giovedì 19 novembre 2009

Barbagallo - Floppy Disk (autoprodotto, 2009)


L’onesto recensore ogni tanto deve saper ammettere che alcuni dischi vanno ascoltati con una cultura musicale alle spalle che non possiede. Alzo la mano. Il cantautore siciliano Carlo Barbagallo mette sinceramente in difficoltà, ma piuttosto che lamentarmi preferisco trovare le parole per descrivere un lavoro immenso nella sua completezza ed originalità, un disco che tocca i più diversi meandri del blues, del pop, del rock, della psichedelia, con sperimentazioni al di là degli schemi che ormai ingabbiano anche chi fa prog o musica d’avanguardia. Molto spesso, perlomeno.
“Floppy Disk” esce dalla mente di uno dei musicisti più eclettici che mi sia capitato di ascoltare. Dalla sua biografia si apprende la sua abilità con molti strumenti, ma anche che ha solo 25 anni. Non è questo che scopriamo in un CD influenzato dai Beatles (per questo fari puntati su Paper Mirror e Friday) e dal brit-rock meno ostentato (è il caso dell’unico pezzo orecchiabile, Yolkrise), con chitarre di buona ispirazione anni ‘60 – ‘70 (i primi Pink Floyd o i lavori solisti di Barrett? Zappa?), piano e tastiere allucinate, musica raffinata. Ricordi di Genesis e dei più recenti Motorpsycho, quando anche loro superano le vie più “alternative” per raggiungere quello stato quasi comatoso, riflessivo, che con le venature psichedeliche tra arpeggi e synth ti sa far immaginare di essere chissà dove, sorvolando chissà quale posto incantato. Evocativo, il termine giusto (soprattutto per un pezzo come Spectacle, che in alcuni tratti fonde i Radiohead di “OK Computer” alle atmosfere di “Animals”, di quei bravi ragazzi di Waters & co. che ho già citato prima). Sono anche i titoli a farti capire che si cerca una certa comunicatività, come Pale Purple Sky, e la successiva, in ordine, Motion Reprise, un viaggio noise senza pretese. Si ritorna sulle frequenze radio (se qualcuno ha visto I Love Radio Rock) con Cold Shiver, apprezzabile in particolare per l’inserimento, tanto azzeccato quanto inaspettato, di un vortice di archi e suoni sintetizzati dalle arie piuttosto “classicheggianti”, e controtempi di batteria praticamente irriproducibili. Ed è musica da sonorizzazione di film muto in Little Island, un elemento su cui spero questo artista si voglia cimentare in futuro perché ha potenzialità per creare accompagnamenti davvero degni a scene di inimmaginabile teatralità (l’LSD non serve quando circola questa roba, sul serio).
Un album davvero caleidoscopico, quasi un’opera dimostrativa di come la cultura musicale ti possa portare, anche con poca esperienza (senza sminuire il buon Carlo), a produrre dei gioielli di raro splendore, ed il valore artistico di questo disco, già riconosciuto da recensori ed ascoltatori un po’ ovunque, dovrebbe avere la possibilità di viaggiare oltre i meandri di internet. Ma si sa, dissotterrare la musica migliore dalla fossa in cui l’hanno conficcata i discografici del 2000 è impresa da pochi. Ma per Barbagallo, ci metterei la firma. Ascoltatelo, ne vale veramente la pena.

Voto: 9

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