venerdì 28 dicembre 2018

Stona - Storia di un Equilibrista (Volume!, 2018)

Guido Guglielminetti, in arte Stona, dà alle stampe questo "Storia di un Equilibrista" con un titolo in qualche modo indicativo del suo contenuto. Risulta proprio un equilibrista, un funambolo, l'artista che toccando varie sfaccettature della canzone d'autore riesce a mantenere un delicato bilanciamento tra qualità, originalità e sostanza. Se da un lato la genuinità può passare in secondo piano nei momenti in cui rimandi lirici e interpretativi ricordano questo o quel nome del nostro panorama musicale (Fossati, De Gregori, Tenco, Dalla), risuona invece di una fresca spontaneità il modo di parlare, con velata ma ficcante ironia, di tematiche come la nostra scena popolare ("Mannequin") e la sua personale visione della musica (la title-track). Di questi argomenti Guglielminetti può parlare con con sapienza ed esperienza, in quanto già impegnato con il precedentemente citato De Gregori come bassista e produttore, pienamente coinvolto in molti suoi lavori. Le scelte musicali non stupiscono così spesso, forse per essere un po' troppo altalenanti, ma i momenti che risultano di maggiore impatto sono quelli (rari) in cui si preme sull'acceleratore come "Streaming" (vagamente Subsonica, ma con un cuore depechemodiano) o in cui si strizza l'occhio prevalentemente al mercato radiofonico, come in "Nell'Armadio" e il suo meraviglioso ponte semantico tra un armadio disordinato e le nostre vite scompigliate e disperse in mille rivoli e interessi che non ci permettono di focalizzarci su un singolo obiettivo. E' evidente anche come la selezione di musicisti di grande valore (uno su tutti Elio Rivagli alle pelli) impreziosisca il risultato finale, che si poteva in realtà "spingere" un po' di più per dargli maggiore modernità ma anche colore e "forza d'urto", in virtù delle tantissime influenze che si è scelto di coinvolgere, dal jazz al funk passando per l'elettronica e ovviamente il pop autoriale italiano. 

Si potrebbe certo dire che l'eccesso di personalizzazione dei testi, quasi tutti filtrati da un intimismo vagamente ermetico, faccia apparire tutto rivolto a dare sempre il proprio punto di vista piuttosto che narrare qualcosa che possa appartenere alle masse. Di conseguenza, l'oscurità delle parole risulta forse opprimente ai primi ascolti, richiedendo un'indagine più approfondita per poterne attraversare il carapace. Se questo per qualcuno sarà un deterrente, potremmo invece sostenere che l'eleganza e la soggettività di cui tutto il lavoro è pervaso è proprio la cifra stilistica che andava ricercata e valorizzata, forse ancor più di quanto già non lo sia, perché centrale nella lettura del mondo artistico di Guido. 

The Lizards' Invasion - INdependence Time (Iohoo Records, 2018)

Ci sono voluti sette anni perché i vicentini The Lizards' Invasion giungessero alla pubblicazione del primo full-length, supportato anche da una campagna ben riuscita su Musicraiser, e così Restaino (voce), Mattiello (batteria), Adda e Mazzù (chitarre), Onestini (basso) e Guglielmi (tastiera) possono presentarsi con tutta la loro consapevolezza e maturità artistica già raggiunta negli anni della gavetta, tra contest e primi palchi, con questo "INdependence Time". Anche il titolo può sembrare una dichiarazione d'intenti, e si sposa bene sia come autoproclamazione di un'autonomia raggiunta a fatica, facendosi le ossa per anni, che come rampa di lancio per la narrazione di questo concept album utopico riguardante un mondo parallelo dove gli esseri viventi non sono in grado di provare sensazioni negative, sgradevoli, spiacevoli, ma sono caratterizzati da un animo buono, gentile e sempre rivolto al bene. 
Il linguaggio matrice è quello del prog, probabile contesto formativo di più di qualche membro della band, mentre tutta una serie di altri riferimenti ed influenze trovano spazio rendendo il tutto estremamente, forse troppo, vario. Sentiamo Banco del Mutuo Soccorso e PFM in più momenti, in particolare nelle melodie di "INdestructible", anche se l'eccesso di epica la fa sembrare più la colonna sonora di un b-movie wannabe kolossal di Michael Bay coi robottoni che si sparano e contemporaneamente un gladiatore che festeggia lo squartamento di un leone nel tripudio della folla. La voce qui ricorda più i momenti epici degli Iron Maiden con Bruce Dickinson (qualcuno ha detto "Alexander the Great"?). "INvasion" alterna arpeggi quasi Coldplay a un cantato sempre maideniano,  altre volte più vicino al Bono Vox degli esordi o a Steven Tyler. "INsider" in qualche modo erige un ponte tra "Mama Said" dei Metallica, i Dreamtheater più melodici dei primi dischi e l'indie inglese moderno. Non uno dei migliori momenti, anche se uno dei più originali. 

Quello che risalta di questo lavoro è la sua coerenza al netto di riferimenti molto vari e ampi, ottenuta principalmente per scelte sonore e una voce sempre sul pezzo. Laddove può risultare pesante, viene alleggerito appunto da un'interpretazione accorata e che evidentemente "crede" molto nelle parole, per questo motivo riuscendo a veicolare molto bene il messaggio. Negli Stati Uniti forse sarebbe passato inosservato, ma qui da noi c'è margine per lasciare il segno, anche se personalmente avrei privilegiato la lingua italiana.
Un bel lavoro, da smussare solo in alcuni punti di eccesso di magniloquenza quasi barocca, ma che si fregia di un'identità forte e un sound fresco. 

mercoledì 26 dicembre 2018

Zuin - Per Tutti Questi Anni (Volume!, 2018)

Ed ecco il debutto per il cantautore desiano Massimo Zuin, che insieme a Matteo Consonni (Batteria) e Claudio Cupelli (chitarra) forma il progetto denominato Zuin, che io personalmente avevo conosciuto sul palco del Primo Maggio di Roma. Giunto ai primi trent'anni, Massimo vuole dire la sua su quanto ha vissuto, visto e conosciuto, filtrato da un linguaggio semplice che vuole dichiaratamente raggiungere un pubblico più ampio possibile, senza un ermetismo che a ben sentire le sue parole forse non sarebbe nemmeno pane per i suoi denti. Quando parla di relazioni interpersonali, come in "Caro Amico (Ti Sfido)", "Monza-Saronno" e "Sottopelle", la visione è sempre cinica e pessimistica, ma è ben chiaro che tutto questo deriva genuinamente da un vissuto, e non da un'invenzione lirica, con sensazioni nostalgiche e malinconiche però in un certo senso reazionarie nei confronti di quella mestizia suscitata dai ricordi. L'uomo sa costruire tanto quanto sa distruggere, e lo sentiamo in "Il Profumo di un Albero", sottilmente venata da un buonismo ambientalista che comunque si può tollerare grazie ad una scelta accurata dei termini, e in "Credimi", dove si affronta il tema del divorzio. 
Musicalmente funziona molto bene la fusione di musica folk, rock, pop, cantautorato, confezionando il tutto in maniera elegante quanto basta a non eccedere in eterogeneità e contemporaneamente a rimanere sempre in territori "radiofonici". 

Tra rimandi cinematografici e di cultura popolare, un'ottima conoscenza della lingua italiana tale da alleggerire il tutto evitando ampollosità e monotonia e l'essersi avvalso di musicisti eccellenti, "Per Tutti Questi Anni" vince una competizione molto difficile in un anno in cui tantissimi lavori cantautorali non hanno saputo andare a fondo e regalare tanta spontaneità, personalità e profondità in un'ottica easy-listening, mai pesante né opprimente. Complimenti a Massimo. 

lunedì 24 dicembre 2018

Municipale Balcanica - Night Ride (Red Tomato Records, 2018)

La musica, per così dire, "balcanica" ha preso negli anni diverse strade, contaminandosi più o meno in ordine cronologico con i folklori locali di ex Jugoslavia, Grecia e paesi ispanici, lo ska, il punk, il rockabilly, in ultima battuta anche con la dancehall e la disco, più qualche sporadica trashata da tormentone che pensa anche all'house e all'elettronica commerciale. 
La Municipale Balcanica è uno degli ensemble più rappresentativi del genere nel nostro Paese già da quindici anni, e pur avendo scelto un campo chiuso, uguale a sé stesso da sempre, pienamente riconoscibile anche quando tenta in tutti i modi di evolvere, sono sempre stati in grado di dare l'idea di mettersi in discussione, cambiando riferimenti musicali - che sicuramente non sono solo musica balcanica, come invece per molti altri - e sonorità. Con questo Night Ride provano infatti a ribaltare di nuovo il tavolo e a mettersi dalla parte di chi vuole, anche per età anagrafica, comparire tra i capostipiti e tra i nomi fondamentali di questo filone, gettonato - va detto - principalmente come motore di spettacoli dal vivo molto divertenti e coinvolgenti, in qualche modo come il folk irlandese. Ecco che compaiono prepotenti tutte le esperienze formative obbligate per noi italiani, dove la canzone d'autore è elemento ricorrente così come i singoloni da storia del pop che in un karaoke chiunque di noi, anche il più accanito dei metallari, saprebbe cantare anche senza testo (tipo "Si Può Dare di Più", "Mare Mare" o "Il Battito Animale" per intenderci), che sentiamo, rimanendo a parlare della band di "Foua" e "Road to Damascus", in particolar modo in "Ogni Stella", mentre i riferimenti cantautorali itpop più moderni, quasi da Calcutta, li sentiamo più in "Deserto non Deserto". Dove molti pezzi sono per necessità uguali a sé stessi in un loop eterno come da elemento cardine di questo linguaggio, stupiscono invece gli inserimenti da colonna sonora, come quelli che sentiamo nella morriconiana "Polvo y Suenos", con qualche inserto vagamente western, o negli echi di Tarantino, che comunque sono sempre filtrati dall'evidente background rock dei musicisti, e che fanno capolino in maniera impertinente in "Kiss Slow, Kill Fast". 

Non posso celare ulteriormente il mio disamore per certi generi più "da sagra", come anche la musica celtica, lo ska e in qualche modo il reggae. Tuttavia, la recensione serve a dire se questo disco, nel suo ambito, trova un senso e una collocazione. Sicuramente "Night Ride" spicca per la versatilità dei suoi autori e interpreti, anche in termini di scelte sonore, per l'esplorazione di codici non antitetici ma tangenti alla stella guida del balkan, che infatti si sposano bene tra di loro, finendo per farmi tollerare nello stesso disco influssi arabi, spagnoli, klezmer, dal Sud Italia e da tantissimi altri posti, con una coerenza davvero degna di nota. 
Indubbiamente, per fruire al meglio questo disco occorre sentirlo in un centro sociale, in un festival, in una festa della birra, dove vi auguriamo di passare una bella serata di danze (e alcol) con la Municipale Balcanica.

sabato 22 dicembre 2018

Marco Negri - Il Mondo Secondo Marco (Marco Negri, 2018)

Marco Negri è un cantautore mantovano, pronto a esordire sulla scena con questo suo "Il Mondo Secondo Marco" che già dal titolo appare come un'indicazione di quanto la musica per lui sia racconto, opinione, urgenza comunicativa. Nello scorrimento del disco, all'ascolto, notiamo un primo grande punto interrogativo, riferito all'eterogeneità del tutto: in pochissimi minuti sentiamo influenze britanniche (Oasis, Blur, Manic Street Preachers, Joy Division, ma anche Rolling Stones), americane, sia nel punk che nel pop, (Ramones, Blink 182, forse pure i Pearl Jam), passando per le testimonianze che il movimento grunge post-Seattle ha lasciato in Italia (Afterhours, Marlene Kuntz, Ritmo Tribale, Estra) e l'elettronica primordiale di Kraftwerk, the Human League e i numi tutelari da cui questi primi esempi ormai preistorici di synth-pop hanno ricevuto tanta linfa vitale, come ad esempio i Roxy Music. Se poi ci soffermiamo ad analizzare anche la tradizione cantautorale italiana, i cenni reggae, il blues, possiamo tranquillamente dire che c'è di tutto, come a voler fare con la propria musica anche una rassegna complessiva dei propri ascolti. 
In merito, dicevo "punto interrogativo" perché per dare corpo e coesione ad un lavoro così composito bisogna investire tutto sui testi. Parlare di sé stessi è da sempre un'arma a doppio taglio, perché si può essere spontanei e genuini, veri, ma anche non essere compresi. In questo caso, l'uso di un linguaggio semplice e puntuale - nel senso che non si presta a interpretazioni del singolo, risultando chiaro a tutti fin dal primo approccio con i pezzi - regala alle canzoni, tendenzialmente, una maggiore digeribilità, mentre dall'altro non va oltre l'autobiografia rivissuta tramite diversi momenti, dalle difficoltà economiche, gli amori, gli errori del passato su cui riflettere, il sempreverde tema del rapporto padre-figlio. Per creare empatia con una narrazione di questo tipo, occorre quantomeno aver vissuto sensazioni e situazioni simili, e questo sicuramente sarà per molti un elemento di identificazione nel progetto di Negri. 
Gli arrangiamenti molto, troppo, vari sono comunque abbastanza ben fatti, e i suoni opportunamente missati e masterizzati, dando alle parole una cornice di classe e di pregio. Si poteva forse spingere un po' di più, ma schiacciare i suoni in questo modo è essenziale quando si ha la necessità di lasciare spazio alle parole, scelta che condivido. 

L'impressione generale è che Il Mondo Secondo Marco sia grigio interiormente e troppo variopinto esternamente, in questo senso perdendo in coerenza. Il disco scorre comunque in maniera fluida e non risulta pesante. Per questo motivo può in qualche modo cogliere nel segno per chi intende divertirsi con la scoperta di un nuovo lavoro musicale, meno in chi è alla ricerca di qualcosa di innovativo, 

lunedì 17 dicembre 2018

Andrea Gioè - L'Ottimista! (2018)

Discutevo proprio oggi con un amico con cui mi piace dibattere di musica, uno dei pochi tra l'altro, cercando di capire chi sia effettivamente un "cantautore". Il termine in origine designava semplicemente chi cantava e scriveva la canzone, diversamente da quanto faceva l'interprete, e non era un vocabolo indicativo di un genere preciso. Il tempo ha però storicizzato alcuni nomi (De André su tutti), rendendo più selettivi i filtri di chi doveva pescare nel calderone per recuperare un nome degno di questa etichetta. Oggi ci troviamo a chiederci chi lo sia, con alle spalle grandi nomi "intoccabili" e di fronte i Calcutta, i Tommaso Paradiso, i Dente, tra i mal di pancia da social di chi non vuole proprio saperne di metterli nello stesso contenitore logico di Rino Gaetano, Lucio Dalla e Luigi Tenco. In linea di massima, ritengo sia un "cantautore" chi scrive e interpreta il pezzo in maniera personale, non - ad esempio - inventandosi di venire dalla strada, né di avere patito chissà quali mitologiche pene d'amore o avventure cavalleresche per conquistare la bella Angelica, piuttosto mettendoci la propria vita, il proprio vissuto, le proprie impressioni, emozioni, opinioni su un fatto storico, un movimento artistico, un'ideale politico, al netto di licenze poetiche, metriche e lessicali che se fatte con gusto possono aiutare al risultato (o uccidere). Potrebbe essere un cantautore dunque Luca Carboni, magari tanto quanto Sfera Ebbasta, se diamo per vere le cose che dice, al di là della qualità, dei gusti, delle mode. Finito questo preambolo, è ora di investire un po' di tempo a parlare di questo "L'Ottimista", fuori da tre mesi per l'etichetta Pirames International.
Come da mio personale pronostico, Andrea Gioè, in questo disco, mette tutta la sua autoanalisi, con un appeal notevole se si pensa al livello della scrittura, alla varietà delle immagini evocate, all'eterogeneità degli arrangiamenti non da vivere come un difetto, semmai come un elemento di esaltazione della sua versatilità vocale. Divertenti ballad uptempo quasi à la Bruno Mars vanno a braccetto con un animo rock dalle striature punk, tra i Sex Pistols e le scelte sonore degli anni novanta di Vasco Rossi (quello di Nessun Pericolo...Per Te, per intenderci), con il cuore rivolto alla tradizione melodica d'autore italiana e la testa concentrata sui grandi nomi che non possono mancare nella formazione di un musicista moderno (Pink Floyd, Genesis, Eric Clapton, Beatles, ecc). 
E' un disco che racconta quindi tutto l'universo musicale dell'artista palermitano, e tutta la sua vita, il modo di affrontare le avversità, resistendovi e mai cedendovi, gli alti e i bassi, il ritiro quasi eremitico nei Pirenei, la reazione spontanea e ficcante alle notizie di cronaca del tg quotidiano (in questo caso riferite ai casi della Gambirasio e della Scazzi), con l'ottimismo razionale a fare da argine, da soluzione, da antidepressivo naturale. Lungo tutta la durata di questo lavoro sentiamo spontaneità e genuinità, anche laddove qualche passaggio musicale può lasciare a desiderare, se non altro per la fragilità di alcune "esplosioni" che avrebbero meritato un boost maggiore in termini di post-produzione. 
Se devo dirla tutta, questo genere di dischi può risultare molto pesante per chi non è abituato ad ascoltare la musica per le parole e la curiosità nell'immaginario personale degli artisti, ma non è quello il target e non vale nemmeno la pena soffermarsi su questo aspetto. 
E' voluta la scelta di non citare alcun titolo, insolita da parte mia. Di fatto, se dovessi scegliere forzatamente i migliori e i peggiori andrei al tilt, per dirla col linguaggio dei talent show, e non per non prendermi le mie responsabilità stile Fedez. Mi piace vedere - e descrivere - questo disco come una pangea, un monolite primordiale che può sprigionarsi in mille direzioni, e che conta come sua virtù cardinale proprio il fatto di funzionare come un'unità inscindibile, un blocco indeformabile, che va preso a scatola chiusa, senza selezionare. E' difficile, oggi che uno swipe ci sposta da un disco all'altro, ma vi invito a farlo. 

Nessun problema a dichiarare che di dischi così, nel genere, in Italia, e nel secondo semestre del 2018, non ne sono girati tanti. Andrea può e deve ancora crescere espressivamente, e stilisticamente, ma in questa ascesa a tappe la vetta non sembra più tanto distante, se non in termini di consensi ed esposizione mediatica quantomeno in vera e propria purezza del prodotto. Consigliato. 

martedì 6 novembre 2018

Ruggero dei Timidi - Giovani Emozioni (Self, 2018)

Ruggero dei Timidi presenta, con la sua consueta ironia, questo "Giovani Emozioni" come il disco della maturità, di nuovo un lavoro profondamente radicato nella musica italiana degli anni '70 e '80, che elogia a modo suo con dieci pezzi a essa ispirati, prendendo a riferimento nei titoli, nei contenuti, a volte nella forma espressiva, nomi del calibro di Francesco de Gregori ("Rimming"), senza mai canzonare né scimmiottare, conservando per tutta la durata del disco una certa riverenza nei loro riguardi. 
E' così che il crooner friulano declama il suo amore per la musica nostrana, mentre i decenni passano e rendono "Il Pescatore" di De André un classico, un brano ormai "tradizionale", che si può finalmente rivedere in una versione chiamata "Vibratore", liberamente ispirata, senza mancargli di rispetto né turbare gli animi dei sostenitori più accaniti. E quell'erotismo mascherato da poesia che abbiamo sentito in Mina, meno velato in Donatella Rettore e conclamato in Cristiano Malgioglio traspare da dietro la coltre da ballad canonica di "Mettimi un Cuscino in Faccia ma Amami",  o della più bizzarra "Mano Amante Mia", tema che non può che far sorridere un po' tutta la popolazione maschile. Gli arrangiamenti saltano di palo in frasca toccando il country, il rock, il pop, le ballad romantiche di origine folk, ma tutto con una confezione solida, esteticamente valida, moderna, in qualche modo a passo coi tempi, visto che siamo da quasi vent'anni nel periodo delle reunion, della nostalgia, del ritorno di qualche costume sorpassato da tempo. Citare Celentano, Vasco, Zucchero e mille altri nomi che hanno accompagnato la nostra formazione musicale - anche involontariamente - è il carico che chiude la partita. 

Supera così Ruggero la sfida di rinnovarsi, di non suonare sempre uguale, e anche di lasciar perdere i tentativi latinoamericani che un po' avevano spiazzato in precedenza. Un bellissimo lavoro dove il recupero delle nostre tradizioni si scopre essere rielaborazione, novità, in qualche caso allegria da taverna, e non mero passatismo transitorio. 

PS. La copertina è un'opera d'arte. 

mercoledì 24 ottobre 2018

Francesco Camin - Palindromi (Lady Lovely/Goodfellas, 2018)

La canzone d'autore di Francesco Camin riverbera timidi raggi di sole in questo 2018, una profusione di luce, di melodie, di colori che non solo non sentivamo da tempo, ma abbiamo anche sentito l'esigenza di ascoltare quando mancava. In "Palindromi" ci prova, con una scrittura vivace, ariosa e un lessico di livello medio (non troppo ampio, per intenderci, ma nemmeno da chiacchiera da bar), a trasformare tematiche che molti altri hanno trattato in maniera pesante ed oscura in qualcosa di leggero, gradevole, digeribile. 
E' salubre sentire musica così, sentire "Verde" e "Palindromi" celebrare la natura con gli occhi di un suo amante che ne ha fatto anche oggetto di studio, e "Tasche" elogiare prontamente i luoghi della propria privacy, dove analizzare il proprio io e nascondere per poi ritrovare i frammenti del proprio passato, quasi come nei Poemetti di Pascoli, ma con un linguaggio - logicamente - più moderno e adatto ai tempi. "Abisso" è tra i pochi momenti che risentono e gioiscono di maggiore inquietudine, facendo andare in solluchero in più di qualche istante, anche se l'apporto dei fiati è di difficile inquadramento. Non male, in ogni caso. "Dovrei" spicca invece per un passo più sostenuto, incalzante, battente, ed è proprio il divario con i tanti momenti più rilassati a donarle lustro. 
In linea di massima, l'interpretazione vocale e strumentale è sempre all'altezza, così come la produzione, con una riserva parziale su alcune scelte di mastering che in ogni caso non pregiudicano il risultato. Il prodotto del trentino, in sé, porta chiari e trionfali i segni dei suoi grandissimi pregi che vale la pena citare per concludere la recensione: 1) non scade mai nel banale, proponendo soluzioni a cui il nostro orecchio traviato dal pop e dal cantautorato contemporanei si era disabituato; 2) gode di una coerenza testuale, tematica, musicale, che in un'epoca dove essere eterogenei nei dischi fa sembrare artisti di spessore ha un po' ribaltato il concetto di concept, seppur questa attitudine origini da logiche prettamente discografiche; 3) non costringe noi recensori a fare gli ascolti successivi al primo, necessari per scrivere di un'opera artistica, con il rischio di stancarsi, come spesso accade, già a metà del secondo. E non è poco. 

martedì 18 settembre 2018

Fabio Curto - Rive Vol. 1 (Fonoprint, 2018)

Fabio Curto, sebbene il nome non dica niente ai più, presenta immediatamente un volto familiare. Da brevi ricerche, figura infatti il vincitore di The Voice of Italy 2015, kermesse televisiva nella quale Facchinetti aveva fatto "annusare" un sicuro successo al giovane. Come spesso accade, però, i talent show si trasformano in trappole, fucine di meteore che verranno ripescate solo per qualche siparietto iniziale nelle edizioni successive, o citate in qualche articolo che parla proprio di quanto i talent non funzionino. Ecco che Fabio scompare dal piccolo schermo e dalle radio di massa e ritorna oggi con questo "Rive Vol. 1", un lavoro che dimostra come la voglia di sfondare già messa sul piatto all'epoca sia ancora ardente, un fuoco che le delusioni della sovraesposizione televisiva non hanno spento. 

Dunque, cosa ci troviamo in questo disco? Blues, rock (Timoria?), cantautorato italiano (qualcuno ha detto Battisti?), pop, una serie di elementi forse banali e già sentiti, ma filtrati da una vocalità e degli arrangiamenti di tutto rispetto, che al limite meriterebbero un po' più di focus. Il punto debole del disco sono i suoni, non troppo moderni, ma neanche abbastanza nostalgici, che non riescono a risultare possenti quando serve, e neppure troppo delicati nei frangenti più intimistici. Il resto funziona a meraviglia, a partire dalle ballate "Neve al Sole" e "L'Airone", i due brani forse meglio scritti e che arrivano alla fine con più coerenza di scelte stilistiche e sonore, così come di certo non sfigura il singolo "Mi sento in orbita", catchy forse in maniera non totalmente intenzionale, ma ineccepibile nel mettere nero su bianco quanto una certa scrittura sia in grado di superare le barriere dell'orecchiabilità e arrivare all'ascoltatore anche senza scadere forzatamente negli stereotipi del Ligabue di turno. La più movimentata, in qualche modo anche la più accorata a livello interpretativo, è sicuramente "Un'ora fa", un treno in corsa ma con un'intensità ben graduata, mai troppo veemente né ruvida. E' qui che le influenze blues trovano la loro migliore espressione. Il resto del disco viaggia su livelli simili, e raggiunge picchi di sofferenza notevoli, come in "Fragile", dove il tema dell'esclusione sociale viene trattato come solo chi viene da una delle regioni più sfortunate del Belpaese, la Calabria, può saper fare e tradurre in musica.

La prima impressione, non musicale ma contestuale all'artista, è che non aver potuto proseguire un percorso mainstream contaminato da scelte discografiche pilotate come per altri vincitori di talent lo abbia aiutato a focalizzare l'attenzione sulle giuste dinamiche compositive, scegliendo un sentiero che lo condurrà con tutta probabilità a dare alle stampe dischi di ancora maggior caratura in futuro. Un vero gioiellino, con pochissimi punti criticabili. Congratulazioni. 

domenica 16 settembre 2018

RadioLondra - Slurp (MM2, 2018)

Francesco Picciano, Carlo Rinaldini e Filippo Zoffoli sono i RadioLondra, e con il loro "Slurp" sparano in faccia all'ascoltatore tutto il loro livore comunicativo, in un progetto soft, raffinato, che investe sul contenuto e sulla qualità dei suoni in pari quantità, per arrivare nel migliore dei modi. La prima impressione, a fine ascolto, è che i tre abbiano gioco facile a riversare tutte le loro influenze in maniera tangibile, non omogeneizzandole troppo perché siano lì, leggibili a tutti. Di per sé, rendere evidenti i rimandi a Max Gazzè, Baustelle, Brunori SasThegiornalisti (o forse facendo uno step ulteriore, Antonello Venditti) e perché no Jovanotti, Max Pezzali e Cesare Cremonini, può sembrare un azzardo e un comportamento che tipicamente noi recensori inquadriamo in maniera negativa per partito preso. In questo caso, non si parla mai di imitazione, ma di rielaborazione, come se tutti gli ascolti fossero frullati e sistemati nel modo giusto, in parti uguali. Certo è che la differenza la fa l'originalità, e quando sentiamo il modo di scrivere e le scelte di arrangiamento presenti in "Sulla Luna" e "Quanto Sei Abbronzata" ci rendiamo conto che i tre sono sulla strada giusta per perfezionare tutti questi linguaggi e restituire, al prossimo giro, la loro vera identità. 
Sicuramente, il punto di forza sono le liriche, e questo continuo viaggio nel passato e nelle cose che dovremo imparare a dimenticare, o a ricordare in maniera selettiva e distaccata dal piano emotivo, lungo un disco, ha tutto il tempo di sedimentarsi nell'interlocutore - il pubblico - che inevitabilmente sviluppa intimità e coinvolgimento, un qualcosa che accade solo quando chi scrive ha una connessione personale profonda con ciò che scrive. 
L'incipit di qualcosa di grande, apportando gli opportuni aggiustamenti. Avanti così. 

venerdì 24 agosto 2018

Horus Black - Simply (Sonic Factory, 2018)

Horus Black, all'anagrafe Riccardo Sechi, è un ragazzo giovanissimo, genovese, figlio di musicisti con una solida formazione musicale, e debutta con questo "Simply" per Sonic Factory portando tutto il suo mondo all'attenzione degli ascoltatori, senza fare nulla per venire incontro ai gusti pop del momento. Ciò non significa, chiaramente, che il lavoro in questione non sia di estrazione popolare: sentiamo infatti riferimenti netti a Elvis Presley e Frank Sinatra, facendo pensare immediatamente ad un wannabe Michael Bublé del Belpaese, una scelta stilistica certamente in linea con il mercato che ha visto vincere l'ultima edizione di X Factor un certo Lorenzo Licitra. Queste influenze sono però quelle più ovvie, vista la vocalità, e anche le meno riuscite. Per trovare i momenti migliori del disco bisogna infatti attendere le incursioni elettroniche, ben stratificate e omogeneizzate con orchestrazioni di grande livello ("Miss Candy") e la conclusiva "We Can't Go On This Way", un salto ai tempi degli esordi di Joy Division, New Order, Depeche Mode con un'estetica punk ma un'anima folk, risultando nel frangente più originale di tutto il disco. Funzionano poco alcune scelte di suoni che sembrano cozzare tra la volontà di fare un tributo a certi generi del passato e quella di mantenere un profilo attuale, tuttavia risollevando il risultato - spesso - grazie a buone esecuzioni strumentali e vocali nonché arrangiamenti ben costruiti e perlopiù sensati. 
A livello estetico, la copertina rispecchia il contenuto, ma si scontra, come detto poco fa, con alcune scelte più moderne. E' troppo suggerire di vestirsi in maniera più in, più 2018, pur mantenendo questi suoni? Sarebbe la prima volta che un'anima crooner si rende non solo orecchiabile ma anche più al passo coi tempi rispetto al solito completino serioso da concerto nei casinò di Las Vegas o da Mario Biondi. Detto questo, la copertina è inguardabile, antistorica, un vero e proprio passo falso e ciò va detto. 

Per concludere, non manca certo di carattere questo ragazzo, e un esordio del genere pone senz'altro le fondamenta per qualcosa di più grande e strutturato. Si legga ogni critica come un consiglio per migliorarsi, perché proseguendo su questa strada con un piglio più deciso e personale si potrebbe tranquillamente trasformare un progetto di nicchia, semisconosciuto, in un nome da riempirci gli stadi. Basta fare i passi giusti. 

sabato 4 agosto 2018

Francess - Submerge (Sonic Factory, 2018)

Torniamo con questo articolo ad affrontare la musica di Francess, giovane italo-giamaicana non alle prime armi nel mondo della discografia, distintasi con "A Bit of Italiano" per un grazioso tentativo di rendere in inglese alcuni classici italiani snaturandoli anche dal punto di vista musicale in funzione di una fusione di culture ben confezionata. Lo stesso multiculturalismo fresco e spontaneo, sebbene non più così stupefacente vista l'evoluzione sonora anche nel pop degli ultimi due anni, lo riscontriamo in "Submerge", dove non manca neppure un plurilinguismo ben piazzato.
I registri entro cui si muove la voce di Francess sono principalmente il blues e il soul, filtrati da un'evidente conoscenza della musica popolare contemporanea, riuscendo in splendide incursioni nel r'n'b americano senza perdere quel filtro pulp dato dalle sue influenze più palpabili (la sua magistrale interpretazione in "Follow Me" e "Ivory" può venire solo da chi ha ascoltato le regine del soul). Quando compare l'elettronica anni ottanta, con suoni industrial di matrice tedesca, si realizzano i momenti migliori ma la voce sembra meno a fuoco. Gli arrangiamenti mancano di coesione, ma questo appare voluto, e nell'ascolto complessivamente incide poco, soprattutto se valutiamo la maturità con cui tutto è stato assemblato per non lasciare mai momenti deboli e avere un disco compatto, totalmente digeribile. Valida anche la cover di "The Man I Love", brano di Gershwin celebre per la versione di Billie Holiday.
Ciò che manca a questo lavoro è forse solo un vero singolo, qualcosa che la gente si ricordi per tutta la vita, sfiancando l'artista ad ogni live perché il pezzo venga suonato. A vita. A Francess manca una hit. Per il resto, un buon lavoro.    

sabato 23 giugno 2018

Rita Zingariello - Il Canto dell'Ape (Volume!, 2018)

A volte il mondo della discografia indipendente risulta ridondante, saturo di proposte tutte identiche, generalmente poco a fuoco. Troppi i dischi che parlano di impegno politico senza le capacità liriche e analitiche necessarie, troppi i dischi che ancora riformulano hard rock e grunge nello stesso modo di sempre, oltremodo esagerato il numero degli imitatori di Bob Dylan che pensano che nominare la Route 66 e Kerouac faccia ancora figo. Rita Zingariello, in totale dissociazione dai tanti artisti mediocri recensiti su queste pagine di recente, presenta una raffinatezza squisita quanto sofisticata, data da una sapiente integrazione tra un sound pop moderno e radiofonico, e le prepotenti contestualizzazioni indie che sono comunque sempre più preponderanti nella nostra produzione nazionale, sia underground che overground
Il termine che più descrive questo "Il Canto dell'Ape" è "delicato": si parla anche di coffee shop olandesi in "Amsterdam" ma con un romanticismo leggiadro e ispirato, così come quel controerotismo soffuso di "Preferisco l'Inverno", che nel messaggio non-convenzionale di preferenza del freddo rispetto alla calura estiva, sovverte un concetto che indiscutibilmente ha stancato, tanto forti e ripetitive sono state le sue riproposizioni dentro e fuori i tormentoni estivi (facendolo però, con sprazzi di flamenco che suonano tanto forzati quanto riusciti, un generoso plus ad uno dei pezzi più riusciti). 
Quando compaiono jazz, musica latina, western, accenni di folk italiano, Rita esprime meglio la sua voce, ed è il caso delle interconnessioni reggae di "Simili e Contrari" o delle incursioni intimiste quasi ermetiche della conclusiva "Risalire", con la sola Zingariello al Rhodes. Il finale di "Ribes Nero", invece, con quei cori quasi spiritual / gospel può cogliere di sorpresa, spiazzare, colpire, ma a ripetuti ascolti non lascia compiutamente un segno, andando a rammollire il pezzo. 

Solitamente sono i dischi più evidentemente "personali" ad assumere quel valore aggiunto di cui abbisognano per uscire dalla palude del già sentito, quando l'artista produce arte nel verso senso della parola, confrontando la realtà che lo attornia con il suo lato privato. Rita sa come scrivere, sa cantare, sa interpretare, e avvalendosi di ottimi musicisti e arrangiatori produce una piccola perla di cui nel duemiladiciotto stantìo di cui sopra sentivamo l'esigenza. 

domenica 10 giugno 2018

Riccardo Maffoni - Faccia (La Pare Music, 2018)

A dieci anni dal precedente "Ho Preso Uno Spavento", ritorna sulle scene italiane il bresciano Riccardo Maffoni, mettendoci la proverbiale "Faccia" per riuscire a rimanere in equilibrio tra coerenza e novità, riuscendo contemporaneamente ad accontentare chi già lo conosceva e a raggiungere certamente più di qualche nuovo proselita. Le influenze sono molto variegate, e questo aiuta ad identificare l'ampiezza del pubblico che si desidera agganciare, o forse solamente i tanti ascolti dell'autore: rock, blues, la combinazione springsteeniana dei due ("Cambiare...") musica popolare italiana, country, beat elettronici ("Mi Manchi di Più"), momenti di follia psichedelica, una linea che zigzagando tra tutta la nostra storia recente congiunge Adriano Celentano e i Subsonica, sbattendo a tutte le curve quando si sofferma ad elogiare/imitare Ligabue, Vasco, il primo Grignani. I contenuti sono ormai uno standard in qualsiasi nuova pubblicazione: impegno sociale, amore ("Le Ragazze Sono Andate" la più originale in questo contesto), autoanalisi, disillusione. Il modo in cui si affrontano gli argomenti, ormai, qui, è sempre lo stesso, e non merita particolare approfondimento neanche in questo caso. ù
Musicalmente, tutti fanno il loro lavoro, ma nessuno spicca. E' come se stessimo ascoltando in loop uno dei qualsiasi dischi rock fotocopia che sono seguiti a "Buon Compleanno Elvis" e "Nessun Pericolo per Te", quando gli anni '90 hanno fatto schiantare nel mare della banalità l'aliante dei Litfiba, che pure qui si sentono.
In sintesi, Maffoni è bravissimo a inserire tutto sé stesso in un lavoro a lungo atteso, ma non si percepisce quell'autenticità che forse ci si aspetterebbe a dieci anni dal precedente disco. 

mercoledì 23 maggio 2018

Inschemical - Inschemical (B Music Records, 2018)

La nostra patria è da sempre percorsa in lungo e in largo da un gomitolo fittissimo di rock band pregne di significato, di stimoli, di sensazioni diverse. Bravissimi nel fare nostro quello che viene da oltremanica e oltreoceano, consapevoli che non siamo allo stesso livello, abbiamo sempre puntato sul contenuto, rendendo originali solo in questo modo progetti come Timoria, Ritmo Tribale, Marlene Kuntz, Afterhours, i Litfiba prima de "Il Mio Corpo Che Cambia", che sono riusciti a fare la storia grazie al trasferimento ineccepibile di concetti e vibrazioni sentimentali. Gli Inschemical all'esordio dimostrano di avere imparato molto bene questa lezione, e si presentano srotolando sul tavolo un progetto intenso, dove ottimi strumentisti non nascondono le proprie influenze (le band citate sopra + qualcosa di leggermente più attuale, ad esempio Negrita, Il Teatro degli Orrori) e le parole scovano tragitti non nuovi ma in ogni caso rilevanti, come Giuseppe Impastato ("Controinformazione") e la guerra vista da entrambe le parti ("La Spirale senza Fine"), addentrandosi invece in terreni meno comuni con la bellissima "Un Nuovo Inizio", che analizza la vita difficile dei padri single. Un ottimo uso delle parole, con solo qualche barlume di banalità che forse meritava un'ulteriore attenzione. 
Musicalmente, non c'è dubbio, la band è ancora acerba, le soluzioni odorano largamente di già sentito, le influenze sono troppo eterogenee, le strutture ovvie.  Il songwriting ne risente in maniera più grave, perché i singoli musicisti dimostrano di avere già le carte in mano per suonare alla perfezione, probabilmente anche dal vivo, e con queste premesse basterà poco per farlo notare anche alla critica. La produzione è pregevole, riesce a far pompare anche i pezzi più debolucci (quelli verso la fine), ma in generale il sound è da affinare, per non farlo risultare né troppo pop (come appare ora), né svogliato. 
La Calabria ha dato i natali a poche band di grande successo e speriamo che gli Inschemical trovino la formula per essere tra i primi, visto che la grinta c'è e il messaggio pure: un po' di studio e il prossimo disco sarà la svolta. 

venerdì 18 maggio 2018

Furia - Cantastorie (Real Music/Keep Hold, 2018)

Tania Furia, cantautrice milanese al suo esordio con questo "Cantastorie", ha un suo personale quadro della situazione sociale ben chiaro in mente, un'analisi che ondeggia tra un'amara presa di coscienza della realtà, la disillusione continua dei nostri tempi e la sempre ineccepibile e riconoscibile forza tipica di una femminilità prudente ma sfacciata. Il concetto arriva non in maniera veemente, ma dolce, pur veicolando un contenuto scuro, ostico, talvolta brutale. Si denuncia il maschilismo possessivo in "Tu Sei Mio", lo si riprende in una virata strappalacrime à la Barbara d'Urso di domenica pomeriggio con la tragica storia di Sara Di Pietrantonio ("Manchi"), assassinata dal fidanzato, si esamina il confronto e il rapporto transgenerazionale in "Troppo Facile", ma si approda sfrontatamente anche dalle parti della politica, salutando nostalgicamente il compianto Marco Pannella in "Pa Paya Ya - Ya (Ciao Marco)" e riprendendo un femminismo più sessantottino in"Ce La Invidiano Tutti". 
Uscendo dall'impianto tematico, recuperiamo un certo sprone all'ascolto grazie ad un set di stimoli musicali ben preciso, che si abbevera di elettronica, di blues, di cantautorato anni settanta. Tra i migliori brani spicca "Robot", un chiaro tributo ai migliori Kraftwerk diventati seminali contaminando nomi come gli Orchestral Manoeuvres in the Dark e i The Human League, che pure sentiamo nei momenti più sintetici di questo lavoro di Furia. La discesa nei toni più intimi e discreti avviene nella sua forma più smagliante con l'arrangiamento e l'interpretazione impeccabili di "Giulietta", mentre suona di pregevole fattura nonostante possa nel complesso risultare frutto di un'aggiunta posticcia l'energetica "Prendi Tutto".

Di cose se ne potrebbero aggiungere tante, richiamando citazioni, ispirazioni, contesti che hanno condizionato la stesura di quest'opera. Tuttavia, si può tagliare corto dicendo che come molteplici dischi del nostro passato recente, sempre più frequentemente spinti solo grazie alla disponibilità economica, "Cantastorie" non spicca per nessun elemento in particolare, risultando quantomeno simile a moltissime altre pubblicazioni recenti. Un contesto di musica d'autore imbastardata con tutto e niente che non lascia intravedere né un'appartenenza ad un filone, né lo sbocciare di una nuova gemma che brilli per originalità e proprietà individuali. Nonostante tutto questo, Furia ha grinta, scrive bene, interpreta ancora meglio, e probabilmente con le prossime uscite darà prova di quella grande maturità già percepibile a distanza. 

venerdì 27 aprile 2018

Yes - Fly From Here - Return Trip (Yes '97 LLC, 2018)

Cosa avrebbero detto i vari gruppi punk usciti a fine anni 70 se avessero saputo che la seconda decade del XXI secolo sarebbe stata dedicata soprattutto alle celebrazioni del cinquantennale (mezzo secolo!) dalla nascita di molti di quei complessi che loro stessi quarant'anni fa consideravano dei "dinosauri"? Comunque la si pensi a riguardo, va detto che spesso è un miracolo che alcuni di questi siano riusciti a durare così tanto tempo. Gli Yes sono sicuramente l'esempio maggiore: una band che ha scritto alcune delle pagine più belle della storia del rock ma che, allo stesso tempo, è stata una grande ed enorme famiglia disfunzionale composta da vari cugini, zii e parenti che non si sopportano tra di loro e che, a rotazione, passano da prendersi a pugnalate alle spalle a ricongiungersi e, dopo qualche anno, ricominciare a prendersi a pugnalate. 

Le vicende che ruotano intorno alla realizzazione del loro ventesimo album in studio "Fly From Here", pubblicato nel Giugno 2011, riassumono piuttosto bene le politiche interne del gruppo. Nel 2008, Jon Anderson, lo storico cantante del gruppo e, secondo non pochi, uno dei marchi di fabbrica del sound degli Yes ebbe diversi problemi respiratori alla vigilia di un tour, il primo dopo quattro anni di inattività, rischiando la vita e venendo costretto a prendersi almeno sei mesi di pausa. Assolutamente non intenzionati ad annullare un tour per una bazzecola del genere, i suoi illustri colleghi Steve Howe (chitarra), Chris Squire (basso), Alan White (batteria) e Oliver Wakeman (tastiere), figlio del grande Rick Wakeman, il tastierista più famoso degli Yes, decisero di procedere comunque reclutando un cantante che potesse ricoprire meglio possibile il ruolo del frontman e che, per giunta, conoscesse pure bene il repertorio. Quale miglior metodo di ricerca se non all'interno delle cover band? La scelta cadde sul Canadese Benoît David, un giovanotto dalla timbrica vocale molto simile a quella di Anderson che da anni militava nella cover band Close to the Edge. Durante questo periodo, decisero che David sarebbe stato in tutto e per tutto il sostituto di Anderson, al quale venne dato il benservito a mezzo stampa dopo anni di onorata carriera. Come comprensibile, la cosa ebbe effetti negativi (l'ira di Jon Anderson si accomunò a quella di molti fan della prima ora che rifiutavano a priori qualsiasi versione degli Yes non lo comprendesse) ma anche positivi: la presenza di un cantante che da anni faceva parte di una cover band aveva consentito al gruppo di inserire alcuni pezzi rari e poco suonati dal vivo in scaletta e l'assenza di Jon Anderson finalmente dava carta bianca agli Yes di eseguire dal vivo dopo 29 anni i brani tratti da "Drama", il loro decimo album in studio pubblicato nell'Agosto 1980, passato alla storia per essere stato l'unico prima di allora a non contenere Anderson come cantante, col tempo diventato un disco di culto presso i fan più accaniti. Al termine del tour, gli Yes, rinvigoriti, decisero di andare in studio di registrazione per la prima volta in dieci anni, e di chiamare come produttore Trevor Horn: colui che aveva preso il posto di Anderson per "Drama" e che, poco dopo, si era ritirato dal suo ruolo di cantante per intraprendere una validissima carriera nel mondo della produzione. Horn era intenzionato a riprendere in mano alcuni brani che erano stati composti per un mai realizzato sequel di "Drama". Questo, ovviamente, significava una sola cosa: alle tastiere doveva esserci Geoff Downes, co-autore di quei pezzi e membro della line-up di "Drama", oltre che, assieme a Horn, parte del duo new wave The Buggles, autori della celeberrima "Video Killed the Radio Star". Così, dopo alcune session preliminari, il povero Oliver Wakeman venne cacciato, Downes, che suonava negli Asia assieme ad Howe, tornò al suo posto dopo 31 anni e l'album che ne risultò, "Fly from Here" diventò un quasi sequel di "Drama" con un cantante diverso. Il prodotto finale, nonostante tutto, riuscì piuttosto bene e potete leggere una recensione risalente a pochi giorni dalla sua uscita proprio su questo blog, ad opera dell'ottimo Donald McHeyre.

Siamo nel 2018 e sono passati solo sette anni da allora ma all'interno della famiglia Yes sono cambiate moltissime cose. Per uno stranissimo fatto del destino, anche Benoît David subito dopo il tour di "Fly From Here" si beccò una malattia respiratoria, con le stesse identiche conseguenze: venne licenziato a mezzo stampa e sostituito da un ancora più giovane cantante, Jon Davison, che tutt'ora milita nella formazione, perlomeno fino a quando non rimarrà indisposto anche lui. Questa line-up, nel 2014, ha inciso un album intitolato "Heaven & Earth" che, a differenza di "Fly From Here", è stato accolto molto negativamente, trattandosi, effettivamente, di un disco molto piatto, stereotipato e con ben pochi momenti ispirati. Nel 2015, inoltre, avvenne la tragedia più grande della storia degli Yes: la morte di Chris Squire, vera e propria mente creativa del gruppo, parte essenziale del sound e l'unico membro ad esserci stato fin dal primo album. Da allora, l'organico (chiamatelo come volete, ma, per favore, non Yes) va avanti capitanato da uno Steve Howe sempre più famelico di tour e, come se non bastasse, a causa di problemi di salute, è stato messo in secondo piano anche il batterista Alan White che, oggi, suona soltanto nei bis del concerto. Nel frattempo, Jon Anderson, Rick Wakeman e l'ex chitarrista del gruppo Trevor Rabin, dichiarandosi più o meno esplicitamente rivali del gruppo capitanato da Howe, hanno cominciato un tour insieme proponendo la loro versione degli Yes e, da fine 2016, hanno legalmente diritto di farlo: questo significa che, al momento, ci sono in circolazione due gruppi che vogliono portare avanti il nome. Considerando tutti questi trascorsi e tutto questo poco rispetto nei confronti dei membri presenti e passati, la recente decisione di pubblicare una nuova versione di  "Fly From Here" ricantata da Trevor Horn cosa che, essenzialmente, cancella il povero Benoît David dal canone degli Yes, come se fosse stato un semplice errore di percorso, non dovrebbe stupire più di tanto.

Eppure, contrariamente a tutto il resto, questa operazione porta anche degli aspetti positivi. Per prima cosa, come già annunciato, Horn, seppur brevemente, è stato l'unico altro cantante oltre a Jon Anderson a fare parte di un periodo classico degli Yes e, in questo album, ben sette brani riportano la sua firma: non si tratta certo dell'ultimo arrivato o di qualcuno che non aveva alcun diritto di far parte della musica qua contenuta. Le differenze tra questa nuova edizione e l'originale non si limitano al semplice inserimento della voce di Trevor Horn: l'album è stato totalmente remixato e, in alcuni casi, addirittura prodotto da capo, il brano "Hour of Need", inizialmente della durata di tre minuti, viene qua esteso quasi a sette, la scaletta contiene una canzone aggiuntiva ("Don't Take No For An Answer") incisa durante le session originali del disco ma lasciata fuori dall'album e, oltre a Horn,  anche Geoff Downes e Steve Howe hanno aggiunto nuove parti e modificato quelle pre-esistenti. Nel loro caso, viene da chiedersi se questa cosa abbia qualche significato più profondo ed extra musicale dato che da allora entrambi, nel 2013 e nel 2017 rispettivamente, hanno dovuto fare i conti con la tragedia più grande che possa colpire un genitore: la morte di uno dei propri figli. Tornando all'album, in generale non si può certo dire che questa nuova edizione trasformi il materiale originale in maniera così radicale: il disco in sé rimane un prodotto di fattura pregevole ma, complessivamente, non eccellente. Eppure, ascoltandolo, non si può fare a meno di notare che questa ripresentazione è, molto probabilmente, come sarebbe dovuto essere l'album fin dall'inizio: finalmente, l'atteso sequel di "Drama" esiste al 100% ed è un prodotto fresco, ispirato, ben fatto e di piacevole ascolto. Esemplificativa di tutto ciò è sicuramente la suite che dà il titolo al disco: si tratta di una composizione dalla struttura tipicamente progressive ma il cui contenuto strizza l'occhio ad un pop adulto e maturo, rendendo il risultato finale molto piacevole e, sicuramente, da ascoltare più di una volta. Ottima anche l'idea di estendere "Hour of Need" da tre a sette minuti,  grazie ad una intera sezione strumentale eliminata nella versione originale, trasformando quello che prima era un semplice brano gradevole in uno dei pezzi migliori del disco. Tra gli altri brani degni di nota possiamo citare anche "Life on a Film Set" che ricattura in maniera molto convincente le atmosfere di "Drama" con melodie, arrangiamenti e strutture memorabili. Inoltre, per quanto ormai sia diventato un rito, la consueta finestra per sola chitarra acustica di Steve Howe ("Solitaire") risulta comunque ottima e, inutile dirlo, magistralmente eseguita. Per quanto riguarda l'inedita "Don't Take No For An Answer", cantata da Steve Howe, si tratta più che altro di un brano che serve come prova del fatto che avere una buona voce per i controcanti non significhi per forza essere portati per il ruolo di cantante solista. Parlando invece della voce di Horn: ovviamente è più matura dai tempi di "Drama" e dei due album dei Buggles ma, data l'avversione del cantante/produttore verso le performance dal vivo, non si è consumata più di tanto e il cantato suona convincente ed espressivo, anche se in un paio di punti la timbrica è un po' innaturale, forse per colpa di filtri di studio applicati in maniera troppo pesante. Certo, non tutte le scelte di produzione hanno convinto i fan: ad esempio, c'è chi non ha apprezzato la modifica delle transizioni tra i movimenti della suite principale, soprattutto per quanto riguarda l'accorciamento della durata totale di due di loro ("We Can Fly" e "Sad Night at the Airfield"). In definitiva, ascoltando questo "Fly From Here - Return Trip" slegato dal suo contesto, si ha l'impressione di un gruppo maturo e in grado, nonostante tutto, di presentare prodotti che siano coerenti con il resto della discografia che, pur non essendo magistrali, riescono ad accontentare perfettamente sia i fan novelli che quelli di vecchia data. Di nuovo, sarebbe stato meglio presentare il disco così nel 2011 anche se, all'epoca non era possibile: come già accennato, Trevor Horn non ama molto esibirsi dal vivo, anche per colpa dello sfortunato tour che seguì la pubblicazione di "Drama" e, inoltre, all'epoca Benoît David sarebbe dovuto diventare la voce definitiva degli Yes e, quindi, serviva un album in studio che consacrasse il suo ruolo. 

Per quanto riguarda il futuro degli Yes, sembra che il gruppo potenzialmente possa durare più dei membri che lo compongono. Secondo chi scrive, la cosa migliore sarebbe sotterrare l'ascia di guerra e fare un tour finale che ricordi un po' quello di "Union" nei primi anni 90, inglobando Anderson, Wakeman, Rabin, Howe, White, Downes, qualcuno che possa sostituire White nei momenti più fragili e Billy Sherwood, colui che dal 2016 sostituisce l'insostituibile Chris Squire, per cercare di arrestare un po' il volo in picchiata verso il basso che il gruppo ha preso negli ultimi 4 anni e chiudere con più dignità possibile. Di fatto, però, sembra che le cose siano destinate a procedere come stanno andando ultimamente: a quanto pare, Steve Howe, di recente ha dichiarato la volontà di fare uscire un nuovo album a nome Yes che includerebbe anche alcuni scarti di "Heaven & Earth" e quindi comunque conterebbe almeno in parte della presenza di Squire. Una pubblicazione del genere aumenterebbe di sicuro la sensazione che gli Yes ormai, più che un complesso musicale, siano in tutto e per tutto una corporation interessata solo a far spendere soldi ai fan che sono ancora troppo affezionati al nome per abbandonarli. Detto questo, come dimostra questo "Fly From Here - Return Trip", la cosa comunque non direbbe molto sulla possibile qualità del nuovo disco. Chi vivrà, vedrà.

Yes "Drama"/"Fly from Here - Return Trip" line-up (2011):
Alan White, Steve Howe, Trevor Horn, Chris Squire, Geoff Downes

mercoledì 25 aprile 2018

Refilla - Due (autoproduzione, 2018)

Il primo aspetto ad attirare l'attenzione di questo "Due" è il packaging. Il disco si presenta in una penna USB con una confezione che ricorda quella di un medicinale, con addirittura il bugiardino, ed è un'operazione che funziona particolarmente quando si inizia ad ascoltarlo. I Refilla debuttano nel panorama indie italiano con le parole giuste, la promessa di non essere banali (c'è davvero!), una cultura musicale profondamente radicata nel genere e una capacità strumentale notevole, seppur ancora da arrotondare. Quando ci si rinchiude nel rock italiano ci sono sentori di Ministri, Fast Animals and Slow Kids, Marlene Kuntz, Punkreas, Teatro degli Orrori, ma fortunatamente si guarda anche altrove, e sono i richiami cinematografici sparsi un po' ovunque a dare un tono originale al contenuto. Trainspotting, Pulp Fiction, Apocalypse Now, Paura e Delirio a Las Vegas e molto altro, con l'aggiunta di riflessioni pseudo-profonde sulla felicità dell'uomo, data da cose caduche, sfuggevoli e destinate alla disgregazione. L'album non farà propriamente ragionare in maniera analitica su come viviamo, per quello servirebbe probabilmente una scrittura più puntuale, ma funziona perfettamente associato alla musica. Blues ("Failure Blvd"), psichedelia ("Era Meglio Prima"), electro-punk ("Ali di Pietra") e infine rock più classico ("Partire a Settembre", con venature cantautorali, e "Vita in Viaggio"), tutto ciò per una tavolozza di colori molto ampia che dimostra anche la capacità di variare senza eccedere nell'eterogeneità. I ragazzi suonano bene e sulle capacità tecniche non è nemmeno necessario spendere righe di recensione, basta premere play.

Fare questo genere nel duemiladiciotto è contemporaneamente in linea con le mode del momento, ma è anche una sfida, rischiando di sbagliare timing e di andare a rimpinguare la già iper-nutrita collezione di dischi fotocopia che riempiono gli scaffali dei negozi e il catalogo di Spotify e Apple Music. I Refilla hanno capito come farlo, e al debutto lo fanno bene, certo lasciando nell'ascoltatore la speranza che dal prossimo lavoro scaturisca una maggior originalità. Buono. 

domenica 8 aprile 2018

Manu - Distanza 0 (Manu Production, 2017)

Emanuele Gallo e la sua Manu Production irrompono sul mercato con "Distanza 0", un lavoro vago, di difficile interpretazione, per la sua propensione a sfuggire alle definizioni più ovvie pur avendo una base rhythm'n'blues modaiola che può ricordare sia boyband in voga ormai vent'anni fa (N' Sync, Backstreet Boys, Westlife) che i vari fuoriusciti, Justin Timberlake e Ronan Keating, per citarne due. In realtà, trasuda anche di italianità ma sono i linguaggi eccessivamente pop a prendere il ruolo di protagonisti, riversati in brani che come il singolo e title-track fanno dell'orecchiabiltà il loro unico punto di forza. Il discorso vero è il senso di anacronistico, di già sentito, su cui non si può passare sopra ogni anno per centinaia di dischi. Se anche gli arrangiamenti dei brani più delicati, come "Sempre per Sempre" e "Sarai la Sola", sono di gran classe, ritorniamo sempre al palo con "Flashback", una versione underground - nel senso che la celebrità ancora non è arrivata - dei più pessimi Benji & Fede
Quando si sconfina nell'elettronica, vedi "L'Ultimo Rintocco", sentiamo Emanuele dove vorremmo realmente sentirlo, cavalcare synth e ritmiche dispari con quel piglio pop che suona alla perfezione. Altro momento alto è "Un Piccolo Bacio", che forse meritava una spinta maggiore dal punto di vista ritmico, una ballad di grande livello che ricorda il migliore Baglioni, e soprattutto, se analizzata nell'ambito del radiofonico, può certo risaltare e farsi notare.
La cura nei testi c'è, così come l'interpretazione. L'uso delle parole non è magistrale, ma è raffinato al punto giusto, rimanendo dentro la cornice del pop senza scadere nel banale e senza nemmeno addentrarsi nel barocco. 

Intendiamoci, qui tutto è curatissimo, dai testi all'esecuzione, passando per songwriting, missaggio, mastering, concezione, confezione. Ascoltare Baglioni, Venditti, Mengoni e poi tuffarsi nella scena italiana con queste capacità è senz'altro degno di nota, ma anche inutile. I contenuti, infatti, sono quello che sono, forse solo all'orecchio del sottoscritto, ma certo è che non c'è più alcuna necessità di musica di questo tipo. 

domenica 25 marzo 2018

Mirco Menna - Il Senno del Pop (Volume!, 2017)

Da Bologna, Mirco Menna si lascia alle spalle la sua personale predilezione per Modugno - sempre nettamente udibile, sia chiaro - per arrivare ad una produzione (quasi) totalmente propria, indicativa di un percorso dove la graduale presa di coscienza dei linguaggi pop lo hanno condotto a produrre un disco di alto spessore pur rimanendo entro i confini del radiofonico. 
Questo "Il Senno del Pop" salta a pié pari tra momenti ballabili e altri più riflessivi, non dimenticando il sacrosanto principio dell'inserimento di un contenuto, esplicitamente o più tra le righe, in ogni caso presente. "Sole Nascente" e la riproposizione di "Chiedo Scusa se Parlo di Maria", già edita, sono i momenti più intensi e intrisi di significato, pregni di una metodicità anche compositiva che fa riflettere. Per essere pop oggi serve obbligatoriamente seguire uno schema o può essere sufficiente trovare il modo di recapitare agevolmente ogni tipo di messaggio? La seconda sembra essere la via prescelta da Mirco, quando sceglie di traslare nell'immediatezza un brano comunque complesso e con un vago deficit di energia nell'arrangiamento, ovvero "Arriverai", dove uno strepitoso Enrico Guerzoni al violoncello (ci sarà nuovamente in "Da Qui A Domani", altro altissimo capitolo di questo lavoro) tiene alta la soglia dell'attenzione anche con i vuoti, ove manca. Non è l'unico caso di ospite che monopolizza l'attenzione poiché accade nuovamente con la tromba ne "Il Descaffalatore", laddove un Maurizio Piancastelli in grande spolvero si intesta gli onori del disco regalando un senso di alienazione costante che impreziosisce anche le parole interagendo con il loro significante. Suona bizzarro ma totalmente finalizzato all'obiettivo foderare il disco di grandi contributi esterni, con una direzione artistica notevole, e i risultati si sentono e non possono essere messi in discussione. 

Principale pregio di questa intelligente uscita dell'emiliano è senza dubbio la sua complicità con il piano dell'orecchiabile, con cui tenta di fondere un'ingente fame di raccontare e di farlo senza seguire alcuna regola. Il risultato è un lavoro che non scoccerà nessuno, ma rischia al contempo di passare inosservato. Certo, ogni musicista si augura che il proprio pubblico cresca in ampiezza e in affezione, ma a volte si sceglie di sguazzare in una sana e vitale qualità che, di suo, non potrà incontrare un'approvazione universale. Questo probabilmente è il caso, un caso da cui non distrarre l'attenzione nel futuro. 

mercoledì 14 marzo 2018

Chiara Giacobbe - Lionheart (Sciopero Records, 2017)

38 anni, alessandrina, formazione musicale accademica: è questo l'identikit di Chiara Giacobbe, violinista e songwriter già al lavoro con, tra gli altri, Trent Miller, Yo Yo Mundi e Antonio "Rigo" Righetti
Scendendo nei meandri di "Lionheart" scopriamo subito il talento spaziale della Giacobbe, armata del suo violino suonato con foga circense in "My Mexico" e di un primordiale spirito autobiografico, mutuato da ascolti certamente di alta scuola cantautorale, che emergono con prepotenza e altrettanta matura sincerità nei brani più posati, come la title track e "I Can't Get Over You". Niente strizzate d'occhio al pop moderno, nessun eccesso di tecnica, ma colorazioni blu e gialle, senza troppa allegria, che esplodono in un tripudio di energia ("Let You Breathe") o imbrogliano l'ascoltatore ("Pet Lion") irretendolo in quel bisogno indotto di un cantato che invece il pezzo, strumentale, non intende soddisfare. E funziona, forse, meglio così. Il resto certamente non risulta all'altezza dei brani citati, pur rimanendo in una cornice qualitativa pienamente sufficiente. Qualcuno individua nelle parole di Chiara un exploit di femminilità, l'urgenza di spiegare al mondo cosa e come sente una donna, messaggi che possono arrivare fin dove la musica non sovrasta le liriche e diventa protagonista. La Chamber Folk Band, infatti, composta da musicisti di alto livello come Daniele Negro, Marco Rovino, Luca Bartolini, Rino Garzia e Andrea Chellini, segue la piemontese in maniera fedele e attenta, dando il giusto lustro alla sua voce e al suo modo di comporre, ma in più di qualche occasione predominano, relegando dietro le quinte il contenuto dei brani per portare l'ascoltatore a quella naturale propensione per il semplice approccio melodico tipica dell'italiano medio che non conosce l'inglese. Tornando ai musici, basso e batteria marciano dritti e possenti, dando al folk, al bluegrass, al blues più cantautorale e di stampo americano un accento più rock, mentre sono eccezionali gli altri strumentisti a tentare di conferire cenni di novità stilistica ad un prodotto tanto ben confezionato e costruito, quanto "vecchio", seppur nel senso meno negativo del termine. 

Un lavoro pregiato, sartoriale, gonfio di un'eleganza antica ma strafottente, perché è anche giusto togliersi lo sfizio di fare la musica che piace, senza porsi il problema di essere giocoforza innovativi.  

mercoledì 3 gennaio 2018

Vallanzaska - Orso Giallo (Maninalto!, 2017)

La storia formazione milanese dei Vallanzaska, veri portabandiera dello ska punk all'italiana, arriva all'undicesima fatica discografica con questo "Orso Giallo", rinsaldando nuovamente la collaborazione con la label Maninalto!. Dai tempi di "Cheope" sappiamo cosa aspettarci da Davide Romagnoni e soci, con tutti i tratti tipici dello ska, ovvero ritmi in levare, rapidi, per far muovere il culo, conditi con tematiche impegnate mescolate ad un'ironia acuta e piccante, che non disdegna anche il coinvolgimento politico. Non a caso, quest'ultimo lavoro è inaugurato da "Assessore", classica sequela di stilettate alla classe dirigente che non può mancare - con i tempi che corrono - in un album di questo genere, senza parlare della conclusione a questo punto prevedibile, intitolata "Donald Trump" (in verità un manifesto piuttosto pessimista, e a ragione, sul futuro della nostra società così americanocentrica, nelle mani di una persona così...). Quest'accoppiata di per sé non rende giustizia ad una carriera di ottime pubblicazioni, ma rappresenta pienamente cosa attendersi dal rimanente materiale. Reggae in "Dubai" ed "Easy", ska full-speed in "Balla" con la sua strepitosa satira sulle magliette indossate dal loro pubblico,  una follia nonsense sulla salsa di soia che macchia l'abito poco prima di un colloquio di lavoro ("Soia"), per finire poi sulla crisi di mezz'età, il periodo in cui si decide di mettere la testa apposta e dunque "Non Pogo Più". Non può mancare qualche riferimento alla cannabis ("Quando E' Gatta"), anche qui con più di qualche boutade provocatoria benché inoffensiva. La canzone più emotiva è sicuramente "Sei Qui", dedicata ad un fonico che ha lasciato la band, mentre il momento massimo a livello lirico si ottiene con "Io Non C'Entro", caricatura molto ben riuscita, pungente al punto giusto, per descrivere un atteggiamento molto italiano: "non ne so nulla, non ho visto niente, non sono fatti miei, io mi faccio gli affari miei". Non è una citazione del testo, ma questo è il succo. Meritevole di una menzione a sé è sicuramente anche l'arrangiamento di "Ragazzo Distratto" con il pianoforte che gioca in maniera intelligente e mai scontata con le chitarre, prima del climax che si manifesta con l'inserimento dei fiati. Come in tutti i dischi di questo genere, i fiati sono fenomenali e Piras non sbaglia un colpo. Ottima anche la sezione ritmica, che tiene banco per tutta la durata dell'album in maniera precisa e ben tirata. La composizione è ormai a colpo sicuro, nel senso che basta ripetere qualche stereotipo per accontentare i fan ormai fedeli da venticinque anni. 

In generi come questo, o il reggae, o i baluardi dell'elettronica più di nicchia (drum'n'bass, techno, dubstep), variare troppo è visto come un errore, e la formula vincente è quella che fa muovere il culo. I Vallanzaska nonostante gli anni passano sanno sempre il fatto loro e non ce n'è per nessuno. 

lunedì 1 gennaio 2018

YATO - Post Shock (autoproduzione, 2017)

"Post Shock" è il primo sforzo discografico di YATO ("cantautore electro vocal", che troviamo addirittura nel nome dell'artista su Spotify!), alias scelto da Stefano Mazzei per esordire sulle scene italiane. Si tratta di un lavoro dalle forti sonorità elettroniche, appunto, cantato però in italiano, e che quindi per forza di cose deve confrontarsi con la band che più di tutte ha fatto di questo genere un'arte: i Subsonica. Soprattutto a livello melodico, per tastiere e bassi, ci sentiamo i bei tempi di Pierfunk e Boosta alle prese con le prime contaminazioni funk rock, reggae, new wave,  ma chiaramente le influenze vanno oltre, risalendo a quelli che sono i luminari del genere anche per i torinesi stessi: Depeche Mode, Kraftwerk, saltuariamente anche Joy Division e CSI/CCCP. Infatti, la particolarità di questo lavoro è che sembra un disco electro pop fatto da un grande ascoltatore di alternative rock italiano (Verdena, Afterhours, Il Teatro degli Orrori, per citare almeno qualche nome importante), e ciò si avverte in maniera evidente in "Ormonauti RMX", degna chiusura del disco, e "Consciok". "Post" è la critica ai social network che ormai ci si aspetta ma che non ha assolutamente nessuna ragione d'essere, sebbene il brano risulti tra i migliori anche in virtù di quell'inizio così malinconico e tetro capace di spostare per un momento l'asse del disco dal ballo alla riflessione. Picchi d'ironia e satira non nascondono un approccio smaliziato all'arrangiamento da canzone d'autore, solo colorato da qualche synth e beat sintetico, come ad esempio "Le Teorie Possibili". "Idolatrina", una delle tante parole macedonia in cui ci imbattiamo nel disco, ha un testo quasi nichilista ma di fatto potrebbe passare tranquillamente in radio, ed è l'esempio migliore di come il fiorentino sia in grado di circumnavigare tutto il continente dell'elettronica, dai suoi frangenti più pop-friendly a quelli underground, inaccessibili al grande pubblico. 

Il lavoro è sicuramente di alta qualità, a livello di suoni, scrittura, atmosfere coerenti con i messaggi, attitudine. L'intenzione si sente tutta ed è esplicitata sempre molto bene con una solida architettura anche lirica, che non nasconde la buona capacità letteraria e compositiva del giovane Stefano. Difficile muovere note critiche, ma sarà sicuramente difficile trasformare un primo sforzo di questo calibro in un seguito uno scalino sopra come ci si aspetta. Da tenere d'occhio.