna di nota, dall'animo prettamente punk ma in un senso più esteso, perché chiamare un pezzo in questo modo a volte significa anche sminuirne l'intensità e, soprattutto, l'originalità. Togliamo ogni etichette ai The Hives e avremo comunque uno dei dischi più potenti del decennio, senza cercare distorti atroci e cavalcate di doppio pedale, ma qualche power chord e urli da stadio per completare un disco godibile in ogni senso. Non perdetevelo.
Voto: 8+
domenica 27 dicembre 2009
Fish and Clips #2
Salve a tutti.
All'interno della rubrica Fish and Clips, inaugurata da poco (ed infatti solo al secondo numero), potete trovare, come dicevo, informazioni, dissertazioni, notizie, insomma tutto quello che riguarda il mondo dei videoclip. Non chiedetemi di che tipo, perché è logico che su un blog musicale si parli di videoclip musicali. No? Ma giustamente siamo in un paese come l'Italia per cui dare per scontato che lo sappiate è un po' difficile. I videoclip sono quelle cose che vengono trasmesse dalle TV con un sottofondo musicale e delle immagini che accompagnano le note. Una definizione più sintetica non mi era possibile.
In questo numero, e penso lo farò ogni volta anche quando il post verterà su altri argomenti, elencherò 10 video che secondo me dovete vedere. Possono essere belli perchè sono realizzati in maniere non convenzionali, perché strani, perché simpatici, perché semplicemente interessanti da guardare. Il motivo principale è che sono piaciuti a me, ma questo non significa che siano belli o brutti a prescindere, per cui qualsiasi opinione abbiate del sottoscritto, beh, leggeteli.
#1 OWL CITY - Fireflies
#2 THE CURE - The End of the World
#3 MARTA SUI TUBI - Cinestetica
#4 COLDPLAY - Strawberry Swing
#5 ROYKSOPP - Remind Me
#6 FATBOY SLIM - Gangster Trippin'
#7 NICKELBACK - Savin' Me
#8 BENTLEY RHYTHM ACE - Theme From Gutbusters
All'interno della rubrica Fish and Clips, inaugurata da poco (ed infatti solo al secondo numero), potete trovare, come dicevo, informazioni, dissertazioni, notizie, insomma tutto quello che riguarda il mondo dei videoclip. Non chiedetemi di che tipo, perché è logico che su un blog musicale si parli di videoclip musicali. No? Ma giustamente siamo in un paese come l'Italia per cui dare per scontato che lo sappiate è un po' difficile. I videoclip sono quelle cose che vengono trasmesse dalle TV con un sottofondo musicale e delle immagini che accompagnano le note. Una definizione più sintetica non mi era possibile.
In questo numero, e penso lo farò ogni volta anche quando il post verterà su altri argomenti, elencherò 10 video che secondo me dovete vedere. Possono essere belli perchè sono realizzati in maniere non convenzionali, perché strani, perché simpatici, perché semplicemente interessanti da guardare. Il motivo principale è che sono piaciuti a me, ma questo non significa che siano belli o brutti a prescindere, per cui qualsiasi opinione abbiate del sottoscritto, beh, leggeteli.
#1 OWL CITY - Fireflies
#2 THE CURE - The End of the World
#3 MARTA SUI TUBI - Cinestetica
#4 COLDPLAY - Strawberry Swing
#5 ROYKSOPP - Remind Me
#6 FATBOY SLIM - Gangster Trippin'
#7 NICKELBACK - Savin' Me
#8 BENTLEY RHYTHM ACE - Theme From Gutbusters
#9 MODENA CITY RAMBLERS - Altri Mondi
#10 VERDENA - Phantastica
sabato 26 dicembre 2009
30 Seconds to Mars - This Is War (Virgin/EMI, 2009)
“This is War”. Sia mai chiamare un disco con un nome che richiami lo scopo per cui è stato fatto. In questo caso sarebbe “sappiamo suonare ma vogliamo per forza sentire le bimbeminchia che ci dicono che siamo fighi per cui facciamo qualche canzone di merda”. La volgarità dev'essere consentita.
Jared Leto tende ad osare troppo. Come quando fa delle performance vocalmente esagerate su disco per poi fare dei live quasi-disastrosi. Alcune volte. Ma l'importante è dare a Cesare quel che è di Cesare per cui esaminiamo il disco dettagliatamente. L'introduzione Escape lascia presupporre un esplosione che puntualmetne arriva in Night of the Hunter, canzone dalla costruzione piuttosto banale (come il resto del disco) ma essenzialmente abbastanza radio-friendly da piacere a (quasi)tutti. Passabile. Closer To The Edge e la title-track This Is War sono praticamente identiche come struttura, e mettono in evidenza uno schema compositivo molto debole, ma funzionale al tipo di target che la band si è data. Alla fine i fasti del primo disco si sono già spenti nel secondo, anche se a livello di produzione continuano a migliorare. E di molto. Si sperimenta un attimo in Search And Destroy e la quasi depechemodiana (per le basi) Stranger in a Strange Land (smetteranno mai di fare canzoni che si chiamano così?), di matrice prettamente elettronica-pop, e con la lunghezza dei brani, che però non corrisponde come sarebbe logico supporre a sviluppi più complesso (la banale ma molto bella Alibi ne è l'esempio più lampante). Il primo singolo estratto Kings and Queens è forse anche il brano più interessante di questo This is War, con un ritornello molto orecchiabile, e l'espressione massima della bravura di Jared Leto. Anche il batterista dà il meglio di sé in questo disco, con alcune parti non proprio semplici nonostante il suo stile sia tendenzialmente molto lineare. Bocciata Hurricane (e poteva essere altrimenti un featuring con Kanye West?), che non prende per niente e risulta forse uno dei peggiori brani mai scritti da questa band. Buono il tentativo di concludere in maniera più “sperimentale” il tutto, con la strumentale L490 a dare quell'effetto di stupore giusto per terminare un lavoro altalenante sia in quanto ad originalità che a qualità della musica.
Il disco di per sé soddisfa appieno le aspettative. Commerciale al punto giusto, radiofonico perché si deve (è questa la politica della band), rock per chi di rock se ne intende poco. Del resto se passano su MTV un motivo (oltre ai soldi che paga l'etichetta) ci sarà. L'importante è non ascoltarli “perché sono fighi” e qualche canzone bella ce la trovate pure. Ascoltabile.
Voto: 6.5
venerdì 25 dicembre 2009
Heike Has The Giggles - Sh! (Bronson/Estragon Booking/Polka Dots, 2010)
Sh! è un disco semplice, divertente, e a suo modo originale. Perlomeno paragonandolo al resto della scena italiana.
Be Your Own Pet meet Franz Ferdinand meet Arctic Monkeys dei primi due dischi meet la voglia di suonare che guardando quanti concerti fanno questi ragazzi non gli si può proprio non riconoscere. E con una produzione notevole. Da Ravenna, speriamo che nel 2010 arrivino da qualche parte più in alto. Sempre se lo desiderano. In ogni caso il disco resta apprezzabilissimo.
Voto: 7.5
giovedì 24 dicembre 2009
Lostprophets - Start Something (Visible Noise/Columbia, 2004)
Tutti si sono stancati da tempo di sentir parlare di nu metal. Vuoi perché da quando esiste tutte le band emergenti vogliono far parte di questa “nuova” generazione musicale di chitarre scordate in re e gente che rappa sopra distorsioni agghindate con qualche scratch, vuoi perché tutti i gruppi più famosi che si sono definiti tali dopo un paio d'album hanno fatto una brutta fine, il “nu metal” è forse il genere più interessante nato dal marasma di rabbia e tristezza che ha condizionato tutta la musica degli anni '90. E' infatti grazie anche alla mescolanza con il post-punk, con l'emocore, con il grunge (e il relativo post-) che sentiamo oggi generi come il metalcore, lo screamo, e anche quei gruppi più pop come i Linkin Park, osannati da tanti.
I Lostprophets hanno proposto in passato già un bellissimo disco, The Fake Sound of Progress, molto più propriamente nu metal di questo nuovo “Start Something”. Abbeveratisi probabilmente di band come i Silverstein o le nascenti stelle del panorama emo, propongono un disco semplice, senza pretese, ma con un tiro fenomenale, contenente alcuni dei brani più belli della loro carriera e pochissimi motivi per cui storcere il naso. Last Train Home e Goodbye Tonight fanno ben intendere la svolta più melodica intrapresa dai gallesi, con un tipo di melodia vocale che ben si coniuga con la definizione già data sopra, di emocore. Le urla del primo disco tornano in To Hell We Ride e nella title-track, dimostrazioni perfette di nu metal applicato alla musica da classifica, assunto ancora più evidente in Make A Move, in cui il frontman Ian Watkins fa il verso al Chester Bennington dei bei tempi. Ci sono anche brani che non funzionano benissimo come A Million Miles e We Are Godzilla, You Are Japan, ma nel complesso, messi in fila con le altre undici tracce hanno il loro perché. L'album alla fine brilla non per la sua originalità o per qualche caratteristica che renda questi Lostprophets particolari, diversi dagli altri, ma perché sembra un disco suonato con l'anima, da chi questo genere lo fa perché ci crede (al contrario dello stuolo di imitatori di Korn, Limp Bizkit, ecc. che ha distrutto, a conti fatti, tutta la generazione nu metal ormai alla frutta). Tutti i brani assumono così una velatura di interesse che spiazza, dalla potentissima We Still Kill the Old Way in apertura (il cui titolo un po' lascia presagire quella volontà di cambiare sopracitata) e la melodica, quasi strappalacrime, I Don't Know in conclusione.
I Lostprophets hanno proposto in passato già un bellissimo disco, The Fake Sound of Progress, molto più propriamente nu metal di questo nuovo “Start Something”. Abbeveratisi probabilmente di band come i Silverstein o le nascenti stelle del panorama emo, propongono un disco semplice, senza pretese, ma con un tiro fenomenale, contenente alcuni dei brani più belli della loro carriera e pochissimi motivi per cui storcere il naso. Last Train Home e Goodbye Tonight fanno ben intendere la svolta più melodica intrapresa dai gallesi, con un tipo di melodia vocale che ben si coniuga con la definizione già data sopra, di emocore. Le urla del primo disco tornano in To Hell We Ride e nella title-track, dimostrazioni perfette di nu metal applicato alla musica da classifica, assunto ancora più evidente in Make A Move, in cui il frontman Ian Watkins fa il verso al Chester Bennington dei bei tempi. Ci sono anche brani che non funzionano benissimo come A Million Miles e We Are Godzilla, You Are Japan, ma nel complesso, messi in fila con le altre undici tracce hanno il loro perché. L'album alla fine brilla non per la sua originalità o per qualche caratteristica che renda questi Lostprophets particolari, diversi dagli altri, ma perché sembra un disco suonato con l'anima, da chi questo genere lo fa perché ci crede (al contrario dello stuolo di imitatori di Korn, Limp Bizkit, ecc. che ha distrutto, a conti fatti, tutta la generazione nu metal ormai alla frutta). Tutti i brani assumono così una velatura di interesse che spiazza, dalla potentissima We Still Kill the Old Way in apertura (il cui titolo un po' lascia presagire quella volontà di cambiare sopracitata) e la melodica, quasi strappalacrime, I Don't Know in conclusione.
Ascoltatevi questo Start Something perché anche se non presenta nessuna novità, vi sa far sentire meglio di qualunque altro disco come proprio mentre il nu metal sta morendo ci sia ancora chi sa suonarlo, utilizzando mezzi non propri per innovarlo e non lasciarlo svanire. Loro si, hanno capito come fare.
Voto: 8
martedì 22 dicembre 2009
Il Teatro degli Orrori Live @ Unwound Club, Padova, 18 Dicembre 2009
Mentre fuori si rischia una bufera di neve, dentro dai primi istanti si capisce che il live del Teatro degli Orrori, che giocano quasi in casa da buoni veneti, sarà caldo e movimentato. Il pogo non è mancato, anche se ridotto a pochi caparbi, ma l'Unwound era comunque quasi pieno, sebbene sia necessario che ammettere che questo locale non può contenere certo migliaia di persone.
Il frontman più bizzarro d'Italia, Pierpaolo Capovilla, insieme ai suoi soci arriva a scaldare l'atmosfera quasi un ora e mezza dopo l'orario di apertura, mentre la gente è più che altro preoccupata a pensare alla possibile nevicata che imbiancherà i cristalli delle auto e i tetti anestetizzando non solo il traffico ma anche la voglia di andare a questi concerti. In ogni caso questa specie di “compagnia teatrale”, come a volte si definiscono, sa come intrattenere e il pubblico è presto coinvolto. Così la potenza di Franz alla batteria, le mitragliate del produttore Favero al basso e la pazzia quasi schizofrenica del cantante, ex One Dimensional Man, a volte pacato e riflessivo, a volte veramente al limite degli scleri, sortiscono presto un forte effetto sveglia. Tre o quattro volte si getta (letteralmente) sul pubblico, altrettante si dimostra così distrutto dall'alcol da crollare al suolo, o quasi, nonostante sovvenga qualche dubbio su questa “immagine” forse più apparenza che realtà. In ogni caso il concerto, durato cento minuti esatti, è stato potente, con pochi errori anche se il genere sicuramente non si può definire facile da suonare. La band sta acquisendo un modo di tenere il palco sempre più personale e caratteristico, e lo si percepisce particolarmente se non si è al primo concerto dei TDO.
Nella setlist non mancano alcuni singoli dal primo disco, Compagna Teresa e La Canzone di Tom (penultima in scaletta), mentre si soffre la mancanza di una delle migliori di quel disco, "Carrarmatorock!". Si passa per molte belle canzoni del disco di debutto, come Vita Mia, E Lei Venne! e Il Turbamento della Gelosia, eseguite in maniera davvero esplosiva. Ovviamente i brani suonati provengono quasi tutti dall'ultimo disco, “A Sangue Freddo”, del quale risalta una bellissima versione della conclusiva (sia nell'album che nel concerto) Die Zeit, con Capovilla al basso come ai bei tempi, la traccia di apertura Direzioni Diverse, riarrangiata in una maniera ancora diversa rispetto al remix dei Bloody Beetroots (sempre con sintetizzatori e basi registrate a riempire il suono), e la title-track, che si conclude con un “cortese vaffanculo” di Pierpaolo a chi si rifiuta di applaudire il poeta Ken Saro-Wiwa, a cui il pezzo è dedicato. Stupende anche La Vita è Breve e la straziante E' Colpa Mia, introdotta da un discorso riguardante la stupidità degli italiani che secondo Capovilla è il “fallimento della sua generazione” (riferimento chiaro al governo Berlusconi e ai suoi elettori).
Una sola cosa c'è da dire alla fine di un concerto come questo. La band sta tutt'ora crescendo, come se ce ne fosse bisogno, e i detrattori che continuano a sparargli contro per presunte scopiazzature e comportamenti non proprio simpatici della band qualche volta potrebbero chiudere la bocca e godersi una delle band attualmente più in voga (e a ragione) in questo paese allo sbando sotto qualsiasi punto di vista, ma nettamente in ripresa in quello musicale (nonostante gli artisti siano dei “parassiti” secondo il nostro Ministro per la Pubblica Amministrazione). Concedeteci almeno questo.
Video di Panf75
Video di Panf75
sabato 19 dicembre 2009
The Fire - Abracadabra (Valery Records, 2009)
La band capitanata dall'ex Shandon Olly arriva con questo Abracadabra ad un traguardo importantissimo, quello del secondo disco, che a seconda della situazione è la rovina, la conferma, lo spartiacque con l'inizio di un nuovo genere. In questo caso si tratta della prosecuzione logica del primo “Loverdrive”, con i soliti giretti da hard rock da classifica che in America spopolano nelle classifiche di Kerrang e MTV2. Ma il soffio “alternative” che il passato dei The Fire conferisce a questi brani in realtà li risolleva dalla banalità di una definizione. Per questo c'è bisogno di ascoltare il disco per bene prima di giudicare.
In effetti soffermandosi ai primi due pezzi, cioè la title-track e Wasted, ci sembrerà di ascoltare “la solita cosa”, anche se sono comunque due canzoni molto orecchiabili e composte con riff di sicura presa. In particolare però la seconda che ho citato sembra un plagio di “She Hates Me” dei Puddle of Mudd, ma come dicono in molti “le note sono sette” quindi non è il caso di accusarli come si è fatto con i Coldplay o Jovanotti (i due casi più eclatanti degli ultimi anni). Le più belle nel grande marasma di canzoni che si assomigliano risultano Bohemian Burlesque (ottimi ritornello e linee vocali) e Yvonne, molto vicine a quel tipo di sound americano che già si citava sopra. Augurare per loro una carriera nel paese dello zio Sam spesso risulterebbe un comportamento contrario al nostro patriottismo, ma non per il sottoscritto. In Italia non hanno abbastanza pubblico. Nota di merito in questo senso meritano anche Lady Motorcycle e Walk, con dei riff che si marchiano a fuoco nel settore della memoria del nostro cervello quasi a volerci “violentare”.
Sorprese sono una cover di New York New York, di Frank Sinatra ovviamente, rifatta in uno stile più confacente alla band, e la ballad con pianoforte (una novità), Seet Enemy, veramente molto malinconica e che risulta particolarmente triste grazie ad una magnifica interpretazione del cantante Olly. Abbastanza inutili invece Emily e Small Town Boy dal precedente disco, anche se comunque si tratta di due tra i più bei pezzi scritti dai The Fire. Premio banalità a Chevalier, che non convince appieno.
Sorprese sono una cover di New York New York, di Frank Sinatra ovviamente, rifatta in uno stile più confacente alla band, e la ballad con pianoforte (una novità), Seet Enemy, veramente molto malinconica e che risulta particolarmente triste grazie ad una magnifica interpretazione del cantante Olly. Abbastanza inutili invece Emily e Small Town Boy dal precedente disco, anche se comunque si tratta di due tra i più bei pezzi scritti dai The Fire. Premio banalità a Chevalier, che non convince appieno.
Per dare un giudizio su questo disco non serve ascoltarlo tante volte. Si tratta infatti di uno di quei lavori che piace ai fan della band e risulta ascoltabile quasi a tutti coloro che abbiano almeno un po' di familiarità col genere, risultando però indigesto a chi cerca un po' di complessità nella musica. Non è il nostro caso. I The Fire sono un'ottima realtà del nostro paese che ormai punta all'estero, giustamente, per portare qualche bel riff in lingua inglese fuori dallo Stivale. Rimanendo sempre Made in Italy, un po' come i Lacuna Coil. Bel disco da chi non pretende molto per chi non pretende niente.
Voto: 7
venerdì 18 dicembre 2009
Annie Hall - Carousel (Pippola, 2009)
Da Brescia con un disco fantastico. Gli Annie Hall, cinque ragazzi giunti già al secondo full-length per Pippola Music, hanno molto da dire e lo dimostrano con un disco per nulla superficiale, complesso pur sé basato su linee piuttosto melodiche ed orecchiabili, dai lineamenti rock nonostante si tratti di una commistione, piuttosto omogenea, di pop e folk (come essi stesso ammettono). Scivola via veloce al primo ascolto, ma abbisogna di almeno tre o quattro ripetizioni prima di svelare tutte le sue sfaccettature. Si prende a piene mani da Beatles, i The Byrds e Bob Dylan, ma non si osi parlare di copiatura. La carta carbone non è lo strumento ideale degli Annie Hall che anzi rielaborano tutta la scena del rock classico con una serietà ed un'originalità che poche volte si è vista negli ultimi anni (in questo simili agli Wilco, dai quali li separa, a tratti, solo la provenienza geografica). In tutti i pezzi, dal primo “Rainy Day”, all'ultimo breve “Grandmother's Smile”, svolazzano arpeggi semplici ma non semplicistici, linee vocali cupe alternate ad altre più spensierate, con un comparto ritmico di alto livello. E' così che in “Paralyzed” ci si avvicina ai toni british delle band più recenti (l'ultimo degli Arctic Monkeys o di Peter Doherty ad esempio, anche se gli italiani sono molto meno “radio-friendly”, se possibile), come in “Do You Wanna Dance With Me?”, altra saggia pop-ballad che unisce benissimo i condizionamenti degli ascolti della band con la loro personale vena creativa in sé molto malinconica (e lo si percepisce ancora più nitidamente nella successiva, in tracklist si intende, “Here Is Love”, molto neilyoungiana). Le saltellate ballad sostenute dal piano, in pura tradizione à-la-Beach Boys, sempre sapientemente rielaborata à-la-Annie Hall (e qui ricordano un po' i recenti The Coral o i Fool's Garden), come “Jelly's Dream” o “Violet”, continuano la sequenza di calmo relax che infonde ascoltare alcuni tratti di questo disco, quasi simile a certa musica da camera. E questo, lo sottolineo, è un bene.
Strumentalmente ottimi, così come è ottima la produzione, questi ragazzi hanno veramente tanto da dire, ed un disco come “Carousel” lo dimostra appieno. Le ballate più distese, staccate l'una dall'altra dalla vena triste ed affliggente della maggior parte dei brani, sono costruite con un interesse particolare per tutti i dettagli più minuti, come tutto il disco; nota per nota è uno stillicidio di emozionante musica composta in maniera eccelsa, utilizzando un linguaggio proprio seppur fatto di un sistema di simboli che già è conosciuto a chi seguiva il panorama anni '60 e '70, non solo in Inghilterra.
Ascoltate e supportate gli Annie Hall perché meritano veramente, e in un panorama veramente stagnante come quello italiano questi dischi sono sintomo di uno status di ripresa notevole. Vera perla di fine 2009.
Voto: 9+
mercoledì 16 dicembre 2009
Fish and Clips #1
Apro con questo nuova rubrica (termine che odio) un appuntamento che vedrete anche altre volte in futuro, con scadenza non fissa, su Good Times Bad Times. Il vostro blog preferito, chiaramente. L'argomento non si evince tanto facilmente da un nome così "nonsense" però sapete come sono fatto no?
Nel primo numero vi consiglio giusto due videoclip da vedere senza tanti commenti, ma nel tempo pubblicherò notizie ed analisi personali sul mondo dei videoclip, che tanto rende (oltre alla pubblicità, si intende) a MTV et similia. La rubrica tende ad essere molto libera, e non ha schemi precisi per cui potreste trovare un giorno segnalazioni di bei video di vedere, un altro giorno una guida su come realizzare un videoclip ed un altro una tirata di 20 pagine di critiche sul modo della TV musicale. L'importante sono i videoclip. L'avevate capito.
Prima di consigliarvi un paio di video presi a random tra i "bei" (soggettivamente) video del biennio 2008/2009, sottolineo che chiunque volesse contribuire alla rubrica consigliando qualche video di cui parlare, qualche argomento inerente da segnalare o semplicemente qualche offesa alla rubrica o all'autore, i commenti sono aperti a tutti, anche ai non iscritti a Blogger (cosa che forse molti utenti non ha ben chiaro, quindi mi premeva specificarlo). Anche le band emergenti se vogliono mandare loro video saranno prese in considerazione, ovviamente a discrezione mia. E solo mia.
Quest'anno i Royksopp, duo dalla Norvegia, non hanno fatto un gran disco ("Junior"). Hanno però realizzato uno splendido videoclip per il singolo Happy Up Here (per i patiti uscito per Astralwerks in vinile il 16 Marzo 2009, si trova su internet) che paga un grande tributo al mondo dei videogiochi anni '80, in particolare a Space Invaders. I colori e il montaggio fanno il resto. Guardatelo (per i nostalgici di Californication dei Chili Peppers a cui, però, piaccia anche ballare un minimo).
E invece nel 2008 Saverio Luzzo (che ha diretto anche per Fratelli Calafuria, Deasonika, Rezophonic, Extrema, Cayorosso e molti altri) realizza French Kiss, singolo dall'omonimo EP dei cittadellesi (Padova) Riaffiora. Il video, non a caso, ha anche vinto il premio PIVI 2009 al MEI di Faenza. Con un paio di belle ragazze ed i tre del gruppo che ne pestano una coi manganelli vestiti da poliziotti, lo dovevate vedere. No. Diciamo che il video non si riduce a questo e la regia molto accurata, insieme ad un montaggio altrettanto eccellente e al sottofondo musicale notevole (qui la recensione) è davvero una chicca in un momento in cui nove clip su dieci dipingono semplicemente la band che suona in sala prove o sopra qualche palazzo. Lode ai Riaffiora. Ecco il video, descritto dalla band come "a surrealist tale about LOVE, DIVERSITY and HUMAN EVIL". Come dargli torto?
Clips and Chips torna più avanti, quando meno ve l'aspettate, con un formato mai uguale, perché la libertà nel periodo della dittatura fascista è quello che conta. E anche una rubrica così inutile si deve adattare. Un saluto!
Nel primo numero vi consiglio giusto due videoclip da vedere senza tanti commenti, ma nel tempo pubblicherò notizie ed analisi personali sul mondo dei videoclip, che tanto rende (oltre alla pubblicità, si intende) a MTV et similia. La rubrica tende ad essere molto libera, e non ha schemi precisi per cui potreste trovare un giorno segnalazioni di bei video di vedere, un altro giorno una guida su come realizzare un videoclip ed un altro una tirata di 20 pagine di critiche sul modo della TV musicale. L'importante sono i videoclip. L'avevate capito.
Prima di consigliarvi un paio di video presi a random tra i "bei" (soggettivamente) video del biennio 2008/2009, sottolineo che chiunque volesse contribuire alla rubrica consigliando qualche video di cui parlare, qualche argomento inerente da segnalare o semplicemente qualche offesa alla rubrica o all'autore, i commenti sono aperti a tutti, anche ai non iscritti a Blogger (cosa che forse molti utenti non ha ben chiaro, quindi mi premeva specificarlo). Anche le band emergenti se vogliono mandare loro video saranno prese in considerazione, ovviamente a discrezione mia. E solo mia.
Quest'anno i Royksopp, duo dalla Norvegia, non hanno fatto un gran disco ("Junior"). Hanno però realizzato uno splendido videoclip per il singolo Happy Up Here (per i patiti uscito per Astralwerks in vinile il 16 Marzo 2009, si trova su internet) che paga un grande tributo al mondo dei videogiochi anni '80, in particolare a Space Invaders. I colori e il montaggio fanno il resto. Guardatelo (per i nostalgici di Californication dei Chili Peppers a cui, però, piaccia anche ballare un minimo).
E invece nel 2008 Saverio Luzzo (che ha diretto anche per Fratelli Calafuria, Deasonika, Rezophonic, Extrema, Cayorosso e molti altri) realizza French Kiss, singolo dall'omonimo EP dei cittadellesi (Padova) Riaffiora. Il video, non a caso, ha anche vinto il premio PIVI 2009 al MEI di Faenza. Con un paio di belle ragazze ed i tre del gruppo che ne pestano una coi manganelli vestiti da poliziotti, lo dovevate vedere. No. Diciamo che il video non si riduce a questo e la regia molto accurata, insieme ad un montaggio altrettanto eccellente e al sottofondo musicale notevole (qui la recensione) è davvero una chicca in un momento in cui nove clip su dieci dipingono semplicemente la band che suona in sala prove o sopra qualche palazzo. Lode ai Riaffiora. Ecco il video, descritto dalla band come "a surrealist tale about LOVE, DIVERSITY and HUMAN EVIL". Come dargli torto?
Clips and Chips torna più avanti, quando meno ve l'aspettate, con un formato mai uguale, perché la libertà nel periodo della dittatura fascista è quello che conta. E anche una rubrica così inutile si deve adattare. Un saluto!
martedì 15 dicembre 2009
Intervista ai DEVOCKA
I Devocka, band ferrarese con un bagaglio di esperienza notevole sulle spalle, arriva nel 2009 a pubblicare il suo secondo disco “Perchè Sorridere”. Alternative rock, con forti ingerenze post-punk e tonalità cupe, influenze che da ogni dove confluiscono in un genere unico, personale, subito riconducibile al loro, per chi li conosce. Chi si lamenta della morte del nostro panorama underground semplicemente dovrebbe comprare il disco dei Devocka.
a cura di Emanuele Brizzante
Allora, è tanto tempo che siete entrati nella scena ferrarese e ormai nella vostra zona ve l’avranno chiesto tutti, ma spiegate ai lettori di Impatto Sonoro la genesi del vostro nome e del vostro gruppo?
Ti faccio una brevissima cronistoria di eventi: siamo nati a fine 2003 a Ferrara, ci conosciamo da sempre ed abbiamo iniziato a massacrarci le orecchie fino ad arrivare all’incisione della prima autoproduzione (2005), che apre le porte ai primi concerti, ai primi passaggi radio e al primo contratto discografico. Nel 2006 esce infatti “Non Sento Quasi Più”, il nostro primo album ufficiale, licenziato dalla CNI di Roma e distribuito da Venus. Quest’anno è toccato a “Perchè Sorridere?!” continuare il nostro percorso artistico, con il mixaggio di Giulio Favero de Il Teatro Deglio Orrori. Il nome della band è “rubato” ad “Arancia Meccanica”. Devocka è il modo in cui Alex, il drugo protagonista del film, chiama le ragazze, scritto nella corretta translazione russa. Ci piaceva l’idea di utilizzare uno dei linguaggi di quest’opera, anche per il suono duro della parola stessa.
Più volte vi siete dichiarati fan di Arancia Meccanica, e qualche frammento della rabbia e della comunicatività di quel film traspare nei vostri testi. Confermate? Se si, perché questo interesse e cosa volete trasmettere citando (almeno in parte) quello che quel film significa? Il nome dell’ultimo disco ha qualcosa a che vedere con questo?
Siamo grandi fans di questo duplice capolavoro, novella e film, rispettivamente di Anthony Burgees e Stanley Kubrick. Ci continua a sconbussolare lo stomaco, tutto quello che esce dalla sala prove è in qualche modo influenzato da “Arancia Meccanica”, perchè è opera davvero immensa. Ogni volta che riguardo quel film ne rimango colpito, le scene di violenza iperrealistiche fanno riflettere su questa società esasperata e votata al condizionamento del pensiero. “Perchè Sorridere?!” può essere considerato, a modo nostro, un riflesso incondizionato delle immagini del film.
Ho notato anche che ultimamente avete inserito alcune nuove date nel MySpace. Che tipo di spettacolo proponete live, la pura e semplice musicale dei Devocka o c’è qualcosa di più?
In più, rispetto al formato digitale, c’è la coesione di noi quattro e la necessità di suonare, la rabbia che viviamo sulla nostra pelle e la passione che cerchiamo di trasmettere.
Restando in tema di significato della vostra musica, i recensori ne sparano tante e i riferimenti sono forse la piaga di questo mondo, ma chiediamolo direttamente ai musicisti: quali sono le vostre influenze? E che ne pensate delle recensioni? Vi sentite rispecchiate o qualche volta non comprendono il vostro percorso musicale?
Le nostre influenze sono radicate specialmente nel noise, nella new wave e nell’alternative italiano. Ci piacciono Jesus Lizard, Melvins, Swans, Dinosaur Jr, Oneida, Rage Against The Machine, Massimo Volume, Bachi Da Pietra, CSI, Virgin Prunes, Bauhaus, Joy Division e tanti altri. Le recensioni che sono uscite su “Perchè Sorridere?!” sono molto positive e siamo davvero felici che il disco piaccia. Quindi non possiamo che esserne contenti! Ogni tanto capita di essere paragonati a gruppi con i quali, a nostro avviso, centriamo ben poco, ma va bene così, in fondo nella musica ognuno ci trova quello che sente di più nelle proprie orecchie, per noi è rock. In generale credo che in Italia ci sia purtoppo poco professionismo nel “ruolo” di recensore. Di rock alternativo scrive anche gente che palesemente ne capisce poco. In ogni modo anche questo ha i suoi lati positivi, sai che impatto ha la tua musica anche su persone che solitamente non ne mastica molto.
I migliori auguri dal recensore (e ultimamente vostro fan), che chiude con una domanda. Dopo il vostro, a mio parere stupendo, “Perché Sorridere” quali sono i piani discografici? Nuovi full-length, EP, o altri progetti? We are curious…
Grazie mille Emanuele! Discograficamente stiamo già componendo nuovi brani per un futuro terzo album che speriamo di riuscire ad ultimate verso fine 2010. Potrebbe anche saltar fuori un nuovo split di Nervous, sempre in coppia con i Penelope Sulla Luna, ma questo è ancora da vedere.
a cura di Emanuele Brizzante
Allora, è tanto tempo che siete entrati nella scena ferrarese e ormai nella vostra zona ve l’avranno chiesto tutti, ma spiegate ai lettori di Impatto Sonoro la genesi del vostro nome e del vostro gruppo?
Ti faccio una brevissima cronistoria di eventi: siamo nati a fine 2003 a Ferrara, ci conosciamo da sempre ed abbiamo iniziato a massacrarci le orecchie fino ad arrivare all’incisione della prima autoproduzione (2005), che apre le porte ai primi concerti, ai primi passaggi radio e al primo contratto discografico. Nel 2006 esce infatti “Non Sento Quasi Più”, il nostro primo album ufficiale, licenziato dalla CNI di Roma e distribuito da Venus. Quest’anno è toccato a “Perchè Sorridere?!” continuare il nostro percorso artistico, con il mixaggio di Giulio Favero de Il Teatro Deglio Orrori. Il nome della band è “rubato” ad “Arancia Meccanica”. Devocka è il modo in cui Alex, il drugo protagonista del film, chiama le ragazze, scritto nella corretta translazione russa. Ci piaceva l’idea di utilizzare uno dei linguaggi di quest’opera, anche per il suono duro della parola stessa.
Più volte vi siete dichiarati fan di Arancia Meccanica, e qualche frammento della rabbia e della comunicatività di quel film traspare nei vostri testi. Confermate? Se si, perché questo interesse e cosa volete trasmettere citando (almeno in parte) quello che quel film significa? Il nome dell’ultimo disco ha qualcosa a che vedere con questo?
Siamo grandi fans di questo duplice capolavoro, novella e film, rispettivamente di Anthony Burgees e Stanley Kubrick. Ci continua a sconbussolare lo stomaco, tutto quello che esce dalla sala prove è in qualche modo influenzato da “Arancia Meccanica”, perchè è opera davvero immensa. Ogni volta che riguardo quel film ne rimango colpito, le scene di violenza iperrealistiche fanno riflettere su questa società esasperata e votata al condizionamento del pensiero. “Perchè Sorridere?!” può essere considerato, a modo nostro, un riflesso incondizionato delle immagini del film.
Ho notato anche che ultimamente avete inserito alcune nuove date nel MySpace. Che tipo di spettacolo proponete live, la pura e semplice musicale dei Devocka o c’è qualcosa di più?
In più, rispetto al formato digitale, c’è la coesione di noi quattro e la necessità di suonare, la rabbia che viviamo sulla nostra pelle e la passione che cerchiamo di trasmettere.
Restando in tema di significato della vostra musica, i recensori ne sparano tante e i riferimenti sono forse la piaga di questo mondo, ma chiediamolo direttamente ai musicisti: quali sono le vostre influenze? E che ne pensate delle recensioni? Vi sentite rispecchiate o qualche volta non comprendono il vostro percorso musicale?
Le nostre influenze sono radicate specialmente nel noise, nella new wave e nell’alternative italiano. Ci piacciono Jesus Lizard, Melvins, Swans, Dinosaur Jr, Oneida, Rage Against The Machine, Massimo Volume, Bachi Da Pietra, CSI, Virgin Prunes, Bauhaus, Joy Division e tanti altri. Le recensioni che sono uscite su “Perchè Sorridere?!” sono molto positive e siamo davvero felici che il disco piaccia. Quindi non possiamo che esserne contenti! Ogni tanto capita di essere paragonati a gruppi con i quali, a nostro avviso, centriamo ben poco, ma va bene così, in fondo nella musica ognuno ci trova quello che sente di più nelle proprie orecchie, per noi è rock. In generale credo che in Italia ci sia purtoppo poco professionismo nel “ruolo” di recensore. Di rock alternativo scrive anche gente che palesemente ne capisce poco. In ogni modo anche questo ha i suoi lati positivi, sai che impatto ha la tua musica anche su persone che solitamente non ne mastica molto.
I migliori auguri dal recensore (e ultimamente vostro fan), che chiude con una domanda. Dopo il vostro, a mio parere stupendo, “Perché Sorridere” quali sono i piani discografici? Nuovi full-length, EP, o altri progetti? We are curious…
Grazie mille Emanuele! Discograficamente stiamo già componendo nuovi brani per un futuro terzo album che speriamo di riuscire ad ultimate verso fine 2010. Potrebbe anche saltar fuori un nuovo split di Nervous, sempre in coppia con i Penelope Sulla Luna, ma questo è ancora da vedere.
lunedì 14 dicembre 2009
Re-Verbero - E' Finita l'Era delle Ragazzine (Autoprodotto, 2009)
I Re-Verbero sono un giovane trio della provincia di Padova. Sono da qualche anno in giro per i locali della zona, a portare il loro simpatico rock influenzato dal grunge dei Verdena e dei loro pupilli, i Karnea, aiutati senz'altro dalla voce del frontman Andrea, praticamente sputata a quella di Alberto Ferrari.
Quello che si sente ascoltando questo disco/EP è un interessante “update” di quello che già avevano proposto i bergamaschi con il loro “demotape”, tutt'oggi un cult tra i fan, dove rivivevano in chiave italiano tutto il grunge dei Nirvana ed imitatori vari. Sentimentalismo Tormentato, in questo senso è più che eloquente. Riff graffianti con distorsione caldissima, batteria potente (nonostante le imprecisioni che più volte si sentono nei passaggi). Lo stesso discorso si può applicare tranquillamente a Love'n'Roll e Ho Commesso un Altro Errore, quest'ultima con alcuni cambi di tempo interessanti anche se per niente nuovi per chi è abituato al genere. Il Videodorme musicalmente presenta qualche evoluzione dal sound troppo verdeniano (mi si scusino le ripetizioni) degli altri pezzi, ma la voce ci riporta con i piedi a terra. Attenzione, non si tratta di pura e semplice imitazione, qualche tratto di originalità si può individuare tranquillamente, anche nei giri di basso, in ogni caso ridotto a contorno, nello stagliarsi della chitarra e della voce. Senza ombra di dubbio, il pezzo migliore del disco. Spazio anche per un po' di melodia nell'introduzione (prima traccia) e in Untitled, una ballata dal gusto più propriamente Nirvana, sempre con una voce che più Ferrari non si può. Ottimi gli arpeggi.
Non serve neanche chiedere ai membri della band cosa ascoltano, lo si sente benissimo. Ma tirare fuori qualcosa di proprio in questo EP si può: un modo di comporre le canzoni non troppo banale, purtroppo trattenute un po' indietro da alcune insicurezze a livello tecnico soprattutto del comparto ritmico della band, che lascia spazio a qualche possibilità di evoluzione in futuro, si spera verso lidi più personali.
Pollice alzato, ma senza troppo stupirsi se quando li ascolterete vi sembreranno una copia dei Verdena, alla fine penso fosse questo il modo in cui si volevano far vedere. E ce l'hanno fatta, senza troppe sbavature.
Voto: 6.5
venerdì 11 dicembre 2009
Biffy Clyro - Only Revolutions (14th Floor/Roadrunner, 2009)
I Biffy Clyro hanno trovato una loro dimensione da poco. Al quinto lavoro in studio hanno perso già parecchio tempo a girare con band del calibro di Queens of The Stone Age e Muse (anche di recente), facendosi le ossa sul palco e mantenendo comunque un pubblico personale che li segue fedele.
Partiti da lidi post-hardcore e più alternative, hanno spostato col tempo il baricentro su versanti più “sperimentali” (termine che ha usato il frontman Simon Neil per descrivere questo nuovo disco) e power-pop.
Dalla Scozia, come i Franz Ferdinand e i Mogwai, portano caratteristiche della new wave e del britpop con gli influssi del punk pop più ballabile, non propriamente da classifica, infangandolo di melodia e di rock'n'roll con il giusto apporto di elementi addizionali come l'orchestra e le tastiere, presenti in tutto il disco.
Dalla Scozia, come i Franz Ferdinand e i Mogwai, portano caratteristiche della new wave e del britpop con gli influssi del punk pop più ballabile, non propriamente da classifica, infangandolo di melodia e di rock'n'roll con il giusto apporto di elementi addizionali come l'orchestra e le tastiere, presenti in tutto il disco.
L'energia della band non si spegne mai, neanche nelle ballate (come The Captain e Many of Horror, un po' post-grunge volendo nelle linee vocali) ma resta prevalente l'anima rock dei distorti pesanti in Mountains, That Golden Rule e Boooom, Blast & Ruin comunque sempre danzabili, mentre echi della miglior new wave restano in Born On A Horse (vicina a gruppi come i recenti Bloc Party).
Ma qui non si tratta del solito fenomeno mediatico inglese da consumare in due anni per poi riciclarlo con album solisti e nostalgiche reunion, la carriera dei BC è lunga e da sempre in crescita. Lo testimonia questo disco scoppiettante, completo, complessivamente orecchiabile anche quando sperimenta con qualche arpeggio più complicato ed evitando i soliti cliché della musica inglese, abusatissimi soprattutto nell'ultima decade. La band infatti non solo dimostra una padronanza tecnica notevole, ma anche un'abilità compositiva che non si sentiva da tempo nel genere, posizionando le diverse influenze in maniera perfetta, come a comporre un mosaico dai colori molto differenti tra loro in modo molto attento, per avere un prodotto raffinato, variopinto e senza sbavature. Un'opera d'arte vera e propria.
Se volete ascoltare un buon disco rock in questo strano 2009, evitate le solite copie dei Joy Division ed ascoltatevi i Biffy Clyro.
Voto: 8
mercoledì 9 dicembre 2009
Franz Ferdinand Live @ Jesolo, 8 Dicembre 2009
Nel 1914 Francesco Ferdinando viene ucciso a Sarajevo insieme alla moglie da Gavrilo Princip, nazionalista jugoslavo. Questo, insieme ad altri eventi, contribuì allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Che anche a Glasgow ci sia interessa per la storia non lo testimoniano certo i Franz Ferdinand, nonostante la scelta del nome, che è forse l'unica cosa che si può criticare di una band come questa (anche se in effetti ha la sua musicalità).
Al Palazzo del Turismo di Jesolo, il nove Dicembre, erano in tanti. Sembravano meno all'inizio, ma il piccolo edificio si è riempito facilmente, e già il popolo di magliettine indie e camicioni a quadri attendeva con ansia l'apparire della band. La prima volta che si sono fatti vedere sul palco non è stato per iniziare il concerto, ma come spettatori della band d'apertura, The Phenomenal Handclap Band, una band molto numerosa proveniente dal panorama indie/elettronico newyorkese, che sfoggia trenta minuti di set al fulmicotone, con un sintetizzatore molto anni '70/'80, e un tiro decisamente disco (l'abbigliamento ricorda band come The Ark e The Darkness), per concludere poi con l'invasione di palco da parte dei Franz Ferdinand ai cori.
Quarantacinque minuti di cambio palco (e quindi di ritardo) per gli scozzesi. Tempo di montare il telone col nome della band (da far cadere subito dopo il primo pezzo per rivelare un enorme schermo e la grande scenografia a dir poco costosa che si sono portati appresso in questo tour). A fare grande il set, durato circa 90 minuti, non è stato però l'impianto luci, senz'altro buono ed azzeccato per la varietà dei colori, ma la carica della band. Spietati punkettari anche se molto più rilassati nei dischi, scatenano pogo ed accompagnamenti vocali e fisici da parte di un pubblico notevolmente coinvolto, complice anche la bassa temperatura che senz'altro spingeva verso la direzione del “movimento”. La setlist passa per tutti e tre gli episodi discografici dei quattro britannici, senza tralasciare tutti i singoli vecchi e nuovi (Do You Want To, Walk Away e Take Me Out le migliori in assoluto, riuscite anche No You Girls, in apertura, e Ulysses, verso la fine del concerto, eseguita più velocemente). La band ha messo sul palco non solo una grande voglia di divertirsi ma anche una carica impressionante, a tratti simpatica, per i salti piuttosto “aggraziati” del cantante. Fare i personaggi non è facile, soprattutto se devi anche suonare dei brani non proprio facili e coinvolgere un pubblico così esigente; c'è da dire che i Franz ci sono riusciti, grazie non solo a un animale da palco come Nick McCarthy.
Alex Kapranos, molto bravo sia alla voce che alla chitarra, urla qualche “grazie Jesolo” (e pure “fa più freddo che in Scozia”), e rivela anche la sua ottima presenza scenica, che finisce con uno stage diving suggerito prima da Nick.
Altre note: Interessante il finale con i Phenomenal Handclap Band a suonare sul palco insieme ai Franz la parte finale di Lucid Dreams (allungata di circa cinque minuti per l'occasione), lasciando alla fine solo il batterista a concludere. Prima dell'encore, la band aveva inoltre portato sul palco una seconda batteria che hanno suonato in sincrono, con un ritmo “tribaleggiante” che ancora martellerà nella testa degli astanti.
Che dire. Un concerto così si scorda difficilmente, l'ho già detto ai fortunati che erano con me, potrebbe essere il mio “concerto dell'anno”, e dirlo dopo che ho visto gente come Muse, Placebo e Coldplay significa fare un grandissimo complimento ai giovani di Glasgow. Veramente, un concerto da non perdere.
martedì 8 dicembre 2009
Afterhours - Hai Paura del Buio? (Mescal, 1997)
Recensione scritta per Indie for Bunnies - link
Pochi dischi hanno condizionato la musica venuta dopo come questo “Hai Paura del Buio?” degli Afterhours. Secondo disco in lingua italiana per la band di Milano, ha rivoluzionato il linguaggio e la composizione delle musiche per quanto riguarda l'alternative rock italico, creando, loro malgrado, sciami interminabili di imitatori ed ispirando, più o meno dichiaratamente, praticamente qualunque band uscita successivamente. E' un album completo, a trecentosessanta gradi, dove un tris di power chords o quattro accordi da spiaggia messi di fila appaiono talmente emotivamente coinvolgenti da risultare complici di un capolavoro, per scarabocchiare sulla tela pensieri ed immagini che grazie alla poesia di Manuel Agnelli e ai graffi isterici di Xabier Iriondo diventano “storia”.
C'è tutto in questo disco. La potenza pura del post-Nirvana in Dea e Lasciami Leccare l'Adrenalina, gli inni grunge come Sui Giovani d'Oggi ci Scatarro Su e l'intramontabile Male di Miele (ti do le stesse possibilità di neve al centro dell'inferno, ti va), il noise minimalista di Senza Finestra e Simbiosi, emozionanti ancora oggi quando riproposte nei live, il pop rock delle ballad come Voglio una Pelle Splendida (la vita è un suicidio, l'amore è un rogo) e Pelle, tra le più belle del loro intero repertorio. Il ritmo sempre molto sostenuto del disco sembra fermarsi in episodi come la dolce Mi Trovo Nuovo o la classicheggiante Come Vorrei, ma riesplode sempre con Punto G, Veleno e Rapace, che presentano la tipica alternanza di melodia e riff taglienti, costruita però con una precisione e degli arrangiamenti veramente ineguagliati nel nostro paese.
La produzione del disco non è superba, e tutt'oggi nonostante internet ci abbia permesso di apprezzare anche molti dischi di fattura non proprio ottima abituandoci alle sonorità “da MySpace” sentiamo che in casa Agnelli non giravano ancora i soldi. Ma il suono è comunque d'impatto, graffiante, e complice del sensazionale risultato, potente ma a tratti intimistico, grazie ai testi sempre molto personali e variamente interpretabili del frontman. Strumentalmente non troviamo virtuosismi ne passaggi difficili, e mai ne troveremo nella carriera degli Afterhours, ma la sincerità con la quale due accordi di chitarra e un bel giro di violino sanno creare canzoni come queste stupisce ancora. E non rimanerne appassionati è davvero impossibile.
Se “non c'è niente che sia per sempre”, beh questo disco sicuramente lo sarà.
Voto: 9.5
lunedì 7 dicembre 2009
Badloveexperience - Rainy Days (Mabel/Inconsapevole, 2009)
I Badloveexperience sono una band di Livorno già da qualche tempo arrivata ad occupare un posto di rilievo nella scena underground nazionale. Dalle prime note di ogni loro canzone si può percepire che però, se fossero nati in Inghilterra, sarebbero già insieme a The Gossip, Arctic Monkeys, Pete Doherty e tutte le rockstar corteggiate da NME e riviste à la page per quanto riguarda l’indie e l’alternative mainstream. Quello che propongono infatti è un rock dai forti accenti britannici, riversato su disco in entrambe le sue accezioni più comuni: quella più classicheggiante, ancora affezionata ai Beatles e quella più moderna, sempre devota al panorama anni ‘60 e ‘70 ma più ballabile e che guarda con un occhio malinconico e disinvolto alla scena rockabilly e ai Rolling Stones. Il risultato è modesto, senza dubbio sopra la linea del discreto.
Nelle diverse tracce di questo disco i toscani si dimostrano frizzanti, a passo coi tempi, volutamente orecchiabili e con una buona dose di originalità nonostante le varie influenze inserite nel frullatore non abbiano prodotto un risultato tanto omogeneo da non distinguerle e poter parlare di un lavoro innovativo. Nonostante questo la “radiofonicità” di una potenziale hit come “Break Away”, in apertura, e della movimentata “Somebody Born to Walk (and Some to Fly)”, spiazzano anche chi parte con le premesse peggiori di ascoltare un gruppo clone di altri cloni. La genuinità di questo “Rainy Days” è evidente anche nella più pop “Ballad of a Libertine”, vicina alla malinconia tipicamente inglese di band come Babyshambles e The Kooks (quelli meno festaioli, si intende). In effetti l’atmosfera quasi londinese si avverte in “Knowing All The Things I’ve Known” e la conclusiva “All The Heroes, Unfamous People”. Di per sé non c’è molto da dire in più sull’album, le componenti più veloci e spensierate si alternano a quelle più smorzate e cupe, come nella pura tradizione delle band indie del Regno Unito (con l’unica differenza che stiamo parlando di quattro ragazzi di Livorno). Da degustare attentamente in concerto sono soprattutto le tracce più rock’n'roll, come “Dear M. Boy”, che qualsiasi fan di The Wombats, The Fratellis ecc. potrà indubbiamente gradire.
Il tentativo di imitare le più fortunate band inglesi tentando di dare un approccio personale (in questo caso non particolarmente riuscito) è apprezzabile, in realtà, solo fino ad un certo punto, in quanto ci si aspetta da chi fuori dall’Inghilterra tenta di copiarne gli stilemi l’inserimento di qualche ingrediente nuovo, qualche contaminazione col patrimonio musicale locale (e i risultati, pensandoci bene, avrebbero potuto anche peggiorare, quindi è difficile fare una previsione azzeccata a riguardo). In ogni caso questo disco, forte di una produzione sopra la media e di sonorità perfette e che ben si coniugano con il tipo di genere, è ben riuscito, si ascolta in maniera leggera e senza l’appesantimento che può derivare da parti strumentali troppo complesse, mantenendo quella patina di orecchiabilità che può permettergli, potenzialmente, di sfondare anche nello Stivale. Sempre che ci sia chi vuole dargli l’attenzione che meritano. Per il resto, si spera in un lavoro più personale per il futuro, per poter assaggiare e digerire completamente le capacità strumentali e compositive di una band che ha pochi rivali in Italia in questo tipo di scena. Dategli una chance.
Voto: 7
domenica 6 dicembre 2009
Vowels - The Pattern Prism (Loaf, 2009)
Follia elettronica e caleidoscopiche creazioni di musica di qualità. Il “prisma” dei Vowels è un conglomerato plastico, infinitamente malleabile, di suoni e colori; costruito con un ambizioso tentativo di sfidare le leggi e le convenzioni non scritte della musica elettronica già composta, questo disco è infatti la riprova, dove già ci hanno provato con ottimo successo gente come Squarepusher ed Aphex Twin, che questo genere è ancora aperto a sperimentazioni di ogni sorta, grazie anche ai synth e alla sempre più musicalmente accomodante era dell’informatica.
Non è materiale facilmente ascoltabile. In qualche frangente si direbbe mancare di logica, ma bastano poche note per rendersi conto che i Vowels non hanno certo composto in maniera “random” questo bel disco. Se manca di coesione tra le parti, più o meno volutamente, non manca di certo di fantasia. E subito in apertura, i due minuti scarsi di Sonny sparano sfacciatamente sullo schermo le prime visioni oniriche di oggetti dalle forme più varie che si rincorrono, scalpitando e inciampando, rialzandosi per poi scattare, bloccarsi e ripartire. E’ già pazzia Tortoisiana. Seguendo con ordine troviamo Two Wires, piuttosto catchy rispetto al resto del disco, una ballata electro-pop simil-Holy Fuck che con le sue melodie sintetizzate ed una linea di batteria molto essenziale trascina per sei minuti buoni, lasciando spazio all’inizio “gutturale” di Swim Pool, 2 minuti e 42 di rumoristica d’alto livello, come una visione di un mondo sottomarino distrutto da suoni distorti trasmessi a volumi altissimi per il piacere di ascoltatori incatenati sul fondale a respirare ossigeno artificiale. Non bevete prima di ascoltarla.
Continuando il track-by-track ci imbattiamo nell’incespicare incontrollabile degli undici minuti di Appendix, il pezzo più lungo e più “calcolato” dell’intero disco. Lavoro di batteria superbo, così come il rintocco “di campane” sintetizzato che si ripete incessante; questi ragazzi fanno musica in una dimensione tutta loro. Una parte centrale fintamente coerente, lascia il segno invece per l’inconsistenza con cui procede prima di deflagrare nello schizofrenico finale, un andante dove il caos continua a regnare indisturbato. Elettronica disco-pop in On Up!, per ballare su musica che non è fatta per questo. Ma cosa ve lo dico a fare; ottimi i giri di tastiera e basso. Drums gone Awry non merita commenti altri che la traduzione del titolo. Deviazioni di percussioni sbilenche. No, non è la traduzione, ma ora sapete cosa aspettarvi. Tornano le allucinazioni dei Tortoise in Eh Uh, altro pezzo che sembra non terminare mai (undici minuti), cadenzato viaggio mentale dai suoni disperati e sgraziati, che perde di logica man mano che prosegue, arrivando nella coda come un semplice pulsare, terminando con frastuono elettrico di derivazioni smaccatamente noise. Il CD si conclude con Closing Circles, ritmo che ricorda gruppi recenti come Errors e Battles ad iniziare, che si trasforma poi nell’ennesima (l’ultima) cavalcata nevrastenica che lascerà i vostri timpani in un senso di torpore e di quasi-dolore il cui sollievo arriverà solo alla fine del pezzo.
L’album è veramente interessante. Dimostra come le sperimentazioni, nell’epoca del fallimento dell’originalità in generi come il rock ed il metal, proseguano a tutto spiano nei generi più “di nicchia” (non che l’elettronica commerciale lo sia) come questo. I Vowels sanno il fatto loro e producono un ritratto consapevole di cosa vogliono rappresentare con la loro musica, schizzando tenaci situazioni più simili a trip che a canzoni, dove il songwriting è ridotto all’elasticità più completa che l’era della “digital music” permette. Operazione riuscita.
Voto: 8.5
Voto: 8.5
sabato 5 dicembre 2009
Brunori Sas - Vol. 1 (Pippola Music, 2009)
Dario Brunori, già in passato con i Blume, viene da Cosenza. Il sapore provinciale della sua musica alberga in tutto questo lavoro, una neanche tanto lunga dissertazione cantautorale dal gusto prettamente italico, con influenze, tra le più evidenti, come Piero Ciampi e Rino Gaetano.
Sono storie personali in cui molti si possono riconoscere, come Italian Dandy, in cui l’eleganza del writing sfila dalla penna di Federico Fiumani dei Diaframma quell’erotismo semplice e raffinato, rivissuto in maniera adolescenziale (i riferimenti ad Edwige Fenech, le frasi come "a sedici anni pensava solo al sesso"), o Nanà, in cui le prime esperienze vissute dal cantante vengono narrate con una rabbia che ricorda parzialmente quell’istinto isterico del primo Vasco Rossi (quello di “Valium” e poche altre perle degli anni’ 80, che si sente anche nelle grida verso la fine di Il Pugile, prima traccia di questo "Vol. 1"), tra carte infilate nella marmitta del motorino, il pallone bucato dal vicino incazzato e il ritornello in cui si grida "la mia non è una vita speciale, e molto spesso me la devo inventare". Un motto per molti dei cosiddetti ‘italiani medi’. E il rifugio è la musica. E per Paolo che non sa "per chi voterà, ma sa soltanto che vuole una moglie", ci sono toni più folk, e spunta Ivan Graziani nelle atmosfere intime sostenute dai fiati.
I ricordi che vuole condividere Dario sono gli stessi di molti italiani cresciuti dagli anni ‘70 in avanti, le preghiere, il calcio ("la sola religione del mondo", come racconta nella marciante Come Stai), l’amore a volte difficile; niente di nuovo ma il filtro essenziale e tendenzialmente pulito con cui narra queste vicende e queste situazioni lo fa emergere come una delle realtà cantautorali che difficilmente verranno considerate dalla stampa di rilievo commerciale, mentre dall’altro lato se lo meriterebbe. Per aver realizzato da solo un disco così completo, limitato nei suoni ma non negli orizzonti che veramente accomunano, fuori dai luoghi comuni, migliaia di noi. In “L’Imprenditore” Dario esterna i suoi dubbi per le differenze che lo separano da tanti altri (che come dirà in “Di Così” vuole "viversi meglio"), mentre "gli asini volano in cielo e fanno debiti per restare in terra, ma io resto qui". E’ una ballata dai toni rock, nell’esplosione a fine pezzo ma anche prima, nella sua rabbia sommessa espressa con la stessa pacatezza del resto del disco. Ed è così che in Guardia ‘82 si parla di un bambino che vedeva una ragazza nuda al mare senza rimanerne impressionato, per poi dieci anni più vecchio accorgersi della sua bellezza. Situazione da film di bassa lega, narrata con i toni di un cantante nostalgico alla Gino Santercole, d’incredibile e volubile sincerità.
Questo è “Vol. 1”, lavoro onesto di un enorme potenza comunicativa, che alza il sipario su un Italia grande ma tutta provinciale, evidenziando quel background che accomuna tutti, nonostante le differenze che si sviluppano quando gli anni passano e le vite di ognuno prendono treni con destinazioni diverse. E solo uno come Dario Brunori, con la sua chitarra e la sua voglia di dire le cose, può raccontarlo così, incazzato ma non sgraziato, felice ma non soddisfatto. Insomma, un cantautore come ne mancano da anni. Ascoltatelo.
Voto: 9
venerdì 4 dicembre 2009
Frank Zappa
"Quando ascolto musica, non dico mai "Ehilà, che uomo! Ha fatto questo!!!"... e questo fondamentalmente perché ciò che sto ascoltando è la sua musica... ascolto il brano... non conosco nulla della vita dei compositori... potevano anche essere degli stronzi bastardi... probabilmente non mi interessa sapere come fosse Webern nella vita privata, mi piace la sua musica... non penso mai a chi l'ha scritta o perché l'abbia fatto... ascolto solamente il risultato"
-Frank Zappa-
16 anni fa, il 4 Dicembre 1993 moriva Frank Zappa a neanche 53 anni compiuti a causa di un tumore alla prostata. La citazione che ho inserito a inizio paragrafo spiega molto lo scopo di questo post: non ho intenzione di ripercorrere la vita privata di Frank Zappa. Ne ho intenzione di fare un analisi critica di tutte le sue opere (che con il live "Philly 76" che verrà pubblicato a fine mese saranno 86 in tutto, senza contare tutte le collaborazioni e i progetti alternativi) o tantomeno di tentare di spiegare come abbia influenzato la musica. Intendo solamente cercare di far capire al lettore cos'è stata la musica di Frank Zappa per me, o quali sono gli album che consiglierei al neofita.
Per me Frank Zappa è un mondo a parte, è un olimpo musicale. Sopra a tutti c'è lui, e sotto ai piedi del monte ci sono dei bravissimi sicari, che però non potranno mai raggiungerlo. Avevo solo 5 anni quando dalle casse consumatissime di un vecchio walkman ascoltavo per la prima volta una cassetta di "Absolutely Free" (1967). Non so dire adesso quali fossero le mie sensazioni al momento, ma ricordo che "Invocation and Ritual Dance of the Young Pumpkin" mi faceva andare via di testa. Curiosamente, fu mio fratello ad appassionarsi di Zappa. Io avevo solo 5 anni, c'era poco che potessi fare. Non ricordo di preciso quando avvenne la conversione, so solo che mio fratello non riuscì mai più ad ascoltare "Hot Rats" (1969) o la compilation "Strictly Commercial" (1995), perché erano perennemente da me. Lui è rimasto ancora a quegli album, o al periodo jazz di Zappa, ma io sono andato oltre, col tempo ho completato la sua discografia e adesso possiedo tutto.
E non mi stanco mai, perché la musica di Zappa è qualcosa di troppo vario. E' sempre nuova, c'è sempre qualche particolare che salta fuori ad ogni ascolto, qualche citazione colta che capisci solo col tempo. Questa cosa si applica anche al suo stile chitarristico. Quello che fanno 100 Petrucci non sarà mai nemmeno un quarto di quello che faceva Frank Zappa da solo. I suoi assolo non erano cose tipo "ehi guardatemi, ho una tecnica pazzesca", erano composizioni improvvisate. Si sente una vena melodica allucinante, quasi come se le avesse scritte prima. E invece no, ad ogni concerto l'assolo cambiava. Non mi stupirei se alcune delle sue migliori composizioni fossero venute fuori grazie ad un suo assolo. Inoltre Zappa aiutava anche a pensare. Appena mi sono preso la briga di leggere i suoi testi, ho letto in alcuni delle critiche sociali spietatissime, intelligenti, a volte al limite della volgarità, ma forse per questo degne di essere etichettate come satira. Zappa non discriminava nessuno: ce l'aveva con chiunque, a condizione che la stupidità fosse presente.
Per quanto riguarda gli album di Zappa, ce ne sono alcuni ai quali sono particolarmente legato, e sono "One Size Fits All" (1975) (un album che amo talmente tanto da non riuscire neanche a descriverlo), "Waka/Jawaka" (1972), "Sheik Yerbouti" (1979), "Joe's Garage" (1979) e "Läther" (preparato nel 1977, ma pubblicato solo postumo nel 1996. Se fosse stato pubblicato nel 77 sarebbe stato probabilmente il capolavoro di Zappa). Descrivere la musica di Zappa è una cosa troppo lunga per un editoriale, ma sappiate che in un album di 35 minuti potete trovare facilmente molti generi diversi spesso non relazionati tra di loro. Se volete iniziare con qualcosa relativamente semplice, direi che la sovracitata compilation "Strictly Commercial" è adattissima.
Molti si chiedono cosa farebbe Zappa al giorno d'oggi... molto probabilmente riderebbe di questa società odierna sempre più orientata verso l'idiozia, senza risparmiare frecciate a noi Italiani. Ma purtroppo Zappa è morto, quindi è compito degli artisti moderni tentare di scoprire cose nuove, senza mai fermarsi ai soliti due accordi in croce. E riguardo a X Factor, Amici, American Idol e cazzate del genere... modificherò un testo di Zappa stesso dalla sua "We're Turning Again" (da "Meets the Mothers of Prevention", 1985): "Frank come back/No one can do it like you used to/If you listen to the radio/And what they play today/You can tell right away:
All those assholes really need you!"
Ciao, Frank
-Frank Zappa-
16 anni fa, il 4 Dicembre 1993 moriva Frank Zappa a neanche 53 anni compiuti a causa di un tumore alla prostata. La citazione che ho inserito a inizio paragrafo spiega molto lo scopo di questo post: non ho intenzione di ripercorrere la vita privata di Frank Zappa. Ne ho intenzione di fare un analisi critica di tutte le sue opere (che con il live "Philly 76" che verrà pubblicato a fine mese saranno 86 in tutto, senza contare tutte le collaborazioni e i progetti alternativi) o tantomeno di tentare di spiegare come abbia influenzato la musica. Intendo solamente cercare di far capire al lettore cos'è stata la musica di Frank Zappa per me, o quali sono gli album che consiglierei al neofita.
Per me Frank Zappa è un mondo a parte, è un olimpo musicale. Sopra a tutti c'è lui, e sotto ai piedi del monte ci sono dei bravissimi sicari, che però non potranno mai raggiungerlo. Avevo solo 5 anni quando dalle casse consumatissime di un vecchio walkman ascoltavo per la prima volta una cassetta di "Absolutely Free" (1967). Non so dire adesso quali fossero le mie sensazioni al momento, ma ricordo che "Invocation and Ritual Dance of the Young Pumpkin" mi faceva andare via di testa. Curiosamente, fu mio fratello ad appassionarsi di Zappa. Io avevo solo 5 anni, c'era poco che potessi fare. Non ricordo di preciso quando avvenne la conversione, so solo che mio fratello non riuscì mai più ad ascoltare "Hot Rats" (1969) o la compilation "Strictly Commercial" (1995), perché erano perennemente da me. Lui è rimasto ancora a quegli album, o al periodo jazz di Zappa, ma io sono andato oltre, col tempo ho completato la sua discografia e adesso possiedo tutto.
E non mi stanco mai, perché la musica di Zappa è qualcosa di troppo vario. E' sempre nuova, c'è sempre qualche particolare che salta fuori ad ogni ascolto, qualche citazione colta che capisci solo col tempo. Questa cosa si applica anche al suo stile chitarristico. Quello che fanno 100 Petrucci non sarà mai nemmeno un quarto di quello che faceva Frank Zappa da solo. I suoi assolo non erano cose tipo "ehi guardatemi, ho una tecnica pazzesca", erano composizioni improvvisate. Si sente una vena melodica allucinante, quasi come se le avesse scritte prima. E invece no, ad ogni concerto l'assolo cambiava. Non mi stupirei se alcune delle sue migliori composizioni fossero venute fuori grazie ad un suo assolo. Inoltre Zappa aiutava anche a pensare. Appena mi sono preso la briga di leggere i suoi testi, ho letto in alcuni delle critiche sociali spietatissime, intelligenti, a volte al limite della volgarità, ma forse per questo degne di essere etichettate come satira. Zappa non discriminava nessuno: ce l'aveva con chiunque, a condizione che la stupidità fosse presente.
Per quanto riguarda gli album di Zappa, ce ne sono alcuni ai quali sono particolarmente legato, e sono "One Size Fits All" (1975) (un album che amo talmente tanto da non riuscire neanche a descriverlo), "Waka/Jawaka" (1972), "Sheik Yerbouti" (1979), "Joe's Garage" (1979) e "Läther" (preparato nel 1977, ma pubblicato solo postumo nel 1996. Se fosse stato pubblicato nel 77 sarebbe stato probabilmente il capolavoro di Zappa). Descrivere la musica di Zappa è una cosa troppo lunga per un editoriale, ma sappiate che in un album di 35 minuti potete trovare facilmente molti generi diversi spesso non relazionati tra di loro. Se volete iniziare con qualcosa relativamente semplice, direi che la sovracitata compilation "Strictly Commercial" è adattissima.
Molti si chiedono cosa farebbe Zappa al giorno d'oggi... molto probabilmente riderebbe di questa società odierna sempre più orientata verso l'idiozia, senza risparmiare frecciate a noi Italiani. Ma purtroppo Zappa è morto, quindi è compito degli artisti moderni tentare di scoprire cose nuove, senza mai fermarsi ai soliti due accordi in croce. E riguardo a X Factor, Amici, American Idol e cazzate del genere... modificherò un testo di Zappa stesso dalla sua "We're Turning Again" (da "Meets the Mothers of Prevention", 1985): "Frank come back/No one can do it like you used to/If you listen to the radio/And what they play today/You can tell right away:
All those assholes really need you!"
Ciao, Frank