domenica 21 dicembre 2014

The Return of the Son of Frank Zappa II


  

Riprendiamo la tradizione, in occasione del giorno del compleanno di Frank Zappa, di recensire gli album postumi del Maestro. A causa della scarsità di materiale uscito nel 2012 e nel 2013, abbiamo deciso di saltare temporaneamente gli aggiornamenti nei due anni precedenti e di aspettare che si accumulassero più pubblicazioni. Come al solito, sono uscite delle chicche gustosissime, affiancate ad altre cose meno interessanti. Oltre a queste pubblicazioni, un altro evento importantissimo è stato, finalmente, la ristampa totale del catalogo di Zappa, avvenuta nel 2012. Molti di questi nuovi CD sono stati trasferiti di nuovo dai master tape dei dischi e, in molti casi, presentano il mixaggio originale dell'album, a volte radicalmente diverso da quello dei CD precedenti ("Hot Rats" e "Sleep Dirt" sono i due esempi più palesi). Per chi volesse approfondire, segnaliamo questo ottimo link: una piccola guida che spiega dettagliatamente quali nuovi CD possono essere utili anche a chi possiede le edizioni precedenti.

Prima di proseguire, invitiamo i lettori, nel caso non l'abbiano già fatto, alla lettura dei due precedenti articoli che trattano delle uscite postume di Zappa a partire da "The Lost Episodes":


Understanding America (Zappa Records/UMe ZR3892)
Data di pubblicazione: 30 Ottobre 2012

Una compilation preparata dallo stesso Zappa, intorno al 1991. Tra i due CD, non c'è nessun inedito vero e proprio, solo una versione deluxe di "Porn Wars", il famoso collage per synclavier dedicato alle tematiche del PMRC e della censura musicale, uscito nel 1986. La nuova versione aggiunge ben 14 minuti in più ai 12 già esistenti (!), ma il nuovo materiale consiste in stralci di canzoni di Zappa, inserite a mo di commento, e qualche altra frase degenerata da parte dei membri del congresso, per un totale di ben 25:51". Sicuramente, avrete capito che non è qualcosa che ascolterete spesso. Il resto della compilation, inoltre, proviene dai vecchi master usati per i CD precedenti, e soffre di molti disturbi audio (Zappa, verso la fine della sua vita, aveva qualche problema d'udito). Come se non bastasse, molto spesso i brani sono mozzati e seguono tra di loro in maniera molto rudimentale. Purtroppo, per questi motivi, non funziona bene nemmeno come introduzione alla musica del Maestro, ed è consigliabile solo ai fan più estremi che non vogliono perdersi "Porn Wars Deluxe"

Voto: 4


Road Tapes, Venue #1 (Vaulternative Records VR 20122)
Data di pubblicazione: 7 Novembre 2012

Zappa, nelle note di copertina della serie "You Can't Do That On Stage Anymore", aveva fatto notare spesso come le migliori performance fossero proprio quelle che venivano registrate sui cosiddetti "guerrilla tapes", ovvero le registrazioni non catturate su multi-traccia. Con questo primo volume di "Road Tapes", lo ZFT lancia una serie che finalmente dà spazio a quelle performance, strumentisticamente ineccepibili, ma registrate in maniere professionale. In un certo senso, potremmo paragonare i Road Tapes ai volumi dei "King Crimson Collectors Club": così come nei KCCC, anche nei Road Tapes, infatti, i nastri vengono pubblicati integrali, persino le canzoni che, sulla registrazione originale, risultano incomplete. Non si può, comunque, parlare di bootleg ufficiali perché si tratterà sempre, comunque, di nastri registrati dell'equipe di Zappa. Questo primo volume contiene il concerto alla Kerrisdale Arena di Vancouver del 25 Agosto 1968, nel tardo periodo Mothers of Invention. La formazione include Frank Zappa, unico chitarrista e cantante, Don Preston alle tastiere, Ian Underwood ai fiati e alle tastiere, Bunk Gardner ai fiati, Jim "Motorhead" Sherwood al sax baritono, al tamburello e all'armonica, Roy Estrada al basso e Jimmy Carl Black e Arthur Tripp alla batteria. La qualità audio è sorprendentemente molto nitida e di buona definizione, sebbene l'archivista dello ZFT Joe Travers abbia affermato nelle interviste che, per renderla pubblicabile, è stato necessario un minuzioso lavoro di ripulitura, e la performance è ottima. Oltre ad alcuni classici del gruppo ("Help I'm A Rock", "Hungry Freaks Daddy", "Trouble Every Day" e "King Kong", eseguita come bis da un sorpreso, ma compiaciuto Zappa, in seguito alle urla entusiaste del pubblico), spiccano bellissime versioni del medley "Orange County Lumber Truck" e di "Holiday In Berlin", qui intitolata "Shortly". Vengono inoltre inclusi anche due cavalli di battaglia del repertorio dei Mothers che erano precedentemente disponibili soltanto in registrazioni non ufficiali: "Oh, In The Sky", un bizzarro brano doo-wop cantato in maniera deliziosamente demenziale da Roy Estrada e "Octandre", un riarrangiamento dei Mothers di un'opera di Edgar Varese. Una pubblicazione eccellente che, a dispetto della descrizione della serie, può essere apprezzata da tutti. Anzi, questo doppio CD è più rappresentativo dell'attività dal vivo dei Mothers rispetto a "Ahead of Their Time", l'album pubblicato nel 1992 tratto dai due concerti alla Royal Festival Hall il 25 Ottobre 1968. Da avere!

Voto: 9


Finer Moments (Zappa Records/UMe ZR3894)
Data di pubblicazione: 12 Dicembre 2012

Si tratta di un disco di archivio preparato nel 1972 da Zappa, completo e pronto per essere pubblicato ma, per qualche motivo, lasciato su uno scaffale a prendere polvere. Il disco si alterna tra materiale del 1969 e del 1971 ed era stato concepito come doppio vinile. La prima facciata, alterna frammenti del leggendario concerto alla Royal Albert Hall del 6 Giugno 1969, tra cui l'ispirato assolo Zappiano "Sleazette" e la musique-concrete di "The Walking Zombie Music", ad altro materiale del 1971, nello specifico i coinvolgenti assolo di "The Old Curiosity Shoppe". La seconda facciata, contiene un piccolo divertissment in studio e un lungo brano ("Uncle Rhebus"), tratto da un esecuzione di "King Kong" a Boston, l'8 Agosto 1969, contenente 17 minuti di intensa e furiosa improvvisazione musicale. La terza facciata dell'album, è anche la più ostica. Si tratta, essenzialmente, di una lunga serie di 21 minuti di sperimentalismo, con frammenti registrati dal vivo ("There Is No Heaven From Where Slogans Go To Die"), uniti ad altri in studio ("Enigmas 1 Thru 5", "Pumped and Waxed"), conclusi dal demenziale "Squeeze It, Squeeze It, Squeeze It" che, senza rivelare cosa sia, dovrebbe, ormai, essere ben familiare ai fan di Zappa. La quarta, e ultima, facciata, infine, è interamente occupata da "The Subcutaneous Peril", 19 minuti di improvvisazioni tratte da versioni dal vivo di "King Kong" e di "Pound for a Brown", tratte dai concerti alla Carnegie Hall dell'11 Ottobre 1971. Parti di questo materiale sono uscite ufficialmente sparse su "The Lost Episodes""Mystery Disk", "Carnegie Hall" e su vari volumi di "You Can't Do That On Stage Anymore". Tuttavia, come prodotto in sé è interessante, i vari assolo pubblicati sono tutti di alta caratura ed è un lavoro che lo scolaro Zappiano dovrebbe procurarsi, anche se, chi è alle prime armi, forse, dovrebbe aspettare un po'. Comunque, un'uscita affascinante.

Voto: 7


AAAFNRAA 21 December 2012 - Baby Snakes, The Compleat Soundtrack 2h 44m 20s (Zappa Records/Itunes)
Data di pubblicazione: 21 Dicembre 2012

Una delle più grandi delusioni in assoluto: una semplice estrazione in audio del DVD di "Baby Snakes". Nessuna differenza: stesso mixaggio, stessi titoli e stessa suddivisione in capitoli. D'accordo, il materiale presentato è musicalmente eccellente, ma perché mai qualcuno dovrebbe privarsi dello (splendido) DVD e acquistare solo l'audio su Itunes? La cosa, non è conveniente nemmeno a livello di prezzo. Questi Birthday Bundle (pacchetti I-tunes pubblicati il giorno del compleanno di Zappa) si rivelano, ancora una volta, le peggiori pubblicazioni postume. Se non altro, il Birthday Bundle del 2013 (non recensito in questo articolo in quanto tratta esclusivamente delle pubblicazioni audio) è stato un favoloso video di 10 minuti del tardo 1973 che mostra il gruppo in studio (la formazione di "Roxy & Elsewhere" più le Ikettes in studio) intento a registrare una versione di "Cheepnis" ma, veramente, si tratta dell'unico caso degno di nota. Il voto finale è una media tra quello musicale (8) e quello della pubblicazione in quanto tale (1). 

Voto: 4,5


Road Tapes, Venue #2 (Vaulternative Records VR 2013-1)
Data di pubblicazione: 31 Ottobre 2013

Anche il secondo volume dei Road Tapes si rivela essere di estremo interesse per ogni fan di Zappa. Questa volta, ci troviamo davanti ad una selezione tratta dai concerti del 23 e 24 Agosto 1973 a Helsinki, tre in tutto (due nel giorno 23). Nonostante le premesse della serie, la qualità audio è ottima: in stereo e, solo con una leggerissima distorsione nel canale vocale. Ancora più importante, questa particolare formazione della band di Zappa non aveva ancora avuto il suo spazio nelle pubblicazioni ufficiali d'archivio: oltre a Zappa, c'erano il celeberrimo violinista Jean-Luc Ponty, i coniugi Ruth e Ian Underwood, alle percussioni e ai sintetizzatori rispettivamente, George Duke alle tastiere e alla voce, Tom Fowler al basso, suo fratello Bruce al trombone e Ralph Humphrey alla batteria. Splendido il medley che apre il primo CD ("The Eric Dolphy memorial Barbecue", "Kung Fu", "Penguin in Bondage", "Dog Meat" e "RDNZL") e monumentali le versioni di "Dupree's Paradise", preceduta da una lunga introduzione inserita in una traccia a parte, "Don't You Ever Wash That Thing?""Big Swifty" e "Farther O'Blivion". Da segnalare anche il "Finnish Hit Single" "Dun Dun Dun", un'improvvisazione basata su quella che Zappa descrive come "la parte di violoncello che c'è nella colonna sonora dei film dell'orrore quando arrivano i mostri". Se i volumi futuri di questa serie sono come quelli che sono usciti, è il caso di tenerli d'occhio: potrebbero essere, assieme ai Project/Object (ovvero, i making of degli album), le cose più interessanti in assoluto.

Voto: 8,5


A Token of His Extreme Soundtrack (Zappa Records ZR20015)
Data di pubblicazione: 25 Novembre 2013

"A Token of His Extreme" era il titolo un programma-concerto TV del 1974,  registrato dal vivo agli KCET Studios di Los Angeles il 27 Agosto 1974, ma mai andato in onda ufficialmente. Alcune parti di questo programma erano finite nel video "The Dub Room Special" ma, nel 2013, lo ZFT ha finalmente pubblicato l'intero programma in DVD, ricevendo un plauso unanime da parte dei fan. Forse però era meno necessario pubblicare anche la colonna sonora. Sia chiaro: le selezioni sono eccellenti e l'ascolto del disco non può che dare immenso piacere (specialmente "Pygmy Twylyte", "Room Service", "Oh No" e "Son of Orange County"), ma, molto di questo materiale è in comune con quanto uscito sul CD colonna sonora "The Dub Room Special" e non c'è nessuna differenza nella scaletta rispetto al DVD, anche se il mixaggio è diverso dalle altre pubblicazioni. Tutto sommato, il fan non troppo esigente si può accontentare del DVD. Il voto complessivo è una media tra il contenuto musicale (8,5) e la pubblicazione in sé (4).

Voto: 6


Joe's Camouflage (Vaulternative Records VR 20132)
Data di pubblicazione: 30 Gennaio 2014

Solitamente, la Joe's Corsaga contiene cose destinate solo ai fan più accaniti, ma questo nuovo volume è interessante per chiunque. Si tratta di una collezione tratta da varie prove in studio di una formazione di Zappa mai andata in tour e risalente a metà 1975, precisamente tra Agosto e Luglio: oltre a Zappa, Denny Walley alla chitarra, Napoleon Murphy Brock al sax e alla voce, Robert Camarena alla chitarra e alla voce, Roy Estrada al basso, Novi Novoog alla viola, André Lewis alle tastiere e Terry Bozzio alla batteria. Un CD della stessa serie, "Joe's Domage", conteneva anch'esso una prova in studio, ma in qualità audio bassa ed estremamente frammentaria, piena di pause. Chi è memore di quell'esperienza e non l'ha apprezzata può stare tranquillo: a parte un paio di selezioni proveniente da una cassetta in mono registrata da Denny Walley, la maggior parte dei brani sono stati registrati professionalmente su multi-traccia e non c'è praticamente nessuna interruzione al loro interno. Sicuramente, il succo di questo CD sono i due inediti, sconosciuti prima d'ora anche ai fan più accaniti: la strumentale "Phyniox", trionfale veicolo per assolo di Zappa, presentata in due take diversi e "Reeny Ra", un delizioso pezzo nonsense che ricorda un po' i primi Mothers of Invention. Da notare anche che, nella traccia denominata "Choose Your Foot", compare un frammento di "Swallow My Pride", brano eseguito nel tour successivo e tutt'ora non pubblicato ufficialmente. Il resto dell'album non è meno interessante: alcuni pezzi sono in arrangiamenti inediti ("T'Mershi Duween"),  altri in versioni embrionali, a volte notevolmente differenti da quelle pubblicate in seguito ("Honey Don't You Want a Man Like Me", "The Illinois Enema Bandit", "Sleep Dirt" e "Any Downers?"), il tutto intervallato da qualche frammento di audio veritée, in modo da dare un senso di "documentario" al tutto. La ciliegina sulla torta è la bellissima versione di "Black Napkins", con l'assolo di viola di Novi Novoog. Incredibile come,  a 21 anni dalla sua morte, ci siano ancora così tante cose di Zappa che dobbiamo ancora sentire!

Voto: 8



Roxy by Proxy (Zappa Records ZR20017)
Data di pubblicazione: 13 Marzo 2014

Praticamente ogni fan di Zappa sa bene l'epopea che c'è dietro ai famigerati filmati dei concerti registrati al Roxy Theatre di Los Angeles tra l'8 e il 12 Dicembre 1973. I concerti vennero filmati per poter essere pubblicati in video, ma il progetto non è mai stato completato, a causa di costi troppo elevati, anche se due minuti di "Dummy Up" sono finiti nella VHS "The True Story of 200 Motels". Dopo la morte del compositore, il film è stato più volte annunciato e sono state rese disponibili varie anteprime: un trailer di tre minuti, 30 gustosissimi minuti proiettati prima dei concerti della coverband ufficiale di Dweeil, Zappa Plays Zappa (adesso disponibili sul sito ufficiale a questo indirizzo), la pubblicazione del già citato video delle registrazioni di "Cheepnis" in studio e, infine, questo CD, un prequel al video e che contiene tracce mixate e preparate da Zappa nel 1987, forse per "You Can't Do That On Stage Anymore", ma in seguito non utilizzate. Ma, come se non bastasse, anche questo CD ha una piccola epopea:  inizialmente, questo album era stato annunciato a fine 2012 come un progetto di gigantesco crowd founding; i fan interessati avrebbero comprato i master e sarebbero stati i distributori, ma la cosa si rivelò un grandissimo flop e non se ne fece nulla. Il disco venne annunciato, quindi, come pubblicazione regolare, in uscita prevista il 21 Settembre 2013, ma difetti tecnici nella stampe dei dischi hanno spostato la pubblicazione al 13 Marzo dell'anno successivo. Una cosa divertente da notare è che la data di uscita è stata posticipata di settimana in settimana, tenendo i fan sul filo del rasoio! In ogni caso, una volta che ci siamo trovati il CD tra le mani, siamo stati tutti molto veloci a dimenticare i disagi passati. La formazione è fantastica: FZ, Napoleon Murphy Brock al sax, al flauto e alla voce, Ruth Underwood alle percussioni (le cui note nel libretto del CD risultano interessantissime), i fratelli Bruce e Tom Fowler al trombone e al basso, George Duke alle tastiere e alla voce e Paul Humphrey e Chester Thompson alla batteria. Ogni brano presente su CD è in versione monumentale, ma segnaliamo "Inca Roads" in arrangiamento inedito, con una divertente introduzione cocktail jazz, una versione, una versione di "Cheepnis" suonata solo con la batteria e le percussioni, prima di eseguire di nuovo il brano, stavolta normalmente, "Dupree's Paradise", con una serie di assolo mozzafiato, tra cui quello di Tom Fowler, che riprende un inciso di "Montana" e il conclusivo medley finale "King Kong/Chunga's Revenge/Mr. Green Genes". Sebbene l'attesa per questo materiale sia stata lunga, la pazienza è stata ricompensata e, questo CD, schizza subito in alto tra le pubblicazioni postume più belle. Stando a quanto dice Gail Zappa, niente di ciò che è pubblicato in questo disco è in comune con il film e, in effetti, questa versione di "Dupree's Paradise" non è la stessa che c'è nei 30 minuti resi disponibili fin'ora. Oltre ad avere il DVD, la vera colonna sonora, a quanto pare, sarà resa disponibile a parte in futuro. Staremo a vedere ma, nel frattempo, godiamoci questo bellissimo CD.

Voto: 9


Happy Mothers Day (Zappa Records download)
Data di pubblicazione: 10 Maggio 2014

Piccolo bonus in digitale rilasciato il giorno della mamma, acquistabile dal sito ufficiale. Due le selezioni: una versione di "Zoot Allures" preparata da Zappa stesso, tratta da varie esecuzioni dal vivo del 1982 (l'assolo è stato registrato a Londra il 18 Giugno dello stesso anno), ma con una nuova pista di batteria in studio di Chad Wackerman, e "Cosmik Debris" proviene dagli stessi concerti ad Helsinki del 1973 che hanno dato vita al secondo volume della serie "Road Tapes". Entrambi i brani sono di ottima qualità e contengono due assolo di Zappa particolarmente energici e aggressivi, il secondo con un buon uso di wah-wah. Contrariamente ai vari Birthday Bundle, questo EP è senza dubbio più apprezzabile, meno costoso e, nonostante questi due pezzi non siano assolutamente delle rarità nelle pubblicazioni Zappiane, non ridondante.

Voto: 7

The Frank Zappa AAAFNRAA Birthday Bundle 2014 (Zappa Records download)
Data di pubblicazione: 21 Dicembre 2014

Ovviamente, non poteva mancare il consueto Birthday Bundle. Nonostante la nostra esplicitamente dichiarata antipatia per questo genere di uscite, questa volta non possiamo proprio lamentarci. L'anno scorso, come già citato, la famiglia Zappa ci aveva presentato un bellissimo video con un making of di un take in studio di "Cheepnis". Quest'anno si continua sulla stessa scia. Solo un brano non è eseguito da Zappa. Per il resto, ci sono due file audio e uno video. Partiamo dai due audio: "Down in De Dew" è un outtake in studio del 1973, pubblicato per la prima volta su "Läther". Questa particolare versione è un mixaggio originale di Zappa del 1974 ed era già stata pubblicata quest'anno come retro del 45 giri "Don't Eat The Yellow Snow" uscito durante il Record Store Day del 2014. "Freak Choufflè" è un prezioso documento storico: una jam blues dal vivo registrata nel 1966, con una formazione inedita: FZ, Del Casher alla chitarra ritmica, durato nella line-up solo pochi mesi, Roy Estrada al basso, Don Preston alle tastiere e Jimmy Carl Black e Billy Mundi alla batteria. Per una volta, rompiamo una regola, e consideriamo anche il filmato: "RDNZL" registrata dal vivo a Palermo, il 14 Luglio 1982, durante il famoso concerto in cui scoppiò una terribile rivolta. Il brano è stato filmato prima dello scoppio dei disordini, ma non per questo è meno interessante. La versione è eccellente, il video, filmato dal tecnico Thomas Nordegg, è di qualità molto alta pur essendo single-shot, e l'inizio del pezzo è arrangiato diversamente rispetto a tutte le versioni pubblicate ufficialmente fino ad ora. Il gruppo cita pure la marcia trionfale dell'"Aida" di Giuseppe Verdi per omaggiare il bel paese. A giudicare da cosa ha scritto Gail Zappa nella mailing list del sito ufficiale, questo video è solo una piccola anteprima di qualcosa che vedremo in futuro, speriamo presto. Finalmente ce l'abbiamo fatta: dopo otto anni, abbiamo dato un (meritatissimo) voto alto ad un Birthday Bundle!

Voto: 8

Come al solito, il materiale uscito è molteplice e interessante, anche se, purtroppo anche questo come al solito, di varia qualità. Gestire l'eredità musicale di un artista come Frank Zappa non è certamente un compito semplice e, sicuramente, va dato un plauso allo ZFT per il nobile tentativo che sta facendo: sebbene continuino a persistere con alcuni errori, la qualità delle pubblicazioni si è sempre dimostrata generalmente solida e, addirittura, in crescita, grazie ad iniziative sempre nuove e interessanti (l'ultima, appunto, i Road Tapes). Nonostante Zappa sia morto da ormai 21 anni, non sono ancora arrivati a raschiare il fondo del barile e, in certi casi, ci hanno offerto alcune delle incisioni più belle del Maestro, sia dal vivo che in studio. Per quanto riguarda ciò che potrebbe uscire in futuro, stando ad una recente intervista a Gail Zappa, la prossima uscita, cronologicamente la #100, dovrebbe essere finalmente "Dance Me This", un disco inedito per synclavier di Zappa preparato nel 1992 che dovrebbe essere quanto di più vicino alla world music il compositore abbia mai fatto. Tuttavia, nel momento in cui scriviamo, non ne è ancora stata annunciata una data ufficiale di pubblicazione. Un'altra cosa che sembra che uscirà sicuramente è il Project/Object  di "Apostrophe (')", esplicitamente annunciato sul retro del 45 giri di "Don't Eat The Yellow Snow" uscito durante il Record Store Day di quest'anno. Tanto per salivare un po' di più, ecco una breve lista incompleta di cose annunciate in varie interviste, in varie epoche: i Project/Object di "Hot Rats" e "Uncle Meat", un secondo volume di "The Lost Episodes", un secondo CD dedicato al Petit Wazoo tour (il primo è stato "Imaginary Diseases" del 2006), un concerto del Bongo Fury tour con Captain Beefheart, un progetto companion di "The Lumpy Money Project/Object", il concerto al Ritz di New York del 17 Novembre 1981, considerato dai fan come uno dei migliori in assoluto e "The Mothers Live at the Whiskey", un album dal vivo preparato da Zappa nel 1968, rimasto inedito. Dovremmo aspettarci queste cose? Sicuramente sì, ma non in questa priorità e, probabilmente, non tutte nella maniera in cui le hanno annunciate. Ma d'altra parte, una delle cose più belle delle uscite postume di Zappa è che, così come quando era in vita, è assolutamente impossibile predire cosa uscirà e in che modo. Per questo motivo, auspichiamo che l'eccitazione che c'è ogni volta che una nuova release viene annunciata sia destinata a permanere per ancora un bel po' di tempo!



Potete comprare gli album al BARFKO-SWILL SHOP!

NOTA - Questo articolo è il terzo della serie dedicata alle uscite postume di Frank Zappa:


  1. Frank Zappa II
  2. Frank Zappa II 2.0
  3. The Return of the Son of Frank Zappa II
  4. Frank Zappa's continuing voyage into the twilight realm of his own secret thoughts

giovedì 4 dicembre 2014

Hot Poop - Numero 4 - We Are Not Afraid

Una sera d’estate, un paio di amici e qualche birra. Così ho conosciuto i We Are Not Afraid (o Wana, per chi non ha tempo da perdere). Suonavano all'esterno di una birreria e, dato che più di qualche mio conoscente già spendeva belle parole su di loro, colsi l'occasione per fermarmi ad ascoltarli.
Ad essere sincero non ne uscii pienamente appagato. Ok, l’ambiente non era il massimo, i synth e la batteria poggiavano sulla strada di fronte al locale in maniera piuttosto rustica, limitando fortemente lo spettacolo, ma quello che non mi convinceva davvero era la cosa più importante: il loro suono, all'epoca influenzato pesantemente dalla brostep. Da amante della musica elettronica, non mi sono mai posto limiti sui vari sottogeneri che questa musica giorno dopo giorno partorisce, e di fatto sono passato anche per quella dubstep di cui Skrillex è la figura di riferimento. Quando però finii a quel loro live, nell'estate del 2013, la brostep era già bella che morta. Beat, melodia orecchiabile e drop non facevano più per me e quella sera fu tutt'altro che memorabile, complici anche i litri di birra. 

E’ passato più di un anno da quell'incontro e di strada i Wana ne hanno fatta tanta. Il progetto nasce in realtà nel 2011 dalla mente di Elia Bazzan (tutt'ora membro) ed Enrico Zanirato. Il percorso intrapreso dai due aveva un taglio tra il post rock e l’elettronica. Poi, a fine 2012, è subentrato nella band Emanuele Brizzante, attuale batterista, e i suoni hanno cominciato a spingersi sempre più verso l’elettronica e sempre meno verso il post rock. L’avventura dei tre durerà però pochissimo poiché Zanirato abbandonerà il gruppo dopo pochi mesi, lasciando proseguire Elia ed Emanuele il percorso iniziato.
Si diceva, di cambiamenti i due ne hanno fatti in questi due anni di collaborazione, andando a toccare vari generi, sempre sperimentando e alla ricerca dell’innovazione, passando dalla dubstep, dal synthpop, dal glitch.

La vera novità proposta dai due è però "Holes", il loro nuovo album. In questo prodotto quello che salta subito all'orecchio è che sono i bassi a farla da padrone; bassi non più d’ispirazione dubstep, ma che si confondono all'interno di pezzi techno, trap, rave e noise, riuscendo inevitabilmente a mettere d'accordo diversi tipi di pubblico. L’idea, filo conduttore di tutto il disco, è quella di far sentire l’ascoltatore come se si trovasse ad un party di Grooverider sotto MDMA nei primi anni '90. Per otto tracce, infatti, si viene catapultati con la mente all'interno di un oscuro club, assaliti da una gran voglia di spaccare la testa contro un muro. Si percepisce, fin da subito, che l'intero album è studiato proprio per essere suonato live, reale punto di forza dei We Are Not Afraid che, in poco tempo, grazie alle loro performance dal vivo, sono riusciti a farsi un nome soprattutto nell'Est Europa, dove il suono proposto dal gruppo è di casa. Le influenze sono palpabili, proprio come i synth che aprono la strada ai bassi massicci che si impongono prepotenti per tutta la durata dell’album. Ci si avvicina ai prodotti della Hyperdub Records con "Buttons", a quelli mathrock dei 65daysofstatic con "Leitmotiv", passando per la trap proposta in "Sharks", e ondeggiando sulle note di "Chrome" grazie all’angelica voce di Olivia Denis (talentuosa cantante francese), il tutto capeggiato da dell’ottima techno d’ispirazione "Gesaffelsteiniana". I suoni cupi e violenti finiscono però con un’ultima, morbidissima, traccia suonata a pianoforte: "Faded". Con questo pezzo si raggiunge l'epilogo, e si raggiunge con l’ambiguità di una carezza dopo uno stupro. Dopo più di 25 minuti di bassi giganti e sintetizzatori taglienti, i Wana salutano l'ascoltatore con un gesto di affetto, quasi a scusarsi per i litri di sudore che ha dovuto lasciare sulla maglietta o ai denti che ha perso nella violenza di un pogo al centro della pista.  

"Holes" è un disco consapevole. Consapevole del livello che la musica elettronica ha in Italia, confrontata con paesi come Francia, Inghilterra, Germania o Est Europa, dove le sonorità espresse dai We Are Not Afraid sono il pane quotidiano per qualsiasi clubber. E' un disco coraggioso, un disco frutto di anni di esperienza e studi, nonostante la giovane età dei protagonisti, che hanno mischiato il loro passato, chi più orientato verso il punk, chi più verso la musica classica, in quella che è la magia dell'elettronica, capace di unire restando sempre al passo con i tempi.

E forse uno di quei tanti "holes" in cui spesso sprofonda la musica nostrana, con questo disco, è stato riempito.




Album acquistabile su:


domenica 23 novembre 2014

Bryan Ferry - Avonmore (BMG Rights Management, 2014)

Ci sono alcuni gruppi o artisti che sono dei veri e propri fiumi in piena: appena hanno qualcosa di pronto lo pubblicano immediatamente, finché il ferro è caldo. Altri, invece, curano con particolare meticolosità tutti i loro lavori, rallentando il ritmo di pubblicazione, ma tenendo sempre il loro standard di lavoro non meno di un certo livello. Bryan Ferry, conosciuto sia per la sua carriera solista, sia per essere stato il frontman dei leggendari Roxy Music, fa parte della seconda categoria. Quando Ferry inizia una serie di session in studio, generalmente non lo fa per usarne tutto il materiale per un progetto specifico, così come, nel caso in cui lo facesse, non è detto che le cose non possano subire bruschi cambiamenti. Se da una parte, questo potrebbe rendere gli album meno spontanei, dall'altra tendono a risultare molto più ben costruiti e studiati. Il suo quindicesimo album, "Avonmore", edito questo 17 Novembre, non è un'eccezione: sebbene non ci sia stata nessuna parola ufficiale al riguardo, a giudicare dalla lista di musicisti, almeno parte del materiale è stato quantomeno iniziato durante le session del disco di inediti precedente, "Olympia", uscito nel 2010. E, a proposito del cast di questo album, ancora una volta abbiamo la crema della crema: oltre ad alcuni dei più grandi session-man in circolazione (tra i tanti: Marcus Miller, Chris Spedding, Guy Pratt, Andy Newmark, Fonzi Thornton), ci sono altri ospiti illustri (Johnny Marr degli Smiths, Mark Knopfler, FleaHanne Hukkelberg), recenti acquisti che vengono confermati (i giovani Oliver Thompson e Tara Ferry, figlio di Bryan) e nuovi gregari che finalmente hanno l'occasione di apparire in studio (la batterista Cherisse Osei, in tour con Bryan dal 2012). Insomma, gli unici che mancano all'appello sono i suoi compagni di avventura dei Roxy Music, che, invece, comparivano abbondantemente su "Olympia".

Arrivato a questo punto della carriera, Ferry non sta più cercando un nuovo sound, quindi, chi si aspetta un radicale cambiamento rispetto ad "Olympia", è destinato a rimanere deluso. Comunque sia, questo non significa che l'artista Inglese non sia in grado di offrire qualcosa di nuovo anche all'interno del suo genere o che non possa alzarne ulteriormente il grado di qualità. Mentre il precedente risultava, forse, un po' troppo come una collezione di buone canzoni montate senza una cornice ben precisa, "Avonmore" sembra avere una direzione più chiara e ragionata, con ogni brano che suona bene sia singolarmente, sia nel suo contesto. L'unico momento in cui il disco sembra perdere un po' di peso, come sequenza, è proprio alla fine, durante gli ultimi due brani, guarda caso, due cover: "Send in the Clowns" , composta da Stephen Sondheim per il musical "A Little Night Music" e resa celebre da Frank Sinatra e Judy Collins, e "Johnny and Mary" di Robert Palmer. Non è che la qualità di questi due arrangiamenti sia scarsa o altro, ma "Send in the Clowns" avrebbe beneficiato di un'altra posizione nell'album, e "Johnny and Mary" più che il brano finale suona un po' come una bonus track e, in effetti, è la stessa versione, solo leggermente modificata, che era apparsa sul disco "It's Album Time" del DJ Norvegese Todd Terje che si era avvalso della collaborazione di Ferry. Piazzata come finale, risulta come un leggero anticlimax slegato dal resto del disco, cosa sottolineata anche dalla produzione, completamente diversa. I brani originali sono molto meglio: il singolo "Loop De Li" e "One Night Stand" ci riportano direttamente ai tempi d'oro di "Bête Noire", qualitativamente e stilisticamente, con dei refrain che avrebbero potuto uscire solo dalla mente di Ferry. "Driving Me Wild" e "Midnight Train" sono due pezzi più in linea con il Bryan che abbiamo visto su "Olympia": moderni nell'arrangiamento, tipicamente un prodotto dei giorni nostri, eppure non abbastanza calati da correre il rischio di risultare datati tra qualche anno, mentre "A Special Kind of Guy" e "Lost" ci mostrano il crooner a cui molti fan erano abituati, ancora in perfetta forma. Menzione a parte meritano "Soldier of Fortune", composta insieme a Johnny Marr, un brano squisito, dove la melodia vocale si sposa ad un arrangiamento molto azzeccato, e la title-track, scritta a quattro mani col chitarrista Oliver Thompson, uno dei migliori brani usciti in un disco di Bryan Ferry degli ultimi tempi: energica, coinvolgente e allo stesso tempo non stucchevole o scontata.

Gridare al miracolo, ovviamente, sarebbe fuori luogo: "Avonmore" non è il migliore album di Bryan Ferry, e, se dovessero uscirne altri in futuro (impossibile non notare l'assonanza nel titolo tra questo album e "Avalon", l'ultimo dei Roxy Music), non possiamo sperare che, uno di questi, sarà il capolavoro dell'artista Inglese. Tuttavia, lo standard qualitativo è sempre molto alto, e, chi scrive, lo preferisce sicuramente a "Olympia", e non di poco. Bisogna anche aggiungere che Ferry, nonostante ormai abbia ben definito il suo terreno stilistico, è uno dei pochi artisti in grado di mettersi in discussione e di re-inventarsi: la sua voce non è più quella un po' belante dei primi Roxy Music, né il suadente crooner di "Boys and Girls". Eppure, questo nuovo materiale è stato studiato a pennello per la sua timbrica attuale, e il suo cantato suona adatto e fresco come nei dischi già citati. Quindi, sebbene "Avonmore" giochi su piste già battute, lo fa in maniera coerente e non scontata, e si tratta di un prodotto decisamente notevole, difficilmente in grado di scontentare anche i fan di vecchia data. Se dovesse, effettivamente trattarsi dell'album conclusivo della carriera di Ferry (e speriamo di no, visto che sembra avere ancora qualcosa da dire), sarebbe una maniera molto elegante e meritevole di chiudere il sipario. Comunque, a dirla tutta, Bryan Ferry non è un artista poi così prevedibile nemmeno al giorno d'oggi: basti pensare che il disco precedente, intitolato "The Jazz Age", consisteva in una rivisitazione di classici suoi e dei Roxy Music in versioni jazz anni '20, per cui, il pensiero che in futuro possa colpirci con qualcosa di completamente inaspettato non è da cancellare del tutto.





sabato 8 novembre 2014

Pink Floyd - The Endless River (Parlophone / Columbia, 2014)

È incredibile quanto sia difficile cominciare una recensione per un nuovo album dei Pink Floyd; tanto più che, fino a poco tempo fa, complice anche la morte del tastierista Richard Wright nel 2008, l'ipotesi di avere un nuovo lavoro in studio del leggendario gruppo Inglese era completamente impensabile. Prima di parlare del disco in sé, forse è meglio fare qualche considerazione. È innegabile che la richiesta per un nuovo album dei Pink Floyd fosse stata altissima e continuamente crescente dal momento in cui finì il tour del 1995, da cui venne tratto il live album "Pulse", eppure, nonostante tutto, l'annuncio dell'uscita di questo album ha causato tanti plausi quante polemiche. Ovviamente, in primis, quelli che amano definirsi i fan di nicchia si sono subito affrettati ad affermare che, senza Roger Waters, i Pink Floyd non possono esistere. Partendo dal presupposto che giudicare male un disco prima di averlo effettivamente ascoltato non ha senso, è importante ricordarsi che, per quanto la cosa possa essere fastidiosa a dirsi, nessun fan potrà mai stabilire chi siano e chi non siano i Pink Floyd; Waters stesso, dopo essere stato assillato da fan che gli chiedevano se sarebbe stato nel nuovo album ha dovuto specificare, tramite una nota ufficiale su Facebook che "Nick (Mason) e David (Gilmour) costituiscono il gruppo dei Pink Floyd; io non ne faccio più parte. Ho lasciato il gruppo nel 1985, 29 anni fa. Non c'ero nemmeno negli altri due album in studio "A Momentary Lapse of Reason" e "The Division Bell" e non ci sono su "The Endless River" ".  Secondo altri, invece, questo disco sarebbe una speculazione fatta sull'anima di Richard Wright pubblicando un album costituito da scarti e, anche qua, la cosa non è del tutto esatta. "The Endless River" è stato iniziato in contemporanea a "The Division Bell", tanto più che, inizialmente, doveva essere parte dell'album stesso ed è stato gradualmente completato nel corso degli anni, tra un progetto e l'altro, per essere stato finito solo ora. Peraltro, notando la natura del disco, è anche facile capire perché Waters sarebbe stato fuori posto: è pur vero che le acque (se mi perdonate l'orribile gioco di parole) tra lui e i rimanenti membri dei Pink Floyd si sono calmate ma, vista l'impossibilità di aggiungere nuovo materiale al disco, il bassista e compositore sarebbe stato relegato ad un ruolo di secondo livello, così in basso che, appunto, sarebbe stato meglio non avesse partecipato in toto. Un'altra polemica, come al solito, viene data dai detrattori delle cosiddette "reunion"; a parte il fatto che questa non è una reunion al 100%, visto che si tratta, per l'appunto, di un completamento di un progetto dell'epoca, anche se fosse, è abbastanza sciocco pensare che la musica sia per forza scarsa o resa male in questi contesti: basti solo pensare alle spettacolari reunion dei Cream, dei Police, degli UK, dei Van Der Graaf Generator e degli Area, tanto per fare un bel po' di esempi concreti (anche se, per amor di cronaca, è bene specificare che, a parte gli ultimi due casi, non è scaturito nuovo materiale da queste nuove fasi dei gruppi).

Comunque, dopo tutta questa filippica, forse è meglio cominciare a parlare anche della musica contenuta su questo "The Endless River". Il disco è quasi integralmente strumentale, salvo qualche campione parlato e la conclusiva "Louder Than Words", ed è diviso in quattro parti, come se si trattasse di un doppio vinile, evidentemente, dentro le quali, i pezzi sfociano l'uno nell'altro senza soluzione di continuità, come se si trattasse di quattro suite. In realtà, l'album suona meno pesante di come potrebbe apparire dalla descrizione, anche se la descrizione dell'album come "ambient" data da Gilmour e Mason è senza dubbio esagerata, sebbene il disco sia innegabilmente molto suggestivo e atmosferico. In sé, da questo punto di vista, non c'è nulla di eclatante: queste cose, i Pink Floyd, le avevano già fatte negli anni '60 con brani come "Careful With That Axe, Eugene", "A Saucerful of Secrets" e "Quicksilver", tanto per citarne qualcuno. La novità sta nel fatto che, stavolta, si parla di un album intero approcciato in questo modo. La prima cosa che sicuramente salta all'orecchio è che alcune sezioni sono variazioni di classici del gruppo ma, più che un riutilizzo dovuto ad una mancanza di idee, sicuramente si tratta del filo concettuale dell'album: il fiume senza fine, con l'acqua che scorre e ritorna. D'altra parte, nemmeno il titolo in sé è nuovo, visto che proviene da una strofa di "High Hopes", brano conclusivo di "The Division Bell" e, sicuramente, è più adatto del titolo che questo progetto aveva nelle sue fasi iniziali: "The Big Spliff" (ammesso e non concesso che si trattasse dello stesso identico materiale; si vocifera che, tra cose più complete e meno complete, queste session abbiano prodotto all'incirca ben 20 ore (!) di musica).

Il disco si apre con "Things Left Unsaid", che inizia con dei lunghi drone di tastiere e dei sample vocali tratti da alcune interviste al gruppo effettuate nel 1987, che lasciano spazio alla chitarra di Gilmour, a cui poi segue "It's What We Do", un brano che riparte da dove "Shine on You Crazy Diamond" aveva lasciato, risultando un miscuglio tra la terza e la nona parte. La sezione viene chiusa da "Ebb and Flow", una sorta di reprise di "Things Left Unsaid" ma, laddove quel brano risultava inquieto e in tensione, qui la stessa musica viene vista sotto un occhio diverso, più rilassato e pacifico.

La seconda "facciata" del disco è più variegata e complessa. "Sum", anche grazie all'uso del sequencer, ci riporta direttamente ai tempi di "The Wall", sembrando quasi una reprise strumentale della terza parte di "Another Brick in The Wall"; segue "Skins", basata su degli interessanti e creativi pattern ritmici di Nick Mason, sui quali Gilmour improvvisa un interessante e sperimentale assolo di chitarra. "Unsung" non è altro che un breve minuto di transizione, dominato da un sequencer VCS3, a cui segue "Anisina", chiaramente basata sul classico "Us and Them": la parte di basso è praticamente la stessa, e compare il sassofono, suonato da Gilad Atzmon, anche se il pezzo prende innegabilmente vita propria con il malinconico assolo di chitarra finale. Questo pezzo è uno di quelli chiaramente composti dopo il 1994: Wright è assente, ma il piano, suonato da Gilmour, e la composizione chiaramente vogliono rendere un tributo al loro "compagno caduto" che, sebbene stesse un po' in disparte, era un membro essenziale al sound del gruppo e, come se non bastasse, il titolo è una parola Turca che ha il significato di "in memoria di...". Se l'album fosse stato concluso da questo brano, nessuno avrebbe avuto nulla da obbiettare sulla sua efficacia come finale.

La terza sezione del disco, probabilmente, è la migliore di tutte e quattro; forse perché è l'unica che suona come se fosse una vera e propria suite, piuttosto che una serie di brani strumentali che si susseguono pur non essendo correlati tra di loro. "The Lost Art of Conversation"  è un bel modo di aprire questa parte dell'album, con dei meravigliosi interventi melodici di Gilmour e Wright su un tappeto di sintetizzatore; "On Noodle Street" è notevole soprattutto per il pulitissimo e precisissimo basso di Guy Pratt che sembra essere il vero protagonista del pezzo, cosa scandita anche dagli interventi solisti di Gilmour, tenuti volutamente bassi nel mix, mentre "Night Light" dà un senso di continuità all'album, essendo una sorta di reprise di "Things Left Unsaid". "Allons-y" è un brano spezzato in due parti che tronca bruscamente l'atmosfera che si era creata fino ad ora, con un bel rock pompato ed energico, che chiaramente si rifà a "Run Like Hell". Il titolo di "Autumn '68" non è solo evocativo, ma è anche reale: si tratta di un frammento di un'improvvisazione di Richard Wright registrato alla Royal Albert Hall durante un soundcheck prima di un concerto, durante il quale, il tastierista aveva improvvisato sul famoso organo a canne della sala, a cui sono state aggiunte sovraincisioni in modo da poterlo rendere omogeneo al resto del disco; questo è un altro brano aggiunto chiaramente nelle fasi finali del disco: le sovraincisioni non fanno altro che risaltare il playing su organo e le parti di tastiere che si sentono in più non sono state suonate da Wright, ma da Damon Iddins. La seconda parte di "Allons-y" riemerge bruscamente ancora una volta, causando un nuovo sussulto nell'atmosfera, per poi lasciare spazio alla maestosa, ma poco fantasiosamente intitolata, "Talkin' Hawkin'" uno strumentale intenso e meditativo allo stesso tempo, sul quale sentiamo ancora una volta gli stessi sample vocali della voce elettronica del fisico Stephen Hawking che avevamo già sentito in "Keep Talking" su "The Division Bell".

La quarta e ultima parte del disco è aperta da "Calling" e, come le altre parti introduttive è essenzialmente un tappeto di tastiere con altre sovraincisioni, anche se, questa volta il risultato è molto più meccanico e distorto; l'atmosfera tesa continua con "Eyes to Pearls", basata su un giro di chitarra ossessivo, supportato da altrettanto ossessive percussioni di Mason. La successiva "Surfacing", invece, per contrasto, risulta molto pacifica, con una chitarra acustica prominente e dei bei cori. Le campane che abbiamo sentito all'inizio di "High Hopes", forse un po' prevedibilmente, risuonano anche in lontananza nella transizione tra questo pezzo e "Louder Than Words", l'unico cantato del disco. La calda voce di Gilmour sembra riportarci alla realtà e a condurci gentilmente fuori dallo stato etereo in cui eravamo immersi fino a poco prima. Sebbene il pezzo non sia assolutamente un finale di discografia migliore di quanto lo fosse stato "High Hopes", soprattutto per colpa di un ritornello non proprio eccezionale e per un assolo di chitarra molto generico, il brano risulta comunque emotivamente molto forte, anche grazie al testo di Polly Samson, compagna di Gimour e autrice di altri testi su "The Division Bell". Dopo un falso finale ed una coda nella quale una chitarra imita il suono di un sequencer, siamo arrivati veramente alla fine: della discografia e dei Pink Floyd

Complessivamente, "The Endless River" è un buon prodotto, nel quale non si avverte nemmeno la carenza di ispirazione che si sentiva durante alcune parti degli altri album del gruppo di questa formazione. La costruzione delle quattro suite è molto intelligente e le variazioni sui classici del gruppo sono fatti con gusto, quindi, se non altro, chi temeva che questo album fosse una raschiatura del barile, può tirare un sospiro di sollievo. La produzione (affidata a Gilmour e ad altri illustri nomi come Phil Manzanera dei Roxy Music, Martin Glover dei Killing Joke e Andy Jackson) è ottima: nitida, cristallina ma allo stesso tempo molto calorosa perfettamente funzionale alla musica. Ovviamente non è un disco perfetto: completare un album dopo così tanto tempo è sempre un rischio, soprattutto se, tra l'inizio e la fine, uno dei membri chiave del gruppo viene a mancare. Anche per questo motivo, in alcune sezioni, specialmente la prima, il disco suona come se fosse incompiuto o se mancasse qualcosa. Impossibile, comunque, non porsi la domanda che ci si chiede solitamente davanti a progetti del genere: era davvero necessario questo album? Possiamo fare tutte le congetture del mondo, ma la risposta ce la possono dare solo Gilmour e Mason: se nel momento in cui avevano deciso di riprendere in mano "The Big Spliff"  lo hanno fatto pensando a questo lavoro come la chiusura di un cerchio a cui mancava qualcosa, la risposta allora è "sì". Dal canto nostro, tutto ciò che possiamo dirvi è che questo disco è un buon "post-scriptum" alla discografia dei Pink Floyd, ed è un modo dignitoso e intelligente per consapevolmente porre fine a quello che è stato uno dei gruppi più importanti della storia del rock.



mercoledì 9 luglio 2014

Magma - AKT VIII: Concert 1971 - Bruxelles - Théâtre 140 (Seventh Records, 1996)

I Magma sono sicuramente una delle formazioni più geniali ed inconsuete della musica del secolo scorso, uno di quei gruppi che possono essere presi come esempio concreto da coloro che reputano la musica popolare non meno interessante e originale di quella classica. Formatisi nel 1969 dalla geniale mente del portentoso batterista Francese Christian Vander, sicuramente uno dei migliori in Europa, i Magma sono un progetto tanto musicale quanto concettuale. Il loro stile inizialmente si ispirava inconfutabilmente alle influenze più jazz di Vander che come idoli aveva John Coltrane (in primis), Miles Davis e Tony Williams, per poi, in futuro spostarsi anche verso alcune sonorità tipiche della musica vocale del XIX-XX secolo, cercando di mescolare questi due ingredienti solo apparentemente inconciliabili. Se tutto questo non bastasse a renderli un gruppo unico, la maggioranza delle loro composizioni non è cantata in Francese o Inglese, bensì in Kobaiano, una lingua inventata dallo stesso Vander, ispiratosi ad alcuni degli antichi linguaggi Germanici. Teoricamente, l'intera discografia dei Magma ha come tema il destino e la storia del lontano pianeta Kobaia, nel momento in cui entra a contatto con la terra, in un clima misto tra guerra e pace, come con tutte le diversità sociali comuni.

Nel 1992 viene inaugurata la serie "AKT", che si ripropone di pubblicare alcune registrazioni di archivio, dei Magma e di altri progetti relazionati a Vander che, per motivi storici o musicali, sono considerati episodi essenziali della carriera del batterista Francese. Questo doppio CD registrato a Bruxelles il 12 Novembre 1971 è l'ottavo volume della serie e rappresenta la più vecchia registrazione integrale di un concerto dei Magma rinvenuta fino ad allora. A questo punto, il gruppo stava portando in tour il suo secondo album, "1001° Centigrades": in questo splendido disco, che qui viene eseguito integralmente, la matrice jazz si sentiva ancora di più rispetto al primo omonimo doppio album (a volte stampato anche col nome di "Kobaia"), complice anche il cambio di formazione, con il chitarrista Claude Engel che abbandonò la nave senza essere sostituito. La versione dei Magma presente a questo concerto, oltre a Christian Vander alla batteria e alla voce, consisteva in: Klaus Blasquiz alla voce solista e alle percussioni, François "Faton" Cahen al piano e al fender rhodes, Francis Moze al basso, Teddy Lasry al clarinetto, al sassofono e al flauto, Louis Toesca alla tromba e Jeff Seffer al sassofono e al clarino basso. La qualità audio del doppio CD non è perfetta, ma più che di una cattiva registrazione, si parla di un mixaggio non esattamente ideale: sicuramente, la registrazione non è stata effettuata in multitraccia e quello che sentiamo è un monitor mix, ovvero quello che i musicisti sentivano sul palco. La musica contenuta, comunque, è semplicemente splendida. Così com'è stata impostata, la scaletta del concerto potrebbe essere divisa facilmente in tre parti: passato, presente e futuro.

Il concerto si apre con "Stoah", il pezzo più ostico del primo album, già ostico per sé, introdotto da alcune inquietanti urla disumane di Vander, prima di trasformarsi in una diabolica marcia che, anche se più convenzionale rispetto alla sua introduzione, non risulta meno terrorizzante. Invece di passare al finale, la sezione centrale di "Stoah" segue senza soluzione di continuità e con grande musicalità in "Kobaia", il brano più orecchiabile del primo album, nonché l'unico cantato in Inglese, anche se questo verrà rettificato qualche anno dopo sul disco dal vivo"Live/Hhaï" dove anche questo pezzo verrà riarrangiato e trasformato in Kobaiano, con il titolo di "Kobah". Nonostante il dissonante assolo di sassofono, questo brano è perfetto per spezzare la tensione pur senza allentare di troppo la guardia, con la sua prima parte rockeggiante e la seconda più vicina al progressive rock di alcuni colleghi come i Soft Machine, con un drumming ed una sezione fiati da brividi. L'arrangiamento, sorprendentemente, non si discosta poi così tanto dall'originale, sebbene là, specialmente nella prima parte, la chitarra avesse un ruolo fondamentale. "Aïna" è il terzo ed ultimo brano estratto dal primo album e, rispetto alla sua controparte in studio, sostituisce le parti di piano originali con una nuova parte al Rhodes, probabilmente per compensare l'assenza di un chitarrista; questo cambia soprattutto il feeling dell'introduzione che più che jazzata, ora suona decisamente sognante ed eterea; il resto del pezzo, che, a parere di chi scrive è uno dei migliori della prima fase del gruppo, è solo più veloce ed energico, ma rimane abbastanza fedele all'originale. Dopo questa ricapitolazione dal primo album, viene eseguito per intero il disco "1001° Centigrades", album che potrebbe essere considerato come quello più democratico del gruppo, visto che Vander firma solo una delle tre lunghe composizioni ivi contenute; si tratta di "Rïah Sahïltaahk", che originariamente occupava tutta la prima facciata dell'album. Tuttavia, non deve stupire che questo sia l'unico dei tre brani a puntare verso la direzione futura del gruppo, verso il tanto osannato "Mekanïk Destrüktiw Kommandöh" che uscirà nel 1973. Come il materiale di quell'album, "Rïah Sahïltaahk" è costituita principalmente da cori e da canti che sembrano ispirati dalle opere di Orff e Wagner, ma, a differenza di quel disco, la vena melodica legata al rock progressivo dell'epoca è ancora molto palpabile, collocandosi quindi come un ponte tra il primo periodo e il secondo classico. La versione in studio del pezzo presentava diverse sovraincisioni vocali che, a questo punto della carriera del gruppo, con solo Blasquiz a occuparsi delle parti vocali principali, erano impossibili da riprodurre dal vivo e, infatti, in questa versione vengono ignorate. Alcune di queste sezioni vengono del tutto saltate, lasciando una sorta di spazio vuoto perfettamente percepibile da chi conosce la composizione, altre vengono rimpiazzate dalla sezione fiati; il brano viene anche leggermente accorciato, lasciando fuori una sezione presente verso l'inizio e saltando il finale della versione in studio. Il risultato è sicuramente apprezzabile ed è impressionante quanto si sia fatto per poter rappresentare dal vivo un brano così difficile. Una curiosità: qualcuno della casa discografica, all'epoca, ebbe la balzana idea di considerare i primi tre minuti di questa composizione come un buon pezzo rock con potenziale commerciale, nonostante l'ostico linguaggio Kobaiano; vennero così estratti i primi minuti e pubblicati su 45 giri (!) col titolo di "Tendeï Kobah". Come immaginabile: le vendite furono pari a 0 e il singolo oggi è diventato una rarità per collezionisti. Qui termina il primo dei due CD.

Il secondo disco prosegue col resto del concerto e con il resto della rappresentazione dal vivo di "1001° Centigrades", con ""Iss" Lanseï Doïa", composta dal fiatista Lasry. Il brano presenta qualche differenza di arrangiamento con la sua parte in studio, nello specifico l'introduzione di basso viene eseguita dal piano, l'assolo di tromba si trova in una sezione differente, nell'ultima sezione del brano il drumming di Vander è un po' troppo sopra le righe rispetto agli splendidi fraseggi all'unisono che eseguiva in studio e l'inquietante finale originale, dove venivano eseguiti alcuni lamenti sopra qualche nota di piano minimalista e il ticchettio di un orologio, viene del tutto ignorato. Infine, per completare l'album, vi è "Ki Ïahl Ö Lïahk", composta da "Faton" Cahen, sicuramente il brano più tradizionale dei tre ed eseguito praticamente alla lettera, a parte la sostituzione del sassofono al clarinetto nella prima parte del brano e alla presenza di un conclusivo (ed eccellente) assolo di batteria di Christian Vander, assente dalla versione in studio. Dopo aver attraversato il passato con i tre brani dell'album precedente, dopo aver dato una lunga occhiata al presente con il nuovo disco in versione integrale, i Magma concludono il concerto con una mezz'ora di materiale nuovo che, con varie modifiche, sarà incluso negli album futuri. "Sowiloï (Soï Soï)" vedrà la luce su disco solo nel 1977 all'interno dell'album dal vivo "Inédits", ma verrà eseguita regolarmente durante la carriera; qui manca ancora della sua caratteristica introduzione, ma in aggiunta, abbiamo uno splendido assolo di flauto di Lasry. Come ultimo brano, a sorpresa, viene eseguito per la prima volta in assoluto un embrione di "Mekanïk Kommandöh" che due anni dopo, sarà la sezione centrale e portante di (ovviamente) "Mekanïk Destrüktiw Kommandöh". In questo stato, il brano non ha ancora assunto i toni apocalittici che ci saranno in futuro, anche se il caratteristico coro che lo domina è già presente, e si tratta più che altro di un altro omaggio di Vander al jazz classico: questo particolare arrangiamento si apre addirittura con una bossa nova, prima di diventare gradualmente la tesa marcia trionfale conosciuta da tutti i fan, anche se il finale a questo punto, non era stato ancora scritto. I Magma tenteranno di registrare una versione di questo arrangiamento ridotta a 5 minuti per farlo uscire come 45 giri, ma, non sorprendentemente, le vendite saranno le stesse di "Tendeï Kobah" (questa prima versione in studio è stata ristampata in digitale nel 1998 all'interno del CD "Simples").

Con i suoi 85 minuti, questo concerto a Bruxelles si rivela molto interessante, sia dal punto di vista filologico, che da quello musicale. Le selezioni dal primo album sono eseguite con un calore ed una sapienza tali da essere quasi superiori alle loro controparti in studio, l'esecuzione integrale di "1001° Centigrades" si rivela un'ottima alternativa alla sua versione studio e le versioni primordiali dei due classici sono abbastanza diverse da poter avvicinarcisi di nuovo con un buon approccio; se c'è un minimo difetto da fare all'esecuzione del concerto è il troppo entusiasmo in alcune sezioni (""Iss" Lanseï Doïa" su tutte) che porta ad alcune sbavature. Generalmente, l'impressione che si ha ascoltando l'album, è di un gruppo giovane ed entusiasta che crede in quello che sta facendo: per sottolineare la cosa, all'epoca il pianista John Hicks aveva proposto a Vander di raggiungerlo negli Stati Uniti per suonare con lui, ma, il batterista Francese optò rischiosamente per la continuazione del progetto Magma, che non voleva assolutamente abbandonare. Il doppio CD in sé, come la stragrande maggioranza delle release d'archivio, non è qualcosa per il fan casuale, ma, in questo caso, non è nemmeno solo ad uso e consumo dei fan più accaniti che vogliono avere qualsiasi cosa uscita a nome del gruppo. Come già accennato, il sonoro, più che essere scarso per via della registrazione, è disturbato da un mixaggio non ideale anche se, man mano che si procede nell'ascolto, il bilanciamento dei volumi viene sistemato e, ora che si arriva al termine del CD, diventa un po' più accettabile, cosa che confermerebbe la nostra teoria che si tratti di un monitor mix. Inoltre, strano ma vero, non è presente nessun taglio udibile nella registrazione: probabilmente, il cambio lato della cassetta originale era ubicato tra un brano e l'altro, così, fortunatamente, non è andato perso alcun momento musicale; in alternativa il gruppo stava registrando con due nastri contemporaneamente in modo da non perdere niente al cambio di lato anche se si tratta di un'ipotesi difficile visto il sonoro non proprio professionale. Comunque, oltre all'indiscusso valore storico, ciò che rende questo CD così interessante anche per i collezionisti più arditi è la presenza di alcuni brani che sarebbero presto stati cancellati dalle scalette del gruppo: questa è l'unica registrazione dell'epoca a contenere "Rïah Sahïltaahk" che, sicuramente a causa della sua complessità e della difficoltà a riprodurla come in studio, di lì a poco sarebbe stata cancellata dalle scalette per non riapparire fino al 2010. Anche "Aïna" è un brano praticamente introvabile nelle registrazioni dal vivo e, da lì a poco, dei brani del primo album sarebbe rimasta solo "Stoah", con "Kobaia" usata solo occasionalmente come tappabuchi, prima di essere completamente riarrangiata e venire reintitolata "Kobah", come già citato. A coloro che sono interessati al gruppo avendo già avuto occasione di assaggiarlo e che possono sopportare una qualità audio non perfetta (ma comunque ascoltabile, comprensibile e meglio di molte altre pubblicazioni di archivio), l'acquisto di questo volume della serie "AKT" è fortemente consigliato.

I Magma sono in attività ancora ad oggi,anche se l'unico membro a rimanere di questa formazione è il solo Vander, sebbene Klaus Blasquiz sia stato uno dei pilastri dell'era classica del gruppo, e continuano a sfornare dischi secondo il loro stile classico, continuando a stupire e a risultare sempre molto enigmatici al primo ascolto, anche se, come quasi tutti i gruppi dell'epoca, hanno subito uno scivolone negli anni '80, durato fortunatamente un solo album: il mediocre "Merci". L'ultimo disco in studio è "Félicité Thösz" del 2012, ma il gruppo sta già portando avanti dal vivo alcune nuove composizioni che usciranno presto (si spera) in un nuovo album. Nel frattempo, le pubblicazioni "AKT" continuano ad uscire e, al momento della pubblicazione di questo articolo, sono arrivati alla #16; l'ultima di queste riguardante i Magma è uscita nel 2009 e si tratta di un doppio CD contenete una registrazione integrale di un concerto a Bourges del 1979.


venerdì 27 giugno 2014

Hot Poop - Numero 3 - The Twisters with Alice Violato

I Twisters, talentuosa formazione del Sud del Veneto, hanno avuto il loro debutto discografico nel 2007, con l'album "Blowin' The Blues Everywhere" e, nel 2010, comincia il loro sodalizio con la cantante Alice Violato, con la quale incidono"No Ordinary Blues". Questo "MusicOdyssey" di cui parliamo ora è il loro terzo lavoro e, attualmente, il gruppo è composto, oltre che da Alice, da Paolo Bacco alla chitarra, Claudio Lupo alle tastiere, Nick Muneratti al basso, Matteo Coassin alla batteria.

Sicuramente il migliore della discografia, "MusicOdyssey" ha la caratteristica di essere un disco particolarmente eterogeneo ma allo stesso tempo coerente e non una semplice accozzaglia di vari stili musicali non relazionati tra di loro. "No ordinary blues" potrebbe, a questo punto, essere la descrizione perfetta della direzione artistica che The Twisters with Alice Violato hanno deciso di percorrere. In effetti, ciò che rende compatto il disco è comunque la matrice blues presente in tutti i brani anche se ogni composizione ha comunque una sua forte personalità. I 10 brani qui proposti sono accreditati a Bacco e/o a Violato, ma, ascoltando l'album, è impossibile non notare quanta minuzia è stata posta nell'arrangiamento di ogni singolo pezzo, sicuramente un lavoro di gruppo al 100%. Come esempio, possiamo prendere "I Want it Funky" che, nelle mani sbagliate, sarebbe potuta diventare un brano irritante e banale; il gruppo, invece, sceglie di arricchire il pezzo con una scelta di strumentazione ben studiata e azzeccata (il clavinet, lo slap sul basso, la chitarra col wah-wah, una batteria potente e precisa e una voce potentissima) e con un'esecuzione così carica ed energica che finisce per essere una delle cose migliori del CD.

"Down That Road" è un altro brano eccellente: di relativa breve durata, ma con diverse sezioni musicali apparentemente incompatibili tra di loro ma che, invece, si fondono in un amalgama perfetto e la quasi title-track "Ulysses and the Siren"  è un pezzo originalissimo impreziosito dalla splendida tromba di Giuseppe Puliano. "Sand", "The Streets of Heaven" e "Dream of Me" ci ricordano che il gruppo è comunque pur sempre principalmente blues, ma sono tre visioni diverse dello stesso genere; la prima più movimentata e possibile veicolo di jam, mentre le altre due più vicine ad una matrice soul/gospel. Molto toccante "Hi Dad", autoesplicativa dedica di Paolo Bacco al padre, e musicalmente vicina ad alcune delle ultime cose scritte da Hendrix al termine della sua vita, mentre le divertenti "Ride On Ride On" e "Manhole's Mud" (il cui testo tragicomico è ispirato ad un fatto realmente accaduto), ci ricordano di quanto ripaghi comporre e suonare divertendosi e senza prendersi troppo sul serio. L'album, ovviamente, non è esente da difetti: "Say What You Want From Me" e "Dream of Me" sono due episodi che, dopo qualche ascolto, tendono a diventare un po' troppo stucchevoli e forse, l'introduzione di "Ulysses and The Siren" tende a tirare un po' troppo per le lunghe, ma si tratta di cose minime che possono essere tollerate, più che di vere e proprie macchie.

Per quanto riguarda la perizia tecnica dei singoli membri, il gruppo eccelle specialmente, riuscendo a dare una personalità ed uno spazio proprio a ciascuno dei musicisti pur rendendoli indubbiamente parte di un unico insieme. La voce di Alice Violato è molto caratteristica e potente, ma allo stesso tempo femminile e sensuale, una voce che non stonerebbe paragonata ad alcune cantanti soul degli anni '60, Paolo Bacco è un ottimo chitarrista in grado di fare assolo estremamente musicali e non semplici saggi di virtuosismo (le sue migliori prove si possono ascoltare su "Manhole's Mud" e "Sand"), le tastiere di Claudio Lupo sono tra i punti di forza più alti di molti dei brani e senza il suo apporto, brani come "Hi Dad" risulterebbero senza dubbio più scarni, Nick Muneratti fa un uso molto particolare del basso, rendendo ben chiara la sua funzione di collante ritmico, ma, allo stesso tempo, senza dimenticarsi comunque delle possibilità melodiche che gli vengono offerte dai brani e rivendicando la grande e sottovalutata versatilità del suo strumento e fa una grande coppia con Matteo Coassin, batterista eccellente, solido ed estremamente preparato che sostiene in maniera presente, ma non intrusiva, le varie composizioni con un drumming mai banale e scontato.

Il prodotto in sé è ben confezionato, con una grafica professionale e un libretto molto esauriente contenente anche tutti i testi. Un disco consigliato a coloro che amano la musica complessa e ben costruita, senza che sia ampollosa e auto-indulgente e, soprattutto, un disco che mette a tacere coloro convinti che nel 2014 non esista più musica in grado di dire qualcosa di nuovo. Nuove proposte in grado di offrire musica di alto livello e di grande originalità esistono ancora, sono solo diventate più difficili da trovare rispetto al passato perché oggi, quando si produce un artista, si tende a rischiare di meno, ma questo è un discorso più complesso e che affronteremo un'altra volta. Per quanto riguarda "MusicOdyssey" di The Twisters with Alice Violato: procuratevelo e sicuramente non avrete nessun rimpianto.


Sito ufficiale
Pagina facebook

Album acquistabile su:
CDBaby
Itunes

domenica 1 giugno 2014

Caparezza - Museica (Universal Music, 2014)

Michele Salvemini, alias Caparezza, è presente da circa il 1998 sulla scena Italiana portando quella sana dose di umorismo, intelligenza e cultura di cui tanto abbiamo bisogno. Caparezza, nel suo panorama musicale, è senza dubbio un artista un po' atipico. E' uno dei pochi che presta attenzione ai contenuti musicali, oltre che quelli lirici, ed è praticamente l'unico che non si prende troppo sul serio, rendendo la sua musica una delle poche e vere e proprie ventate di aria fresca nel panorama musicale Italiano attuale. "Museica" è il suo sesto album in studio, uscito tre anni dopo "Il Sogno Eretico", intelligentissimo concept album basato sull'imposizione della credenza comune rispetto alla realtà e i suoi relativi danni.

Questo "Museica", come al solito, si occupa di pesanti (e, in molti casi, giustissime) critiche alla società. Il filo conduttore dell'album è la storia dell'arte (comprendendo anche la musica) e, dal punto di vista concettuale, l'album regge al 100%.  Anzi, a dire il vero, da un punto di vista obbiettivo, il nuovo album di Caparezza, non può certo essere considerato brutto di per sé (a parte un paio di episodi molto poco ispirati, per usare un eufemismo; nello specifico "Comunque Dada" e "Giotto Beat"). Il problema principale è che, questo disco, purtroppo, sembra seguire uno schema ormai prefissato: la canzone d'entrata (letteralmente) che ha il compito di far entrare l'ascoltatore nello scenario del disco, vari testi umoristici con ampio uso di metafore ("Capa io canto le mie canzoni fiero! Si, mi ricordano un'opera di Manzoni, credo, e non parlo di Alessandro, ma Manzoni Piero", "Vivo solo a metà come quel disco di Brian Wilson, la sua grandezza: l'incompiutezza, non avrebbero dovuto pubblicarlo mai. Non avrebbero dovuto pubblicare Smile"), qualche intermezzo umoristico per poter introdurre meglio i brani (all'inizio di "Compro Horror", ad esempio) e la solita, inconfondibile, voce nasale che ci ha accompagnato fino ad ora. Sia chiaro: chi scrive non si aspettava certo che Caparezza facesse una svolta di 180°, ma, perlomeno, che il disco avesse qualche elemento che lo contraddistinguesse, cosa che, purtroppo, non avviene. Un altro difetto del disco è probabilmente la sequenza dei brani, troppo sbilanciata: gli episodi meno interessanti stanno prevalentemente all'inizio del disco (tra questi va incluso il singolo "Non me lo posso permettere", brano trascinante, ma che non sarà ricordato come uno dei migliori singoli di Caparezza), dando l'impressione di un disco un po' comatoso, mentre le cose migliori e più trascinanti sono verso la fine, tanto per lasciare un sapore migliore in bocca. Un ordine diverso, probabilmente, avrebbe giovato molto di più. Ci sono, comunque, degli episodi notevoli che valgono certamente l'acquisto del disco: "China Town", l'unico pezzo veramente atipico dell'album, la carica "Mica Van Gogh", "Troppo Politico", il cui messaggio è uno dei più azzeccati e condivisibili dell'intera carriera di Salvemini, "Kitaro", la personalissima versione di Caparezza della sigla dell'anime "Kitaro dei cimiteri",  e soprattutto l'esaltante "Argenti Vive", violentissimo brano che, sicuramente, darà i suoi frutti migliori dal vivo.

A conti fatti è un disco che vale certamente la pena ascoltare, pur senza troppe aspettative, perlomeno da un punto di vista relativo. Il prodotto, infatti, offre ben poco di nuovo; qualche episodio pregevole, ma niente che devii troppo dalla carriera del rapper di Molfetta. Sicuramente è un album che potrà piacere molto a chi si avvicina per la prima volta al personaggio e ha compatibilità con lui: gli ingredienti, come già menzionato, ci sono tutti. Certo è che a noi che l'abbiamo scoperto con i suoi lavori precedenti ("Verità Supposte" nel caso di chi scrive), è andata molto meglio!



lunedì 21 aprile 2014

Ian Anderson - Homo Erraticus (Calliandra Records-Kscope, 2014)


Il 14 Aprile 2014 è uscito il settimo disco solista (il sesto in studio) di Ian Anderson, celebre frontman dei Jethro Tull, di cui tanto si parla in questo blog, intitolato "Homo Erraticus". L'album è uscito in diverse edizioni: quella regolare con solo il CD singolo, la versione "Deluxe" contenente un secondo CD con una versione demo dell'album e interviste ai membri del gruppo più due DVD con mixaggi sorround e documentari sul disco, un'edizione limitata CD + DVD (contenente un riassunto dei due DVD dell'edizione "Deluxe") e, addirittura, una versione uscita in doppio LP. 
Il disco è uscito solo due anni dopo rispetto a "Thick as a Brick 2", un lasso di tempo relativamente breve rispetto agli ultimi standard. La formazione è la stessa del disco precedente: Anderson al flauto, alla chitarra acustica e alla voce solista, Ryan O'Donnell alla seconda voce, Florian Ophale alla chitarra elettrica, David Goodier al basso, John O'Hara alle tastiere e Scott Hammond alla batteria. Questo "Homo Erraticus", tematicamente, è collegato al disco precedente, anche se non si tratta di un suo seguito (per fortuna: realizzare "Thick as a Brick 3" sarebbe stato un rischio eccessivamente grosso, poco credibile e il gioco non sarebbe valso la candela). L'elemento che collega questo disco al precedente è unicamente la presenza di Gerald Bostock (fittizio enfant prodige, ormai cresciuto) che, in questo momento, si imbatte in un manoscritto ad opera di uno scrittore locale (Ernest T. Parritt) intitolato "Homo Britanicus Erraticus", dove si narra la storia della civiltà britannica. Sulla base di questo, un po' come Manzoni costruì "I Promessi Sposi", Anderson/Bostock costruisce tre sezioni, che dividono l'album in tre parti: "Chronicles", "Phropecies" e "Revelations".

Allo stesso modo, questa volta, ci avvaliamo di non uno, ma di ben tre punti di vista, grazie all'aiuto di due amici, colleghi e amanti della buona musica.



Jacopo Muneratti - Good Times Bad Times / Mat2020

Come già detto nell'introduzione, stavolta il tempo di uscita del disco è stato abbastanza breve e, la sua preparazione, molto più rilassata. Con il precedente "Thick as a Brick 2" Anderson si era preso una responsabilità piuttosto alta. Il rischio che si corre facendo un sequel di un'opera maestra è enorme, e lo è ancora di più 40 anni dopo l'uscita del lavoro originale. Il risultato, comunque, aveva dato i suoi frutti: non si trattava di un capolavoro, ma di un disco fatto con molta cura, e supportato da un eccellente tour nel quale teatralità e qualità musicale si amalgamavano ricordando, a tratti, l'epopea dei decenni passati. Il disco, ad ulteriore testimonianza di quanto fosse un prodotto potenzialmente pericoloso, era accreditato a Jethro Tull's Ian Anderson, per avere una rete di sicurezza.

Questa volta, con "Homo Erraticus", il rischio è chiaramente minore, e, infatti, è accreditato semplicemente a Anderson. Purtroppo, minore il rischio, minore il prodotto finale. Sia chiaro, il disco in sé non è assolutamente disprezzabile: ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un lavoro eseguito e prodotto estremamente bene. La voce di Anderson, in sordina da anni, suona abbastanza bene: non come prima della sua infezione alla gola (avvenuta nel 1985), ma calda, poetica e, soprattutto, perfettamente adatta al tipo di musica proposta. Il problema, è che, di fatto, questo "Homo Erraticus" non si discosta in quasi per niente dal disco precedente e il sottile filo che collega i due album non è un pretesto abbastanza grande per giustificare questa cosa. Forse, pretendere che un artista del calibro di Anderson, che ha 46 anni di carriera, e un totale di 29 dischi in studio tra solisti e con i Jethro Tull, rimanga tutt'ora un campione di diversità è un po' utopistico, ma il disco, obbiettivamente, va preso per quello che è. Inoltre, l'album (e qua, forse, tiriamo un sospiro di sollievo), non è per niente un album folk-prog-metal come era stato annunciato da Anderson nelle varie press-release, ma è perfettamente consono allo stile a cui si è avvicinato Anderson negli ultimi anni, con qualche riecheggio al passato. In ogni caso, anche se si trattasse di una mera copia, una copia di un disco molto buono risulterebbe comunque un prodotto molto buono.

Partiamo dai lati positivi: il disco si apre con un rocker frizzante ed energico, "Doggerland", che sicuramente invoglia all'ascolto del resto del disco e, tra gli altri ottimi brani, abbiamo "The Engineer", forse la miglior prova vocale di Anderson in tutto l'album, l'irresistibile e, forse un po' sardonica, marcetta di "The Pax Britannica", l'intricato strumentale "Tripudium ad Bellum" (con una conclusione geniale), la breve ma complessa "New Blood, Old Veins", la maestosa "Meliora Sequamur""The Browning of The Green", che si ricollega parzialmente a "Doggerland". Inoltre, l'atmosfera e le sonorità generali dell'album sono molto azzeccate e i testi, come al solito, oltre ad essere molto intelligenti e ben costruiti, hanno un'assonanza perfetta e la sequenza di sillabe utilizzate suonano molto musicali all'orecchio. Ovviamente, l'album non è esente da difetti: il recitativo "Per Errationes Ad Astra" sembra avere la stessa identica funzione che aveva "Might-have-beens" su "Thick as a Brick 2" e la sua inclusione suona un po' forzata, "Puer Ferox Adventus" non contiene nessun elemento che giustifichi i suoi sette minuti di durata e la conclusiva "Cold Dead Reckoning" è una maniera ben poco ispirata di chiudere l'album. Solo la melodia contenuta nei suoi 30 secondi conclusivi fa svegliare un po' le orecchie, ma finisce troppo in fretta ed è così slegata al resto del brano che sembra che sia stata infilata forzatamente.

In definitiva, si tratta di un prodotto che raggiunge ampiamente la sufficienza, superandola di un bel po', con qualche momento ottimo e qualche altro meno ispirato e, il fatto che un artista del calibro di Ian Anderson, a questo punto della sua carriera, continui a produrre lavori di un certo pregio, non è una cosa da dare assolutamente per scontata. Dal punto di vista tecnico, il disco suona molto competente e professionale. Il gruppo di Ian Anderson è sicuramente preparato e capace, ma forse, un po' poco personale. I vari assolo sono eseguiti con una precisione quasi al millimetro, e le backing tracks scorrono avanti senza problemi, ma non si sente niente che faccia pensare ad un prodotto veramente unico, e questo è sicuramente il vero e proprio scarto col passato dei Jethro Tull. Forse, l'unico membro del gruppo che veramente ha una sua personalità è il secondo cantante Ryan O'Donnell, che ricopre un ruolo che, fino a qualche anno fa, sarebbe stato impensabile e avrebbe, ipoteticamente, causato le ire dei fan. Eppure, è l'unico che porta qualcosa di nuovo e di energico, e, il fatto che riesca a fare così bene un lavoro così rischioso è sicuramente da applaudire. Ad ogni modo, anche se non sono sicuro che questo album possa avvicinare nuovi adepti o che possa far gridare in molti al capolavoro, è certamente molto difficile considerarlo un lavoro mediocre e fa piacere vedere un Ian Anderson ancora carico di energia che non cerca di continuare a sembrare il matto dei vecchi tempi, ma che ha sempre di più l'immagine dell'uomo saggio, scaltro e vissuto, con sempre un asso sotto la manica.


Donald McHeyre - Castle McHeyre / Mat2020

Ian Anderson nel 1972 con "Thick as a Brick", attraverso il suo alter ego, Gerlad Bostock, mostrò uno spaccato satirico delle piccolezze della convenzionale e ben pensante contemporaneità (dell’epoca) inglese attraverso una “musica desiderio” non convenzionale di un unica traccia lunga quanto un album, divisa solo dalle esigenze fisiche di cambiare lato al vinile. In "Thick as a Brick 2", nel 2012, il meta autore diventa protagonista e, attraverso di lui, Ian Anderson ci racconta il cambiamento della società e del pensiero negli anni nel fra tempo intercorsi attraverso i nuovi supporti tecnologici, sviluppati in questi 40 di anni, di rendere davvero un unico brano, questa volta non diviso dai limiti fisici del vinile ma soltanto dai limiti mentali del commercio. In "Homo Erraticus" il supporto scelto è il più “convenzionale” concept album narrativo, diviso in 3 parti/capitoli a loro volta divisi in  brani/paragrafi, musicalmente distinti.  Nelle varie tipologie di arrangiamento usate da Anderson con "Homo Erraticus" siamo in quello che potremo definire "Jethro Tull arrangiamenti stratificati" (che poi è quello più comunemente è stato usato nella loro discografia) diversamente da "Thick as a Brick 2" che rientra nella tipologia “Jethro Tull arrangiamenti lineari” ("Roots to Branches", "A Passion Play" e in buona misura il primo "Thick as a Brick" ne sono gli esempi più rappresentativi).

Il fatto che si utilizzino tecniche compositive e di arrangiamento diverse tra "Homo Erraticus" "Thick as a Brick 2" non può che essere positivo per entrambi gli album e per l’autore stesso. Personalmente continuo a preferire "Thick as a Brick 2" con la sua struttura lineare dovuta all'esigenza di mostrare l’album come un unica composizione (mi piace il risultato finale, prescindendo dalle tecniche usate). "Homo Erraticus" è quindi più un concept "raccolta di brani" con pochissimi temi ricorrenti e forse più varietà nelle composizioni ma anche con più momenti deboli rispetto al predecessore. I momenti deboli possono trovarsi anche in "Thick as a Brick 2" ma questi possono essere giustificati dalle esigenze narrative e dalla struttura di un brano lungo quanto tutto il concept stesso. In sostanza in "Thick as a Brick 2" (ma anche nel primo) i "tempi deboli" possono essere concepiti semplicemente come momenti più deboli di un unico brano che nel suo insieme però, ci aggrada. In "Homo Erraticus", i momenti deboli sono invece singoli brani meno brillanti di altri.

D’altra parte la produzione tecnica del suono è eccellente, superiore anche a "Thick as a Brick 2", rendendo piacevole l’intero ascolto in un sol fiato dell’album la cui musica mostra una Band (.. of Ian Anderson) suonare finalmente come una Band, più amalgamata e sicura delle proprie capacità di quanto aveva dimostrato fino a poco tempo fa, quando quegli stessi  componenti sembravano essere i domestici di casa Anderson arruolati sul campo. O'Donnell in particolare, che già mi aveva fatto ottime impressioni durante il tour di "Thick as a Brick 2", qui è ancora più presente e "vario" nel suo ruolo, permettendosi (o meglio, permettendogli Anderson) di ritagliarsi anche piccoli spazi solisti e non soltanto come "maggiordomo di voce", li dove il "padrone" non ci arriva più.

L'operazione meta testuale, iniziata nel 1972 e proseguita nel 2012 qui continua e si amplia con il personaggio di Ernest T. Parritt (1865-1928) il cui manoscritto intitolato "Homo Erraticus Britannicus" viene scoperto da Bostock ormai anziano in una piccola  biblioteca di provincia. L’analisi sociale si estende a tutta la storia della cultura anglosassone. Nel testo (e qui si giustifica in gran parte il concept "raccolta di brani separati") Parritt racconta che a seguito di una caduta di cavallo dovuta a malaria la sua "coscienza"  viaggia indietro nel tempo ritrovandosi nel corpo di diverse persone. Partendo da un uomo del neolitico e saltando di incarnazione in incarnazione, un fabbro dell'età del ferro, un invasore sassone, un monaco, e altre figure, su su per le epoche fino al Principe Alberto, assiste da testimone diretto ai momenti cruciali della storia della Gran Bretagna, compie Profezie e Rivelazioni sull'epoca attuale (la parte più facile) arrivando fino al 2044 (c'è anche spazio per gli alieni e la SF catastrofista) raccontando tutto nel suo manoscritto nel modo bizzarro ed esagerato tipico del "narratore inaffidabile" come il Barone di Munchhausen o il Colonnello Maxim Arturovitch Pyatnitski di Michael Moorcock, una delle numerose incarnazioni del Campione Eterno, figura metafisica protagonista della gran parte delle opere di Moorcock, la cui concezione può porsi tra le basi per il plot del concept album di Anderson. Il Campione Eterno (John Deker) si reincarna di volta in volta in figure protagoniste dei vari cicli dello scrittore (Elric di Melnibonè, Erekose, Dorian Howkmoon von Koln, per citarne alcuni), nelle varie epoche e nelle varie "Terre" del milione di sfere costituenti il "multiverso". Un buon esempio, insomma, di Homo Erraticus.

Anche se l'idea stessa di viaggio "psico-storico" compiuto da Parritt si può a maggior diritto far risalire direttamente al personaggio protagonista di "Slow Chocolate Autopsy: Incidents from the notorius Career of Norton, Prisoner of London" di Ian Sinclair (con le illustrazioni di Dave McKean) amico di Alan Moore che ha sua volta è amico di Moorcock. Nel romanzo (ma sarebbe più giusto definirlo, raccolta di 12 racconti a carattere storico), l’Homo Erraticus, Andrew Norton è intrappolato nei confini della città di Londra, non ne può uscire ma può spostarsi avanti e indietro nel tempo assistendo e a volte interagendo con gli eventi storici. 

Ian Anderson che legge Moorcok, Sinclair e Moore ? Possibilissimo. Il fatto che Arthur Bostock, il padre di Gerald, sia nato il giorno dopo la morte di Parritt,  può far riflettere in questa direzione.



Chiara Bucolo - Filodiretto Monreale

Dopo varie vicissitudini e ostacoli impervi, finalmente l'Uomo Errante è riuscito ad approdare nelle mie orecchie. Ed è stato di piacevole compagnia, nonostante i samples parevano presentare un disco farraginoso ed un po' pesante (come mi disse un amico: "secondo me, per i samples, hanno detto: adesso prendiamo i momenti peggiori di tutto l'album!"). "Homo Erraticus", sesto lavoro solista del leader dei Jethro Tull Ian Anderson, è inaspettatamente fresco e per niente monotono. Il nostro Ian ha saputo dimostrare,ancora una volta, di saper imboccare sempre strade diverse, anche quando, come in questo caso, non crea niente di nuovo.

L'album, diviso in tre parti - Cronache, Profezie, Rivelazioni - si snoda, si sviluppa e si intreccia tra melodie medievaleggianti ed eteree e momenti più "aggressivi". Connubio che funziona e che già notiamo nel primo brano della prima parte delle Cronache, "Doggerland", dove però l'assolone quasi Metal di Opahle risulta a mio parere forzato ed invadente. Ci pensa subito a ristabilire le cose la delicata e spensierata "Heavy Metals", per la durata di quasi un intermezzo. Una intro di flauto difficile da dimenticare apre "Enter The Uninvited", un po' guastata dai momenti in cui il cantato di Anderson è quasi rappeggiante, ma comunque dalla melodia trascinante. "Puer Ferox Adventus" è intensa, quasi solenne, e ci presenta una chitarra equilibrata nella sua irruenza, e un bellissimo assolo di flauto. In "Meliora Sequamur" ritroviamo quella solennità quasi religiosa, mentre "The Turnpike Inn" possiede alcuni dei momenti più hard del disco. Ancora atmosfere medievali e quasi folk pervadono "The Engineer" e "Pax Britannica" (una delle vette dell'album), che ci mostrano due splendidi assolo del flauto di Anderson. Altra vetta è l' "aerea" "Tripudium Ad Bellum", che introduce la seconda parte del disco, le Profezie. "After These Wars" è dominato da un potente assolo di chitarra, mentre in "New Blood, Old Veins", le tastiere di O'Hara si fondono perfettamente con il flauto di Ian. In "For A Pound", una ripresa della melodia di "Heavy Metals", fa da ingresso nelle Rivelazioni, terza ed ultima parte dell'album. Segue "The Browning Of The Green", altro momento very hard del disco (che però, anche in questi frangenti, non abbandona mai quella vena di leggerezza che caratterizza il suo autore). "Per Errationes Ad Astra" è una sorta di curioso racconto, mentre la chiusa del tutto, "Cold Dead Reckoning", si riallaccia alla melodia di "Enter The Uninvited", uno dei tanti parallelismi del disco.

Disco che non è un capolavoro, ma che ascoltandolo sembra che quest'uomo errante ti ghermisca e ti conduca nei suoi viaggi turbolenti, e tu non sai di certo ribellarti.