mercoledì 1 aprile 2015

Il Rebus - A Cosa Stai Pensando? (Volume! Records, 2015)

A cosa stavano pensando Il Rebus quando come centinaia di altri artisti decidevano di addentrarsi nel mondo dei testi di denuncia? Si sa, in questo campo vige l'enorme rischio di banalizzare problemi morali, etici, storici e politici di grande portata nello schema strofa-ritornello o nel testo in rima, così come quello di non poter reggere il confronto con chi queste cose le ha fatte prima e meglio. Si tira in ballo Adriano Sofri, giornalista, scrittore e attivista triestino, le cui vicende politiche meritano senz'altro un approfondimento ancor prima di approssimarsi all'ascolto di questo disco, in cui ben due testi prendono a piene mani dalle sue parole ("Questo Non è un Uomo", "Nei Ghetti d'Italia...", quest'ultima riguardante gli scontri a sfondo razziale avvenuti a Rosarno a inizio 2010). Si parla di religione, di imprenditori che in piena crisi economica decidono di farla finita, del qualunquismo italiano che forse contraddistingue questa nazione più di tante altre sue caratteristiche, dei disordini di Roma di Ottobre 2011 ("Roma Brucia"). Soppesata attentamente la qualità testuale, il lirismo di queste musiche, la caparbietà di alcune scelte negli arrangiamenti, la bellezza di questo album risiede però forse meno nelle parole che nella musica.


"A Cosa Stai Pensando?", prodotto da Max Zanotti (membro attivo dei Rezophonic nonché leader dei defunti Deasonika e più che apprezzabile autore di materiale solistico), si fregia di sonorità a cavallo tra la canzone d'autore moderna e il pop-rock anni '90, deragliando spesso però verso linguaggi post-rock e new wave. L'olimpo del quartetto comasco è variegato, ma abbastanza eterogeneo da poter essere tracciato comodamente: Ritmo Tribale, Paolo Benvegnù, Timoria, l'esplosione di imitatori di CCCP e CSI, ma anche i Marlene Kuntz più intimistici di "Uno", la stranissima "Eneide di Krypton" dei Litfiba e alcuni ondivaghi ammiccamenti al recitato-parlato di Emidio Clementi e Max Collini. Spesso i testi trovano la loro migliore espressione se associati alla veemenza di alcune deflagrazioni, mai improvvise né inaspettate, ma incastonate nella struttura del pezzo comunque con grande originalità ("Avere Trent'Anni", riascoltata più volte, assume tonalità quasi epiche, per non dire solenni). La costruzione dei brani appare sempre, dal primo all'undicesimo e ultimo brano, intelligente, ponderata, equilibrata, dosando tutti gli ingredienti in un bilanciamento perfetto di alti e bassi, di magniloquenza e leggerezza, di pacatezza e frastuono.


In piena tradizione italiana, i quattro subordinano spesso - ed è un peccato - le musiche alle liriche. Intendiamoci, i testi sono ottimi, mai triviali, ben scritti e concepiti, ma in alcuni brani l'impressione è quella di una forzatura rispetto ad un contesto che avrebbe reso meglio lasciando agli strumenti il ruolo di protagonisti. Tolto questo limite, che di fatto è solo un punto di vista del'autore che non intende criticare le scelte lessicali e retoriche né i contenuti, il disco fila liscio dall'inizio alla fine, trovando nel suo riferirsi alla stessa parte di storia della musica che chiunque sfrutta per fare soldi da vent'anni a questa parte proprio il suo punto di forza. Notevole è il tentativo di prendere ogni legame con altri artisti e rivoltarlo a proprio favore, marginalizzando le citazioni e i richiami così da renderli talmente poco tangibili da essere solo venature, sfumature, tonalità che dalle retrovie fanno brillare ulteriormente un album che negli anni a venire sarà sicuramente rivalutato e inserito nelle cronache dei migliori dischi del duemilaquindici.