sabato 28 marzo 2009

Chris Cornell - Scream (Interscope, 2009)

Questo disco di Chris Cornell è già stato stroncato abbastanza dalla stampa e dai critici, e non mi andava per questo di ripetere recensioni che possibilmente chi sta leggendo ha già visto altrove; purtroppo però il significato di questo lavoro solista dell'ex frontman di Soundgarden ed Audioslave lo si può spiegare solo come mera operazione commerciale atta probabilmente anche alla perdita di dignità, per cui oggettivamente i buonismi sono evitabili. Andiamo al dunque.
Il passato nel mainstream rock è ormai andato. Cornell ha imbracciato vie pop già con gli altri lavori solisti ma stavolta ha scelto una nuova via: quella dell'hip-hop e dell'R&B, ottimo modo per gonfiarsi le tasche (scelta alla quale probabilmente si riferisce anche la copertina in cui il cantante stesso è intento a sfasciare una chitarra elettrica). Comprensibile quindi la presenza di Timbaland come produttore, probabilmente uno dei più esperti in questo campo per quanto riguarda il genere che Chris ha preferito imbracciare per questo "Scream". Musicalmente quindi ci troviamo di fronte ad un album poco suonato, riempito di basi che spaziano da Busta Rhymes (evidentissimo in "Scream", che esula dalla forma singolo commerciale da rapper americano solo per la durata di 6 minuti) a quelle della Bjork degli ultimi lavori (in "Sweet Revenge" e "Time"), passando per sintetizzatori provenienti dalla musica popolare americana di Mariah Carey e per sezioni quasi corali molto care all'R&B. Inaspettata la presenza di alcune sezioni chitarristiche in pezzi come "Long Gone" e "Take Me Alive", unico stralcio di rock che possa spiegare l'affermazione di Cornell che ha esplicitamente ammesso di essere stato influenzato da Pink Floyd e Queen per questo disco. I pezzi più belli sono quelli come "Never Far Away" e "Climbing Up The Walls", dove si riprende quella forma quasi cantautorale che il buon Chris aveva esplorato nel lavoro precedente, “Carry On”, anche se con un approccio molto più "elettronico" dovuto ai pesanti imbastimenti di suoni ed effetti che probabilmente ha suggerito il buon Timbaland. Da lasciar perdere invece i pezzi dance-pop come quello d'apertura, “Parts Of Me”, canzone scontatissima e che evidenzia bene come due figure ambiziose come Cornell e Timbaland insieme possano produrre pezzi dal nullo valore artistico.
La produzione, come già detto, è buona e le sonorità di certo adatte al percorso che Cornell ha voluto seguire. Molto deludente è però la performance vocale di Chris, ritenuto da sempre una delle migliori voci del rock mainstream, ormai pesantemente rovinata e ridimensionata, ma che in questo CD ha perso anche quella voglia di osare che prima lo contraddistingueva. Solo nella hidden track, “Two Drink Minimum” troviamo quel Cornell leggermente potente che avevamo conosciuto soprattutto nei primi due dischi degli Audioslave, in cui sforzava per arrivare a certe note ma che dimostrava comunque le sue grandi doti canore. Questo album in ogni caso è un disastro che definirei un'accozzaglia di dance, R&B e pop/rock che non trova né capo né coda e che unisce chitarre e pianoforti a basi rap e coretti à là Lumidee/Ludacris senza riuscire a sfornare veri e propri pezzi da ricordare. Otteniamo quindi un prodotto per niente duraturo e che probabilmente non centra neanche l'obiettivo di guadagnare nuovi fan in un genere che ha da sempre i suoi capofila, nei quali Cornell certo non può aspirare di entrare.
Sconsigliato l'acquisto, da ascoltare solo per capire come anche un grande artista come Chris, pur di non vedere il portafoglio sgonfiarsi, sia disposto a vendersi e produrre dischi indegni d'essere chiamati tali.
Voto: 4


Recensione scritta per www.impattosonoro.it

sabato 21 marzo 2009

Pete Doherty - Grace/Wasteland (Emi, 2009)


E Pete Doherty arrivò al primo album da solista. Dal rilascio del primo album coi Libertines, nel 2002, per 7 anni è stato protagonista sia delle riviste di musica che dei giornali di gossip, famoso per la relazione con Kate Moss e l'abuso di droga, e poi come rockstar, leader dei già citati Libertines e dei più recenti Babyshambles. Questo disco che lo vede intraprendere la via solista non prosegue la carriera alternative rock degli altri 2 progetti, bensì apre spiragli più classici e più pop, con qualche vena cantautorale, anche grazie alla collaborazione con il chitarrista dei Blur Graham Coxon. Vediamo:

Grace/Wasteland è effettivamente un album vario e piuttosto valido. Si tratta di una serie di ballate, dodici per l'esattezza, alcune con il solo Pete da protagonista, che spaziano dal rock con influenze post-punk che siamo abituati a sentire dalle sue band, al pop inglese di Blur (“Last Of The English Roses”, il singolo, un pezzo molto orecchiabile sebbene cupo ed in puro stile brit-pop, ci ricorda i Blur di prima generazione) e The Good, The Bad & The Queen. Le canzoni fondate sulla chitarra e la voce di Doherty, da “Arcadie” a “1939 Returning”, passando per “Salome”, sono pezzi discreti, intimistici e valorizzati soprattutto dalla presenza di alcune orchestrazioni di sottofondo. “A Little Death Around The Eyes” è un pezzo più classico, con sonorità che abbiamo apprezzato in versione più pop negli anni 2000 dai Garbage. Piccole perle a loro modo sono “Through The Looking Glass”, con dei cambi inaspettati che la deviano dalla sua anima lenta e malinconica, e la successiva “Sweet By And By”, che si presenta come la canzone più “diversa” dell'album, vicina a generi più classici come il swing ed il jazz, quasi tutta basata su un piano saltellato che conferisce un tono meno scuro a questa parte del disco. “Broken Love Song” ricorda molto da vicino alcune produzioni dei Manic Street Preachers, soprattutto nel ritornello, e si presenta come un ottima ballata nonostante sia il pezzo meno statico del disco. Le tre tracce non citate non passano comunque inosservate e non tolgono nulla ad un album originale ed apprezzabile, in particolar modo per come testimonia una certa evoluzione artistica nel percorso di questo artista.

Unico difetto dell'album probabilmente la piattezza di alcuni pezzi che sono tutti godibili ma che a volte, soprattutto quelli più calmi, sembrano tutti simili tra loro. Inoltre Doherty, che in concerto ha dimostrato più volte di non possedere una tecnica vocale così esagerata, riesce a divincolarsi bene tra i piccoli cambi di atmosfera che ha sapientemente inserito in questo disco, e quindi pollice alzato per la sua performance. In ogni caso con una produzione all'altezza e un mix di suoni del tutto adatto questo album raggiunge un livello stilistico ed artistico notevole, che può potenzialmente piacere a tutti anche se chi sperava nelle influenze più punkeggianti dei Libertines rimarrà a bocca asciutta.

Così, mentre ci si aspettava un album oltremodo autoreferenziale da un artista sopra le righe come Doherty, ci imbattiamo in un'uscita completa e polivalente, che sicuramente sarà ricordata come una delle migliori di questo 2009 tra le uscite major inglesi. Consigliato ai fan del pop inglese e a chi vuole un sincero disco cantautorale.

Voto: 7,5



*Questa recensione è stata scritta per www.impattosonoro.it

venerdì 20 marzo 2009

Riaffiora - French Kiss EP (No-Pop/Emi, 2008)


L'EP French Kiss dei Riaffiora, trio pop/rock padovano già in circolazione da qualche anno, arriva in un momento in cui la scena italiana si sta riprendendo dalla crisi che l'aveva colpita nei primi anni del nuovo millennio. Già da qualche tempo la scena underground italiana si è rimessa in moto con l'evasione dalle sale prove di numerose band più o meno meritevoli che hanno trovato l'appoggio in quella ventata di fresco portata anche da internet. I Riaffiora sono uno dei tanti gruppi che si stanno proponendo al pubblico italiano, con notevoli meriti evidenziati dal prodotto che mi appresto ad analizzare più dettagliatamente.

Il loro pop/rock multiforme è rappresentato alla perfezione dalle 4 tracce di questo EP registrato a fine 2007. Troviamo veramente di tutto: dalle chiare influenze provenienti dalla scena alternative rock italiana degli anni '90, quella ormai "classica" di Afterhours e Marlene Kuntz per intenderci, a quello più sperimentale degli Sonic Youth, passando per il pop/rock commerciale straniero dei Placebo a quello italico delle Vibrazioni e dei Timoria. 4 ottimi brani, variopinti e studiati, che offrono numerose sfumature all'ascoltatore. Le veloci "French Kiss" e "Fino All'Estasi", caratterizzate dalle chitarre taglienti di Matteo, rivelano la natura aggressiva che i tre utilizzano in maniera inconsueta, contaminandola di melodie orecchiabili e radiofoniche, mentre le sperimentazioni più effettate ed introspettive rivestono l'ultimo brano, "L'Età Adulta di FC". Anche l'altro pezzo, "Senso", merita, con sonorità aperte alle contaminazioni di gruppi come Mogwai e Verdena, soprattutto quelli più calmi.
I toni intimistici della musica si coniugano molto bene con i testi di Andrea d'Amato, anche bassista, spesso incentrati sulla sensualità della figura femminile e con qualche riferimento sessuale neanche troppo velato (come suggerisce la copertina stessa dell'EP). Tecnicamente il gruppo si dimostra valido e colpisce soprattutto la precisione del batterista Paolo, mai banale nei passaggi e sempre all'altezza del tono dei differenti brani. La produzione di Max Trisotto è ottima, di qualità prossima a quella dei grandi prodotti major, ed alcuni arrangiamenti di tastiera fanno un eccellente lavoro nel riempire ulteriormente il suono di una band che ha saputo, con questo EP, dimostrare come anche i gruppi con pochi componenti sappiano produrre musica completa e vivace, senza ricorrere a polistrumentisti ed orchestrazioni che vanno sempre più di moda.

Alla fine, un ottimo prodotto di lancio per una band che meriterebbe molta più attenzione e che, si spera, ne avrà tanta nel futuro. Consigliato a tutti gli amanti dei gruppi citati nelle influenze. Pollice alzato per il "bacio alla francese" dei Riaffiora.

Voto: 8+

giovedì 19 marzo 2009

Papa Roach - Metamorphosis (Interscope, 2009)


Il quinto album in studio dei Papa Roach non merita un'introduzione tanto vasta semplicemente perché definirlo "l'ennesimo album dei Papa Roach" è il massimo che si possa fare. Effettivamente questo lavoro di Shaddix e soci non propone nulla che non avessimo già sentito soprattutto con "Getting Away With Murder" e "The Paramour Sessions", dove i quattro avevano iniziato ad abbandonare le origini legate al rapcore e al nu-metal per navigare verso lidi più alternative e più rockeggianti, senza mai lasciare da parte i riff potenti e graffianti che li contraddistinguono. Il risultato, che mi appresto ad analizzare più nel dettaglio, è un album omogeneo ma purtroppo senza nessuna innovazione.

Il disco si apre con una marcia dal tono epico, "Days Of War", un'introduzione di quasi 2 minuti che sembra dare veramente un taglio nuovo al disco, come il titolo "Metamorphosis" potrebbe suggerire, ma purtroppo tutti i cliché del quartetto di Vacaville tornano subito nei primi due pezzi. "Change Or Die" è un pezzo molto tirato, potente, tra i migliori del CD, anche se non regala niente ad un progetto ormai stantìo. "Hollywood Whore", primo singolo, ha un ritornello piuttosto melodico che ci ricorda le produzioni come "Scars" con le quali i Papa hanno provato, con successo, a penetrare nel mondo di MTV che già li aveva ospitati all'epoca di "Last Resort". La maggior parte dell'album è composta da pezzi catchy e dall'assoluta mancanza di spunti creativi, perché diciamocelo, questo genere è morto da anni. E' cosi che il singolo "Lifeline", il cui riff principale suona come un plagio della melodia di pianoforte di "Everybody's Changing" di Keane, è il pezzo migliore dell'album, con un ritornello molto trascinante ed adatto a perseguire uno degli scopi preferiti di Shaddix: il pogo ai concerti. Molti pezzi piuttosto banali passano inosservati, come "Live This Down" e "Carry Me", ripetizioni di numerosissimi pezzi già visti nei precedenti dischi. "I Almost Told You That I Loved" è un brano saltellato che sembra una cover di un recente successo dei Fall Out Boy, così come il pezzo conclusivo, "State Of Emergency", mediocre pseudoballata rock che conclude coerentemente un album che non arriva alla sufficienza, che si rifa molto ai primi Hoobastank. Insomma, un'accozzaglia di spunti che i Papa hanno tentato di utilizzare per rinnovarsi, senza riuscire nel tentativo di una "metamorfosi".

Dal punto di vista della produzione l'album è buono, sicuramente, grazie all'esperienza di Baumgardner che ha già lavorato con artisti del calibro di Evanescence e Sevendust, anche se ci si chiede se alcune canzoni siano adatte ad essere riprodotte in concerto per la stratificazione di distorsioni che richiederebbero più di un backliner per essere rese in tutto il loro barocchismo nei live. La tecnica del gruppo ha sempre lasciato leggermente a desiderare, se escludiamo la voce di Shaddix, sempre potente e precisa. La batteria di Palermo effettivamente è sempre la stessa dal primo disco e non trova mai modo di rinnovarsi, così come i riff che si basano sui soliti power chord che hanno usato ed abusato in tutta la carriera. Infine, i testi, che non meritano più di una letta, sono piuttosto banali e toccano i soliti temi che questo genere ormai ha riproposto in ogni modo, vale a dire qualche storiella sentimentale e un po' di riferimenti al sesso. Niente di nuovo neanche qui. Jacoby poteva a tutti gli effetti lavorare di più.

Insomma un disco che può essere sicuramente goduto e digerito dai fans più accaniti che avranno apprezzato anche il precedente The Paramour Sessions, a sua volta piuttosto banale, ma di poco impatto su chi ascolta altro, soprattutto il punk ed il metal di cui questi ragazzi hanno più volte dichiarato di volersi contaminare. Consigliato solo ai fans, per il resto...metamorfosi fallita.

Voto: 5-

mercoledì 18 marzo 2009

Ministri - Tempi Bui (Universal, 2009)

I Ministri, trio milanese che ho già recensito su questo blog, arrivano nel 2009 a pubblicare per Universal il loro secondo album di inediti. Cosa troviamo all'interno di questo album? Undici canzoni dense di rock contaminato dal punk rock dei Foo Fighters tanto quanto dall'alternative di tradizione italica. Undici critici spaccati di vita quotidiana che il chitarrista Dragogna tramite la sprezzante e potente voce di Autelitano ci vuole spiattellare dritti in faccia, la scottante verità sotto forma di frasi-slogan e rime urlate. Questo è il formato di questo CD che ora mi appresto a recensire in maniera più approfondita.

L'album si dimostra molto più vario del precedente "I Soldi Sono Finiti" poiché, seguendo la traccia impostata dall'Ep "La Piazza" alterna momenti melodici e più rilassati a sferzate di potenza che ben si conciliano con la sfacciataggine dei testi. E' così che ascoltiamo il singolo "Tempi Bui" seguito dall'ironica, cinica e sfrontata "Bevo" e dalla malinconica "Il Futuro E' Una Trappola". I risultati della continuazione nel percorso artistico di questi tre si sentono nelle canzoni più particolari come "Vicenza (la voglio anch'io una base a)", violento pezzo il cui significato non ha bisogno di tante spiegazioni, e "Ballata Del Lavoro Interinale", probabilmente il brano meno in linea con la tradizione "ministrica". Frasi come "lascia che ci sia un padre sopra di noi che si batta il petto e si chieda perché dovrà seppellirsi da sè" e "il futuro l'avete inventato voi" suonano poetiche quanto dirette, e non lasciano libera interpretazione all'ascoltatore, ed alcuni potrebbero storcere il naso per qualche, comunque ammissibile, parentesi "politica" dei tre. Tecnicamente il gruppo sta migliorando e la produzione di qualità decisamente superiore a quella del primo disco rende molto bene questa evoluzione, che si vede sia nelle linee vocali che nei riff di Dragogna, sempre graffianti ma a volte più complessi e precisi, con qualche influenza dal metal e dal punk vecchio stampo (es. "La Faccia di Briatore" e "La Casa Brucia"). Il CD contiene anche "Diritto al Tetto", già vista sull'EP che ha preceduto di un anno la pubblicazione di questo disco, leggermente rimissata con un impercettibile riverbero teso a potenziare l'atmosfera già molto caotica, seppur bastevole a garantire una notevole orecchiabilità, del pezzo. Il mix dei suoni è in linea con la potenza che il gruppo da sempre cerca di comunicare, con basso e batteria neanche troppo in risaltato per permettere di apprezzare appieno il contenuto dei testi. Immancabili gli stralci di musica popolare inseriti per collegare una canzone all'altra come nel primo disco, e stavolta è toccato a due cantanti dialettali (Maurizio Palmieri e Francesca Cacciatore) salmodiare qualche verso di stili molto poco affermati come la "tammuriata" e il "griko", un canto salentino.

Alla fine questo album è sicuramente sopra la media e i Ministri devono aver ascoltato molto bene il monito di Caparezza riguardo il "secondo album" perché hanno fatto di tutto per fare un prodotto degno di nota e che certamente gli darà ancora più spessore anche grazie ai coinvolgentissimi concerti che offrono a poco prezzo ad un pubblico sempre in crescita. Ci si aspetta grandi cose dal loro terzo lavoro che ascolteremo chissà tra un anno o due.

Voto: 8