martedì 29 settembre 2009

Cornershop - Judy Sucks A Lemon For Breakfast (Ample Play, 2009)


I Cornershop non vivono nel 2009. Perlomeno non musicalmente. “Judy Sucks a Lemon For Breakfast”, a ben sette anni di distanza dal precedente “Handcream for a Generation”, è effettivamente un ottimo collage di riff ed atmosfere provenienti dal panorama punk, pop e rock anni '60 e '70. Ci si riconoscono i primi Clash nell'andamento cadenzato ma sempre piuttosto “punkettoso” di “Soul School”, i Rolling Stones nei riff caldi “all'inglese” di “Who Fingered Rock and Roll”, in apertura, per approdare ai Beatles, inconfondibili ispiratori di canzoni come “Free Love” e una cover di Bob Dylan rifiltrata dagli occhi del frontman Tjinder Singh, “The Mighty Quinn”.

Intermezzi disco-dance come “Half Brick” ci ricordano inappellabilmente che ai Cornershop piace ballare e far ballare (vi ricorderete i vecchi tormentoni degli anni '90, come “Brimful of Asha”), e questo disco se ascoltato in certe condizioni può di certo indurre a reazioni fisiche se non propriamente simili alla danza, almeno vicine (e pure “Shut Southall Down” ne è una dimostrazione valida). Che vivano ancora nel mondo dei jukebox è sicuro anche mentre si ascolta la title-track, un ottimo pezzo con tanto di accompagnamenti percussionistici, oltre ai riff blueseggianti profondamente ispirati dal panorama americano anni '50 e '60. Un'altra sorpresa viene dopo qualche pezzo skippabile senza problemi (“Operation Push” in particolare) e si tratta di “The Turned On Truth”, un pezzo di 16 minuti e 45 secondi dai toni rilassati, che rimescola il gospel con giri molto catchy ripescati dal repertorio passato della band (quasi un riferimento diretto ai loro anni novanta fa capolino dal riff che sostiene l'intero brano). Anche tutto il campionario di suoni sintetizzati e strumenti aggiuntivi (oltre ai classici chitarra, basso, batteria e tastiera quindi) fa capo ad un insieme di musica degli anni passati che può ricordare, per timbro (nel sound molto vintage di “The Roll Off Characteristics” ad esempio) alcuni lavori del prog o della musica più sperimentale, contaminati con ascolti che provengono dal mondo orientale (l'India si sente distintamente in “Chamchu”, non solo per il titolo).

Abbastanza autoreferenziali quindi questi Cornershop, tecnicamente molto validi e tutt'ora piuttosto originali, anche dopo 5 lavori (6 contando quello pubblicato con il nome alternativo Clinton). Scrivere pezzi di pop così ispirato è difficile nel 2009, dopo che “quasi tutto” è stato detto in questo genere, ma la perfetta fusione con il rock classico, la musica disco (e il funk) e il blues rendono questo album un altro piccolo gioiellino in questo 2009 veramente valido per le uscite del panorama mainstream

Consigliato.

Voto: 8

lunedì 28 settembre 2009

Dolores O' Riordan - No Baggage (Cooking Vinyl, 2009)


L'ex cantante dei Cranberries. Bollarla così (cioè come molti giornalisti fanno) è un modo molto riduttivo di definire Dolores O'Riordan, vittima del suo stesso personaggio che si è creato uno stile diventato macchietta e che tende a sminuire ogni sua mossa al di fuori della celebre band degli anni '90 etichettandola come un tentativo di fare soldi con canzoni che sono identiche a ciò che già proponeva con la sua vecchia formazione.

Per “No Baggage” tutto questo è (quasi)completamente sbagliato. Ci troviamo di fronte ad un disco fresco, di una schiettezza rimarchevole, e senz'altro originale, contenente qualche perla pop che pochi si sarebbero aspettati da qualcuno come Dolores, soprattutto dopo così tanti anni di carriera. Gonfio di ritornelli che ricordano certo le esperienze passate della cantante (Skeleton e It's You in particolare), orecchiabile e radio-friendly al punto giusto per circolare in tutte le emittenti radiotelevisive di grido e colpire un vasto pubblico, l'album è dotato di una forza comunicativa che tramite le linee vocali e la delicatezza degli strumenti (piano e chitarra su tutti, davvero notevoli) riesce a plasmare gioielli di pop di matrice cantautorale piuttosto moderno e riuscito. Alla faccia dei detrattori. E' così che The Journey, primo singolo estratto risulta essere un gran pezzo, così come la malinconica Lunatic, nel loro essere semplici ballate dalla faccia pulita degne di cantautori di alto livello come Bob Dylan (ma il genere chiaramente non è lo stesso). E' proprio l'essere accessibile pur mantenendo una base profondamente originale e personale (cosa rara di questi tempi) che rende questo disco un prodotto così buono.
L'assenza di pretese si capisce in pezzi più volubili e leggeri, a livello compositivo, come Be Careful
e Fly Through, sotto la media ma in linea con il tiro generale del disco. Le atmosfere mai troppo cupe, seppur in alcuni tratti poco accese come quell'Irlanda piovosa che la O'Riordan sembra voler ricordare con le sue canzoni, creano una simbiosi perfetta con la sua voce, mai troppo diversa da come ci ha abituato, comunque consistente e sempre presente con linee facilmente memorizzabili, adatte sia all'ambito radiofonico che pretende brani chiusi nella struttura strofa-ritornello-strofa-ritornello, sia a quello più “casalingo” di chi vuole ascoltare musica composta in un certo modo, magari più “pensato”.

E l'unione di questi due fattori, crea un squisitissimo “No Baggage”, consigliato ai cultori del pop, agli amanti di Dolores e dei suoi vecchi lavori, così come a chi vuole ascoltarsi semplice musica che possa accompagnare momenti spensierati o più tristi; in poche parole, a tutti.

Voto: 8

sabato 26 settembre 2009

Paramore - Brand New Eyes (Fueled By Ramen, 2009)


Terzo lavoro per il gruppo americano capitanato dalla giovanissima Hayley Williams, un traguardo importante che stronca le voci di un possibile scioglimento che giravano tra gli organi di stampa che più si sono dimostrati aggressivi nei confronti del teenager-pop-punk (definizione abbastanza riduttiva) dei Paramore. E' un lavoro onesto e personale, che lascia da parte l'eccessiva produzione del secondo disco per tornare ai suoni più ruvidi del primo disco, arricchiti dall'accresciuta confidenza che tutti i membri del gruppo (soprattutto Hayley e il batterista Zac Farro) hanno con i loro strumenti. I riff graffianti e diretti dei primi due lavori rimangono e fanno capolino, a segno di una volontà di rinnovarsi che probabilmente apprezzeremo meglio nei lavori futuri, anche alcuni pezzi acustici di matrice più pop che ancora mancavano all'appello.

L'album si apre con una combo devastante, Careful e Ignorance, tra i due pezzi più belli del disco. In puro stile Paramore, come i singoli dei due dischi precedenti che tutti ricorderete, partono a 200 miglia orarie con riff veloci e ritornelli carichi che non mancheranno di rimanervi in testa per ore anche dopo il primo ascolto (non a caso la seconda che ho citato è il primo singolo estratto da questo “Brand New Eyes”). Il disco continua con un'altra accoppiata azzeccata, Playing God e Brick by Boring Brick, commerciali al punto giusto per piacere alla fetta di pubblico a cui la band si riferisce. Apprezzabili anche i riff di Turn it Off e della potente Feeling Sorry, al primo ascolto molto simili a vecchi brani della band, ma nonostante questo non banali. Gli episodi più inaspettati del disco arrivano con le canzoni più lente, in particolare Misguided Ghosts, dall'andatura piuttosto sostenuta nonostante i “volumi bassi” che non sono una caratteristica della band (anche le canzoni che non ho citato, in particolare Where the Lines Overlap, che in rete circola da tempo, sono dotate di una potenza non indifferente), e The Only Exception, altra ballata dal sapore cantautorale che lascia spazio ad una Hayley in questo disco in forma come non mai. Il disco si conclude con l'estratto dalla soundtrack del primo film di Twilight, Decode, ottimo brano dalla base vagamente post-hardcore, ben fusa con l'attitudine pop-punk della band, preceduta da uno dei brani dai quali ci si aspetta di più in concerto, All I Wanted, con un cantato molto facilmente memorizzabile che farà partire più di qualche coro dal pubblico.

Potrete perdonarmi il quasi totale track-by-track fatto del disco? Non è questo che interessa quando una band giovanissima produce album di così pregevole fattura, prodotto in maniera veramente notevole, e con una fanbase sempre più consistente che non mancherà di apprezzare anche questo lavoro. Ad essere specifici qualche difetto lo si può anche trovare, soprattutto nella scarsa originalità che i brani più punkeggianti presentano (a livello di riff e di cantato), ma non è questo un motivo per abbassare il punteggio ad un album che non ha nessuna pretesa se non quella di puntare ad un pubblico di non-intenditori che amano riff semplici e d'impatto, cantati da ripetere ai concerti e voglia di divertirsi. Alla faccia degli esperti e degli sperimentatori, un ottimo disco da una band che di esperienza ne deve ancora fare parecchia.

Voto: 8

venerdì 25 settembre 2009

The Butterfly Effect - First Conversation of Kings (Superball Music, 2008)


Il terzo lavoro di questa band australiana esce con un anno di ritardo rispetto alla data di rilascio nella terra dei canguri. Il motivo? Non chiedetelo a me. Questo prodotto è di notevole interesse per quei cultori di un genere che da noi spopola solo a periodi, quell'alt rock stile Dashboard Confessional che si lancia contaminare da grunge e post-grunge, da qualcosa di prog melodico alla Dreamtheater dei bei tempi (Awake, Images and Words) e da accenni di hard rock spruzzati a piccole dosi qui e là lungo i suoi quarantadue minuti.

Nel dettaglio è un disco interessante, valido nella non ripetitività dei contenuti, composto da undici brani di uno certo spessore soprattutto per l'aspetto compositivo e la varietà nella proposta. Partendo con la traccia d'apertura Worlds on Fire abbiamo l'impressione di trovare l'ennesimo gruppo alt-rock d'oltreoceano, ma bastano pochi secondi per capire che gli spunti sono molto più ricercati e la canzone finisce per diventare un papabile singolo, nostalgico brano che qualche “romantico” utilizzerà come colonna sonora dei suoi life moments stile film americano. Il tutto coronato dalla sezione centrale di fiati jazz che spezzano la canzone dalla seconda parte in cui sale di tono, finendo con un crescendo che la porta ad un esplosione che, strano a dirsi, mi ricorda le poche ballad dei Blind Guardian. Sette minuti spesi bene. L'alt-rock pseudocommerciale che citavamo nell'introduzione è piuttosto evidente in Final Conversation e 7 Days, due pezzi dalla normale struttura strofa-ritornello-strofa-ritornello che comunque non mancano di interesse per qualche riff semplice ma ad effetto. Potremo dire la stessa identica cosa di The Way, arricchito però di qualche inserto di chitarra più “hard”, qualcosa che alcuni ascoltatori attenti ricollegheranno a certe produzioni degli anni ottanta. Molto interessante Window and the Watcher, probabilmente il pezzo più radio-friendly del disco, con un ritornello che tutti ricorderanno al primo ascolto e riff graffianti che potremo considerare ereditati dai Papa Roach o da tutta quella scena nu-metal/alternative-rock che è andata tanto di moda da metà anni novanta fino ad adesso. Niente di nuovo, ma nel complesso un pezzo che non stona. Le influenze grunge presenti nel brano appena citato sono evidenti anche in In These Hands, che però si forgia di riff veloci propinati a suon di plettrate che mi ricordano un Matthew Bellamy in grande forma nei brani più potenti dei primi due lavori del trio inglese. Seguono una diversa formula, cioè quella dell'apertura melodica con finale potente in crescendo la seconda traccia, Room Without a View e Sum of 1, due brani carini ma non essenziali per questo disco.

Dopo questo track-by-track è evidente che l'album è piuttosto completo, non manca di momenti tristi e statici, né di esplosioni composte di riff taglienti hard-rock style che molti fan del genere apprezzeranno in particolar modo. La sensazione che si ha ascoltando questo disco è di un gruppo ancora alla ricerca di un genere preciso ma che vuole sperimentare più strade, riuscendoci sebbene diventando inconsciamente portavoce di una serie infinita di band (comprese quelle emergenti che probabilmente mai vedremo sui grandi palchi) che parte dall'alternative rock per poi cercare un'affermazione migliore senza riuscirci. Non per questo l'album perde di interesse, anzi lo consiglio a tutti i fan del rock alternativo che ascoltiamo nei Papa Roach o nei Weezer, spruzzato di venature malinconiche alla Stone Temple Pilots, del post-grunge commerciale dei 3 Doors Down e del grunge più classico dei primi Pearl Jam. Una band fresca che se trovasse la giusta via potrebbe davvero diventare famosa anche qui in Europa, e non solo in madrepatria.

Voto: 7

giovedì 24 settembre 2009

The Amber Light - Play (Superball Music, 2008)


I The Amber Light, noto quartetto tedesco con trascorsi progressive e sperimentali ora planato in un'atmosfera più congeniale al grande pubblico, ci propongono "Play", un lavoro molto interessante frutto della fusione di numerose influenze che provengono dai più diversi orizzonti. In questo disco, che giunge sul mercato italiano con quasi un anno di ritardo rispetto alla sua prima uscita in Germania, ritroviamo infatti l'indie rock dei gruppi iconici del momento, come Bloc Party ed Editors (o perlomeno le stesse radici), le linee vocali dei più celebri cantanti mainstream tra cui Molko e Bellamy, e qualche sperimentazione che in Italia già abbiamo sentito ed apprezzato dai Marlene Kuntz ma che potremo senza dubbio ricondurre agli Sonic Youth o ai più recenti Archive.

Il disco nel dettaglio contiene 12 pezzi tutti dello stesso livello, con toni molto variegati che spaziano dal pop di "Drake", ballata che ricorda i Radiohead più malinconici, al power-pop del primo pezzo, "Moody". "All Over Soon" e "Waste" evidenziano il proposito della band di raggiungere i fan della scena alternative del momento, che probabilmente gli varrà qualche posto nei grandi festival estivi. Sono due brani concisi, diretti e ben arrangiati, senza dubbio tra i migliori del disco. "The Deep Twist" è un'altra bella pop ballad in cui linee vocali pop alla Dashboard Confessional si fondono con gli arpeggi più romantici di Jonny Greenwood. "Fire Walk With Me" esplode con un riff puramente Muse dell'epoca di Origin of Symmetry, sembrando in alcuni tratti quasi copiata da altri pezzi dei tre del Devon. Interessante "No Love Lost" che ci presenta una base dominata da synth e chitarre effettate in un groviglio di sonorità quasi new wave; avranno ascoltato troppo i Depeche Mode? E dopo "Does It Ever Get Better", che fa l'occhiolino ai più recenti The Kooks, sorvolando la banale "Play" da cui trae nome il disco, arriviamo ad un'originale chiusura con "...And Then It Stopped Raining...", il pezzo più calmo ma non per questo da sottovalutare. Le chitarre e la voce producono infatti un senso di trasporto che rende questo brano molto evocativo, sicuramente uno dei più interessanti del disco.

Tecnicamente la band è valida. Per chi ha ascoltato anche i lavori precedenti percepirà una presenza meno insistente delle chitarre ma il tutto è funzionale al percorso intrapreso dai quattro con questo Play. Molto valida la performance del cantante, che utilizza il suo timbro piuttosto caldo per creare un'atmosfera molto intima. Interessanti anche i contributi al piano e al synth. L'album infine è ben prodotto e i suoni molto “compressi” aiutano a rendere la riservatezza e la pacatezza dei toni, che conferiscono raffinatezza al prodotto e questa è sicuramente uno degli espedienti che la band ha voluto utilizzare per dare più corpo a questo lavoro.

L'album in sé costituisce un bel pezzo da collezione non solo per chi già ha apprezzato la band, ma anche per chi vuole ascoltare un sano rock commerciale suonato da bravi musicisti. Unico difetto forse la piattezza generale, poiché tutti i pezzi se ascoltati di fila sembrano uniti da un filo comune che nonostante le differenze nelle sonorità e nella struttura sono alla lunga prevedibili e rischiano di stancare dopo qualche ascolto. Un disco da centellinare ed apprezzare poco per volta, sicuramente valido per tutti gli appassionati dell'alternative rock melodico che è ormai entrato in pianta stabile anche nelle “heavy rotation” dei grandi network musicali.

Voto: 7

lunedì 21 settembre 2009

The Devilrock Four - First in Line (Shock Records, 2007)


Il quartetto hard rock australiano arriva con questo First in Line al terzo full-length. Prova piuttosto difficile visto che già i precedenti due dischi non brillavano certo per originalità. L'influenza che l'hard rock anni ottanta e novanta e che qualche spruzzo di punk rock ha su questi ragazzi è evidente in ogni pezzo, ed è forse l'assenza di una rielaborazione personale che ne sminuisce la qualità, comunque discreta.

I pezzi sono tutti piuttosto godibili ed orecchiabili, a metà tra i Motley Crue, gli Offspring, gli Hellacopters e i più recenti The Darkness e Velvet Revolver, passando per l'innegabile stima che questi ragazzi devono avere per gli Ac/Dc.

I riff, seppur piuttosto manchevoli di originalità, hanno un gran tiro e si possono prevedere delle performance live sopra la media. Le migliori This is Forever e Dress You Down, con ritornelli che facilmente si ricordano e composti in maniera non spettacolare ma all'altezza dei gruppi dai quali si abbeverano (si suppone) quotidianamente questi Devilrock Four. Eccezion fatta per l'incipit di No Friend of Mine e Should Have Known tutti i pezzi sono piuttosto veloci e pestati, e quindi dove questo lavoro ne guadagna in omogeneità spicca però una certa assenza di varietà, che non è il pregio di questo First in Line (ma forse neanche il maggior difetto). One Good Reason parte per la tangente con riff più punk che hard rock, e la voce molto “Dexter Holland” di Jonny Driver ne mette in risalto appunto questa componente più “americana”. Interessante anche la conclusiva Love Is Blind, più commerciale, nella quale evidenziamo la struttura alla post-grungettona americana e i riff alla Slash.
La prova della tecnica e della produzione per questo lavoro è senza infamia e senza lode, i ragazzi se la cavano tutti bene (su tutti il batterista Coghill) e sono piuttosto bravi ad inventarsi riff taglienti e giri di basso sempre azzeccati, al di là della già analizzata poca originalità che è il filo conduttore del disco. Suoni in linea con il genere e una qualità della registrazione superiore anche a lavori più celebri sollevano anche l'eventuale giudizio negativo che se ne può dare in tema di songwriting.

Alla fine questo disco è comunque ascoltabile, per chi l'hard rock lo mastica da tempo e per chi vuole scoprirne le neanche troppo numerose combinazioni, ma, non mi stanco di ripeterlo, nulla di nuovo. Davvero.

Voto: 5+

sabato 19 settembre 2009

Pearl Jam - Backspacer (Universal, 2009)


Questo “Backspacer” sembra l'album di quei Pearl Jam che non vogliono invecchiare, come anche nel precedente lavoro avevano fatto notare. Si pesta ancora tanto, fermandosi ogni tanto per quegli inserti melodici che in certe band significano “vendersi” ma che sono invece molto spesso sintomo della maturità che quasi tutti, prima o poi, raggiungono (e infatti il pezzo più lento Just Breathe, non solo è un ottimo brano da viaggio in autostrada, ma presenta anche degli inserti d'archi che sono più o meno una novità per Vedder e soci).

L'album si apre con un pezzo veloce, simile a molti altri successi del passato tra cui il singolo “Do The Evolution”. Si tratta di Gonna See My Friend, strofa e ritornello alternati in una composizione semplice quanto ben funzionante. Azzeccata. Si capisce subito che i riff di questo disco funzionano, anche se sono comunque la rielaborazione più o meno originale di quanto già è stato prodotto nella loro più che decennale carriera. Lo scopriamo in The Fixer, brano che scivola via veloce per la struttura prevalentemente “da chart”. E' questo il tiro del disco. E uno dei singoli estratti Supersonic ne è la conferma, forse l'episodio meglio riuscito di questo Backspacer, con riff taglienti al punto giusto per scatenare anche un po' di pogo ai concerti. In Amongst The Waves si passa a quel post-grunge di band come Nickelback, Creed e primi Alter Bridge, per quanto riguarda la musica, ma il brano è comunque riportato allo stile PJ dalla voce di Vedder e dall'assolone centrale, che quasi strizza l'occhio a Slash. Vale lo stesso per la successiva Unthought Known.

Sonorità più “british” rispetto al grungettone a cui hanno abituati aprono Got Some, che diventa poi comunque il classico pezzo alla Pearl Jam, e anche in Johnny Guitar, in verità uno dei pezzi migliori del disco, per l'impatto che la sua scontatezza ha anche al primo ascolto. Nell'ottica di un disco che “deve vendere” funziona senz'altro. Un po' di melodia anche per un titolo rubato ai Coldplay, Speed of Sound, in realtà una canzone completamente diversa, anche se i toni un po' “malinconici” ricordano un po' alcuni pezzi del gruppo inglese.

La band è ancora in forma, sforna riff che si memorizzano facilmente e lancia ancora qualche occhiata al passato da band grunge uscita dal fortunato panorama di Seattle, seppur l'attenzione a delle soluzioni più “universali” nel sound e nella composizione dei brani siano evidenti. La voce di Vedder è sempre all'altezza e, insieme al chitarrista solista Michael David McCready, rimane il migliore in formazione (anche come originalità). La produzione, nei suoni, è in linea con tutti i loro lavori, soprattutto gli ultimi due o tre album, e non presente particolari novità.

Per concludere, Backspacer è un album che soffre forse della mancanza di quella freschezza che contraddistingueva in particolare alcuni CD precedentemente sfornati dalla band (non solo lo storico “Ten”), ma che dimostra come ci sia chi, superata la quarantina, continua ad avere comunque qualcosa da dare al panorama rock. Mainstream si intende. Perché il grunge, si sa, ormai è morto. E non per colpa di Kurt Cobain.

Voto: 7-

venerdì 18 settembre 2009

Sonata Arctica - The Days of Grays (Nuclear Blast, 2009)


Il nuovo album del quintetto finlandese. Potrei fermarmi qui, ma mi ero promesso di farne una recensione più completa, quindi bando alle ciance.

Rispetto al precedente Unia rincontriamo una band power metal come ci aveva lasciato prima dello scorso disco, più rilassato e per questo forse anche più interessante. Soliti assoli ultraveloci, cavalcate epiche supportate dall'incalzante doppio pedale di Portimo, cantato in puro stile Kakko, senza eccezioni (compreso l'inserimento di una voce femminile che nulla toglie e nulla da al prodotto finale).

Aperto da un pezzo strumentale che ritroveremo in chiusura cantato (Everything Fades to Gray), molto migliore nella seconda versione, il disco prosegue con la tipica struttura da disco “nordico” per tutti i suoi cinquantasette minuti, forte solo di qualche azzardo in più (i cambi di tempo all'inizio di Deathaura, brano in realtà piuttosto noioso nel complesso, ne sono un esempio). Pezzi come The Last Amazing Grays, Flag in The Ground e The Dead Skin sono fotocopie di vecchie canzoni della band, così anche le ballate Breathing e As If The World Wasn't Ending, a metà tra le vecchie glorie come “The End of This Chapter” e i brani da pop scandinavo dell'ultimo di Kotipelto (Stratovarius). Va leggermente oltre, anche se non troppo, Zeroes, pezzo molto orecchiabile che aggiunge qualche venatura più calda al solito set di suoni glaciali/medievaleggianti tipici della band e di gran parte del panorama finnico. Serve a poco citare le altre, in puro stile Sonata Arctica e pertanto sicuramente apprezzate dai fan dello stile, ma per nulla valide nel loro dichiarato tentativo di fare “qualcosa di nuovo”. Che le chiacchiere da blog o da rivista servano ormai è cosa più che dimostrata, e questo disco non sarà certo l'eccezione che conferma la regola.

Che dire. Prodotto bene e suonato meglio, è un disco onesto per chi i Sonata li ha sempre seguiti ed apprezzati, ma venirci a dire che questa è roba nuova suona semplicemente un po' ridicolo. Forse anche patetico, in un genere morto da tempo. Solo per i patiti.

Voto: 4.5

giovedì 17 settembre 2009

Eels - Hombre Lobo (Vagrant, 2009)


Sembra il periodo d'oro per la musica alternative, pop e rock (e anche per le relative combinazioni). Ci sono stati i Grizzly Bear, il nuovo di Beck, un gran disco degli Wilco e tante altre belle cose. Gli Eels hanno voluto dare il loro contributo a questo prezioso momento producendo un gran disco. Hombre Lobo, “uomo lupo”, suona quasi come una dichiarazione d'intenti, volontà di cambiare, ma sempre con lo sguardo rivolto a quello che finora sono stati e probabilmente, visto questo ultimo album, continueranno ad essere. E nessuno se ne dispiaccia.

Hombre Lobo presenta l'onestà della band di E. che non sembra voler smettere di stupire. Produce un gioiellino di alt-pop come non si poteva prevedere, con salti nel passato (come sempre), melodie fuzzettone, pezzi strappalacrime alternati a dolcezza spensierata. Insomma, tutta la storia degli Eels riproposta come in un depliant esplicativo per le orecchie, l'audioguida del signor Mark Oliver Everett. Ci siamo anche coi temi, quando riveliamo la normalità (o meglio, l'ordinarietà) dell'uomo in Ordinary Man, e una specie di disturbo bipolare non solo in versi che si fagocita tutto il disco. Si urla e si scalpita in Fresh Blood, il singolo ed uno dei pezzi migliori, ci si lamenta (ma pur sempre con stile) in The Longing. I riff al limite del radio-friendly di Lilac Breeze e What's A Fella Gotta Do strizzano l'occhio a Beck più di quanto lo stesso cantautore faccia ultimamente, lasciando quindi trapelare in maniera neppure troppo velata l'influenza (in verità bilaterale) che egli ha avuto su E. Non per questo possiamo parlare di una copia, ma lo stile pop luminoso e “da scantinato” degli Eels rimane anzi protagonista. Come in Tremendous Dynamite, dove si grida con un po' di distorto alla voce, un pezzo che ci fa capire da dove gli ultimi Arctic Monkeys vogliono forse prendere per assicurarsi un futuro degno. E l'americanissima Prizefighter, in apertura, con un retrogusto country sporco di Springsteen e di Lynyrd Skynyrd. Sempre con classe.

Everett ce l'ha fatta di nuovo. Questo disco ha di per sé bisogno di un minimo di bagaglio musicale per poterlo apprezzare appieno, ma risulta in ogni caso fresco ed orecchiabile al punto giusto, come se stessimo ascoltando, di nuovo, il Beck dei tempi d'oro. Autoreferenziali, se mai questo fosse utile per capire il disco, anche nei suoni, che chi conosce gli Eels può ricondurre anche a precedenti lavori (in particolare il precedente Blinking Lights and Other Revelations), sempre “all'antica” ma moderni nel tipo di proposta. Peccare di originalità riguarda solo quei gruppi che non sanno più che strada prendere, ma qui non stiamo parlando della solita perla indie triste e malinconica da panorama inglese scazzato per la pioggia, gli Eels sono un vero manifesto, ascoltateli e poi mi saprete dire.

Voto: 7,5

martedì 15 settembre 2009

Zen Circus - Andate Tutti Affanculo (Unhip Records/La Tempesta/Universal, 2009)


Ci ricordano che “La storia ce lo insegna che se Dio esiste è un coglione”, che nel 93 "I pantaloni stretti erano da froci e non da fighi, le Converse da pezzenti, il computer da perdenti". Elargiscono frasi-slogan come “Essere stronzi è dono di pochi, farlo apposta è roba da idioti”e parlano del “rancore di chi l'ha preso in culo e non lo vuole raccontare, gli basta di ridarlo per potersi vendicare".

Il tono del disco è questo. La volgarità elevata a metro per raccontare storie del quotidiano, come Ragazza Eroina, un pezzo che ricorda tanto Rino Gaetano quanto i Tre Allegri Ragazzi Morti. “L'avvenire è andato, ma i sogni del passato sono ancora tutti qua”. E' Gaetano che fomenta questi ragazzi a perseguire il loro scopo di raccontare con il tono che più piace agli italiani cosa ci accade attorno. Lo vediamo nel L'Egoista, ritratto di un tipo di uomo sempre più diffuso, e in Gente di Merda, già vista nella compilation Il Paese E' Reale degli Afterhours, qui in una versione più easy-listening. Ma non stiamo parlando di una versione musicale di Verga, la disillusione con cui affrontano certi temi è senza dubbio caratteristica (lo avevamo già visto in Figlio di Puttana, nel precedente disco) e travalica la banalità con cui altri gruppi lo stanno facendo. Andate Tutti Affanculo, la title-track, è la migliore del disco, sviluppata più o meno sulla struttura di una canzone cantautorale italiana à-la-Guccini, però con una batteria quasi “americaneggiante” (il ritmo comunque non è nuovo per il “circo Zen”). Il rock degli Zen Circus suona meglio in italiano che in inglese (e questo disco è evidentemente migliore del primo), anche se la collaborazione di Ritchie aveva contribuito ad un'internazionalità del suono che qui manca. Non è però questo un difetto.

Canzone di Natale” ha il testo più “reale” del disco, e suona molto anni '90 di quando si era tristi ed arrabbiati per qualcosa (o forse quelli erano i '70?), ed è questa la forza di questi ragazzi.

Le chitarre, sia quando si distorcono per accompagnare la componente più violenta del racconto (“siamo solo fango sparso sopra questa terra”), sia quando si fanno dolci per parlare del “Natale S.p.A.”, in cui ci si aspettano “i contanti e non il solito paio di guanti”.

Anche loro sono una di quelle band nate da poco di cui in Italia c'era bisogno per uscire dall'anonimato. Fanno parte di quella cerchia di band che le major come l'Universal vuole fagocitare perché ha notato l'interesse che il pubblico denota per chi, in italiano, vuole comunicare qualcosa. Si spera che rimangano sempre indipendenti nella creazione dei pezzi e che portino questo stile a qualcosa di più personale, se possibile. Per ora resta un gran disco come nel 2009, in Italia, se n'erano visti pochi. Entrambi i pollici alzati.


Voto: 8+

lunedì 14 settembre 2009

Marlene Kuntz Live @ Bologna 12/09/09


MK. Bologna. Quasi vent'anni di carriera.
Il gruppo di Cristiano Godano prende l'occasione, con questo tour elettrico che succede a quello più “intimo” che attraversò i teatri di tutta Italia all'inizio del 2009, per sparare dritto in faccia a vecchi e nuovi fan tutta la rabbia che li ha sempre contraddistinti. Più di qualche tuffo nel passato e pochissimi riferimenti alla produzione recente, per scatenare anche un po' di pogo, qualche danza e, ovviamente, un coinvolgimento emotivo che non si percepisce solo dalle reazioni “corali” della folla a pezzi storici come Sonica e Nuotando nell'Aria (stranamente presenti in coppia), così come nella recente Uno, in una strana veste più elettrica che su CD, ben riuscita.
Le chitarre elettriche fanno un lavoro eccelso, soprattutto un Cristiano in ottima forma che salta per il palco come un ragazzino, sprezzante dei quarant'anni suonati che si porta sulle spalle. Urla disperato in Ape Regina, sussurra (ma con classe) in Bellezza, passando per gli “istanti in cui vivere è una merda” di A Fior di Pelle, uno dei migliori pezzi live. Il pogo di Festa Mesta se lo ricorderanno tutti quelli delle prime file, ed anche il coro spacca-orecchie sollevatosi per La Canzone che Scrivo Per Te, con qualche fan del gentil sesso che si immola pure nel tentativo di simulare la presenza di Skin a duettare con Godano (come nel singolo originale). Ottima, ma non è una novità, anche la cover di Impressioni di Settembre della PFM, una rievocazione (ed un riarrangiamento) semplicemente mozzafiato).
Dal punto di vista tecnico non c'è niente da dire. Bergia alla batteria in gran forma, Godano salterino e carichissimo alla chitarra, nella media con la voce (piuttosto “graffiante” in certi tratti, sopra i suoi standard comunque a livello di intonazione), bassista all'altezza (ma quanti ne cambiano?) e polistrumentista azzeccato. La moda scatenata dall'ormai ex Afterhours Enrico Gabrielli sembra aver interessato anche il buon Godano, comunque gli inserti di violino à-la-Dario Ciffo ci stanno, niente da dire. Non una nota dolente per un concerto di questo genere, tutto è andato per il verso giusto, anche la durata (circa 2 ore 15) e l'acustica, di cui penso nessun cliente dell'Estragon (semipieno per i piemontesi) possa lamentarsi.

Se capitano dalle vostre parti, soprattutto in questo tour con una scaletta “così” pregna di perle del passato (ricordo, per concludere, anche la presenza di Ineluttabile, Cara è la Fine e Come Stavamo Ieri, imperdibili), fateci un salto. Ne vale la pena

ps. Prima dei Marlene suonava una band di Cuneo che essendo arrivato tardi non mi ha permesso di produrre una valutazione completa e giusta (e nemmeno di capire il nome, in verità), ma dal poco che ho sentito i ragazzi suonavano un rock onesto e maturo, ballabile e con un tiro, soprattutto alle chitarre, notevole (forse simili ai Negrita). Se qualcuno ha informazioni su chi sono lo lasci nei commenti.

Foto a cura di Emanuele Brizzante (sopra) e Alberto Lucchin (sotto, ecco il link al DeviantArt)

domenica 13 settembre 2009

Muse - The Resistance (Warner Bros, 2009)


I Muse sono, da quando esistono, uno dei gruppi più interessanti del panorama rock mainstream inglese. L'evoluzione di Bellamy e soci li ha visti passare da un gruppo ruvido e prevalentemente elettrico ad una band piuttosto abile nel fondere il pop e il rock più commerciali con porzioni strumentali di indubbio valore e qualche tocco di synth/pianoforte sempre azzeccati. Dopo “Black Holes and Revelations”, l'album della maturità per alcuni e della rovina per altri, ci si aspettava forse un'ulteriore elaborazione del sound verso sponde più psichedeliche, sempre mantenendo l'attitudine da band da hit parade che ormai li ha accomunati a Coldplay, U2, Oasis e così via. Quello che “The Resistance” rappresenta è in realtà l'evoluzione più o meno naturale del percorso che già avevano intrapreso con l'album precedente, soprattutto di quella parte “ballabile” (vi ricorderete “Supermassive Black Hole” e “Map Of The Problematique”) che partorì qualche gemma pop con melodie al limite dell'easy-listening come il singolo-tormentone “Starlight”.

Il disco si apre con una ballata che strizza l'occhio a MTV e i suoi spettatori pur facendo riferimento, forse neanche troppo velatamente, ai Battles (per chi li conosce). E' “Uprising”, col suo ritornello molto orecchiabile, e una melodia di basso ripetitiva quanto azzeccata. Bel pezzo. Un altro brano dai toni più “dance” e dalle atmosfere piuttosto depechemodiane è “Undisclosed Desires”, sulle cui pretese da singolo si può scommettere. Inglese misto a francese in “I Belong To You/Mon Coeur S'Ouvre à Ta Voix”; era da tempo che non facevano una canzone d'amore, e di nuovo, come ai tempi di “Unintended”, ci azzeccano. Strofa e ritornello spensierati e banali ma di classe, prima di convertirsi in una tirata di piagnistei con un tocco di orchestra a dare gli accenti giusti. Il Freddie Mercury che c'è in Bellamy si sente ancora di più In “United States of Eurasia”, uno dei pezzi più belli del disco, che inizia con una sofferta intro di piano prima di esplodere in cori alla Queen (alcuni lo definirebbero quasi un plagio), per diventare una cavalcata con tastiera saltellata fino alla coda finale, denominata “Collateral Damage”, un minuto di assolo di pianoforte con chiari accenni alla musica classica. Interessante quanto catchy il giro di tastiera della title-track “Resistance”, che pecca però di un ritornello troppo scontato. Si guarda al passato solo con “Unnatural Selection”, con un riffone di chitarra come non ne sentivano dai tempi di Absolution, prima di scadere poi in una parte centrale rilassata ma forse un po' forzata. Saltando le decenti “Guiding Light” e “Mk Ultra”, si arriva ai tre pezzi conclusivi, che uniti formano la suite “Exogenesis: Symphony”, 10 minuti circa di musica apparentemente non collegata che non aggiunge ne toglie nulla al disco, ma dove l'orchestra da il meglio di sé.

Strumentalmente non serve aggiungere niente a quanto non si sia già detto. Chris Wolstenholme è un gran bassista, ed è in forma, così come Howard alla batteria, sempre più preciso, anche se qualche volta ripetitivo (niente di troppo evidente però). La chitarra sta scomparendo sotto l'incedere delle orchestrazioni, del pianoforte e degli inserti di synth però Bellamy alla voce fa tecnicamente un gran lavoro, rimessosi in gioco nel tentativo (non riuscitissimo) di rinnovare un po' le linee vocali, unica vera pecca del disco. I suoni ci sono, del resto qualcuno aveva dei dubbi sul buon gusto dei tre?

The Resistance” è un album onesto, un altro album di quei Muse imborghesiti che abbiamo già imparato a conoscere negli ultimi anni e, nel suo essere un miscuglio eterogeneo di pop epico e rock con qualche accenno di elettronica da classifica, e se non sarà il massimo in quanto ad originalità resta comunque un lavoro degno di nota, in barba a quei detrattori che sempre guarderanno male a chi, come loro, tenta di fare soldi con della musica seria (ma non sia mai criticare i Radiohead). Da ascoltare.

Voto: 7.5

sabato 12 settembre 2009

The Police - Reggatta de Blanc (A&M, 1979)


In quel periodo il progressive rock stava diventando obsoleto e il punk stava diventando alla moda. La nuova generazione punk si proclamava portavoce dei giovani arrabbiati con la società, andavano contro le regole (ricordiamo tutti l'uscita infelice di Johnny Rotten "I hate Pink Floyd". Uscita che lui stesso ha rinnegato in anni recenti) e nascondevano la loro insufficenza tecnica con accordi semplici, dimenticandosi che tutto ciò c'era sempre stato in passato. L'unica cosa che li contraddistingueva era una maggiore carica di distorto nei brani.
Detto questo, qualche buon gruppo uscì dall'ondata punk, come i The Clash, i Fear, i Devo e appunto i The Police (questi ultimi due in seguito si sono lasciati il punk alle spalle).

I The Police erano un trio, formato dal celeberrimo Sting al basso e alla voce (persona un po' irritante, ma musicista favoloso e ottimo compositore), il geniale Andy Summers alla chitarra e Stewart Copeland alla batteria, un vero tornado di tecnica, gusto e precisione.

Questo disco è il secondo album del gruppo, dopo "Outlandos D'amour", che a dispetto del titolo era un disco per la maggiore parte punk, ma non senza personalità e con grandissima capacità tecnica dei musicisti.
"Reggatta de Blanc" è il punto di svolta del gruppo, come se nel primo album si stessero soltanto riscaldando. Qualche traccia di punk resta ad esempio in "It's Alright For You" e nella conclusiva "No Time This Time", brano degno di nota per il drumming di Copeland.
"Reggatta de Blanc", significa "reggae dei bianchi", e in effetti, il reggae è proprio il genere dominante nel disco, anche se non si tratta di reggae ordinario ma con tracce di rock e di new wave. Stiamo parlando ad esempio dell'ipnotica e famosissima "Walking on the Moon", di "The Bed's Too Big Without You", di "Bring on The Night", di "Deathwish" (brano davvero eccellente, nonchè uno dei pochi accreditati a tutto il gruppo) e ovviamente della title-track, strumentale che si è sviluppato partendo dalle improvvisazioni dal vivo durante la sezione centrale della loro hit "Can't Stand Losing You" (dal primo album).
Non manca lo humor, come ad esempio su "Any Other Day" e "Does Everyone Stare", entrambi brani di Copeland, che canta anche il primo. Il primo pezzo racconta le disavventure di un uomo nel giorno del suo compleanno, mentre il secondo potrebbe essere l'inno dei giovani timidi e innamorati ("Mi cambio i vestiti 10 volte prima di uscire con te/mi vengono i brividi e il panico mi fa ritardare/mi vengono i sudori quando prendo il telefono/lo lascio suonare due volte prima di andare in panico e decidere che non sei in casa"). Entrambi i brani hanno anche molto da offrire musicalmente, specialmente il secondo.
Copeland è autore anche dell'inquietante "Contact", con una linea di basso synth da ricordare. E infine, non si può concludere la recensione senza menzionare la famosissima e incredibilmente coinvolgente "Message in a Bottle", brano di apertura dell'album e loro pezzo più famoso probabilmente.

I Police erano una vera e propria boccata di aria fresca in un periodo non proprio felice per la musica, e questo album li rappresenta nelle loro piene capacità compositive. Fortemente consigliato!

Voto: 8+

venerdì 11 settembre 2009

Megadeth - Endgame (Roadrunner Records, 2009)


Che dire di un CD come questo?

I Megadeth sono uno di quei gruppi che ha trovato la formula giusta per continuare a ripetersi mantenendo lo stuolo di fan che li ha sempre seguiti senza perdere più di tanto seguito. Questo significa anche un calo inesorabile dell'originalità di album in album (addirittura nelle copertine), con l'avanzare dell'età. Li differenzia dai Metallica solo quella quasi-totale assenza di volontà di cambiamento che invece Ulrich & soci avevano manifestato, ovviamente in peggio. Mustaine sa cosa significa continuare a scrivere riff metal come si deve, complici anche gli altri ovviamente. Quello che manca è un motivo per spendere dei soldi dietro ad un concerto o ad un disco di questi Megadeth in versione copia carbone di loro stessi.

Il piatto forte del disco sono le solite cavalcate metal (mischiate con l'hard rock come più recentemente molti gruppi metal degli anni '80 hanno iniziato a fare) con riff veloci e comunque parzialmente orecchiabili, e ritornelli che la scena "del metallo" ormai conosce fin troppo bene, così come gli assoli (ascoltate 1,320 per farvi un'idea di cosa sto dicendo). Niente di nuovo infatti per pezzi come la title-track Endgame, Head Crusher (la più pesante ed anche la più carina) e This Day We Fight!, uno di quei pezzi troppo simili ai primi Metallica (la frequenza su cui sintonizzarsi si chiama Ride the Lightning) che sono il modello di molte discussioni su chi abbia inventato questo sound, delle quali non ritengo sia doveroso riprenderne le argomentazioni.

La mezza acustica The Hardest Part of Letting Go...Sealed With A Kiss alza il tiro, pur rimanendo negli standard della ballad di una band metal, con tanto di crescendo centrale proprio dove lo si poteva prevedere. Altro episodio salvabile è Dialectic Chaos, il pezzo di apertura che cita i recenti Dreamtheater (o sono loro che vogliono sembrare pesti anche quando non se lo possono permettere?) nel titolo e anche nella composizione. Il resto è metal fatto come si deve ma nello standard di un disco che non fa certo impazzire (per quello ci sono i Mastodon).

La produzione è molto buona e la band tecnicamente ci da ancora dentro, sentendo meno il peso degli anni rispetto a quella fascia di metallari che parte dagli Slayer e si sta sgretolando con il passare del tempo. Dave Mustaine è sempre fresco e produce ancora riff di qualità, così come sta trovando una sua dimensione per il cantato, comunque ancora niente di eccezionale, ma tutto suona come un rimpasto della medesima merce, e questo non è troppo strano. Per un fan del genere o della band stessa l'album risulterà anche godibile ma la prevedibilità e l'assenza di varietà non giocano certo a favore di questo lavoro. Del resto non è la prima volta che ci ripropongono la stessa roba e non ci resta che sperare in un cambiamento in futuro, magari un St. Anger per rovinarsi la carriera lo faranno anche loro. Per ora galleggiano ancora attorno alla sufficienza.


Voto: 5,5

mercoledì 9 settembre 2009

Genesis - A Trick of the Tail (Charisma, 1976)


Nel 1975 Peter Gabriel abbandona i Genesis. Così, quasi senza preaviso, il poliedrico frontman, il poeta, annuncia che già da tempo si sentiva fuori dal gruppo e che preferirebbe mettere un po' di ordine nella sua vita piuttosto che proseguire la sua carriera coi Genesis.

Gabriel non resta in brutti rapporti con il gruppo (ci fu qualche collaborazione sparsa nel resto della carriera), ma lascia un grande vuoto che i compagni non sanno come colmare. I quattro dopo aver abbandonato l'ipotesi di una carriera strumentale rinunciano, e cominciano a provare diversi candidati. Purtroppo però i risultati sono disastrosi, ma i Genesis non mollano. La leggenda vuole che Phil Collins, batterista del gruppo dai tempi di "Nursery Cryme" (1971) e spesso corista o seconda voce, in un momento di disperazione sia entrato in studio e abbia registrato una traccia vocale. Il risultato era ottimo: la voce di Collins era simile a quella di Gabriel, ma non uguale. Più limitata magari, ma con la sua personalità e molto gradevole. Quindi si decise che Phil Collins sarebbe diventato il nuovo cantante e avrebbe mantenuto il suo posto da batterista in studio, mentre dal vivo sarebbe stato sostituito da un session man durante le parti cantate (prima Bill Bruford, poi Chester Thompson).

"A Trick of The Tail" è un ottimo disco di prog della miglior caratura, in nessun modo inferiore a "Trespass" o a "The Lamb lies down on Broadway". Mozzafiato l'apertura, affidata alla frenetica e coinvolgente "Dance on a Volcano", con un ritmo molto particolare e una bella linea vocale. La sezione strumentale è tecnicamente perfetta e la voce di Collins si amalgama perfettamente.
Un altro piccolo capolavoro è la maestosa e trionfante "Squonk", nella quale la chitarra di Steve Hackett risalta splendidamente.
Hackett è anche il principale autore di "Entangled", lunga e ispirata ballata acustica, mentre sono opera del tastierista Tony Banks la bella "Mad Man Moon", brano che forse dura più del dovuto, ma che di sicuro ha un'atmosfera che pochi sanno creare e la title-track, gradevolissimo brano con un feel molto Inglese.
"Robbery, Assault & Battery" è un brano complesso, che inizia con un tempo di marcia con un ritornello aggressivo e una sezione strumentale progressive al 100%, mentre per "Ripples" possiamo ripetere le stesse identiche cose dette per "Mad Man Moon".
Chiude l'album "Los Endos", eccellente strumentale che riprende quasi tutti i temi del disco. Particolarmente efficace risulta la reprise del tema di "Squonk" a fine brano. Curiosità, durante il finale del brano, nella versione studio Collins canta un frammento di "Supper's Ready", come omaggio a Peter Gabriel.
Termino l'analisi comunque parlando anche di Mike Rutherford, del quale non è possibile trovare un momento di spicco particolare nell'album, ma le cui linee di basso sono originalissime e geniali.

Come potete vedere siamo comunque a livelli molto alti. Il declino dei Genesis è iniziato dopo l'abbandono di Steve Hackett dal gruppo, ma fino al 1977 (e al live album "Seconds Out"), si va sul sicuro. Io, un ascolto a "Duke", lo consiglerei comunque, ma questo è un altro argomento.

Infine concludo consigliando la nuova edizione dell'album che contiene anche come bonus un DVD ufficiale con un live del tour.

Voto: 9

lunedì 7 settembre 2009

Blind Faith - Blind Faith (Polydor Records, 1969)


I Blind Faith spesso sono considerati il primo supergruppo della storia della musica. In realtà a modo loro lo erano già stati i Cream (dai quali provengono appunto Eric Clapton e Ginger Baker, chitarra e batteria di questo lavoro). I Blind Faith sembrano essere nati per proseguire nello stile dei Cream, però senza mancare di originalità. Sicuramente, la lista dei musicisti è da bava alla bocca: oltre ai già citati Baker e Clapton ci sono anche il compianto Ric Grech al basso (ex membro dei Family) e il poliedrico Steve Winwood all'organo, alla voce solista e a molti altri strumenti. Un altra cosa per cui questo album fece scalpore fu la sua copertina (che potete vedere a sinistra della recensione), con la foto dell'undicenne Mariora Goschen nuda. Questo causò non pochi problemi ai Blind Faith, anche se tutto terminò quasi ovunque con la sostituzione della copertina con un innocua foto di gruppo, più che con il ritiro del disco.

Purtroppo, a parte la lista dei musicisti e la copertina, questo album ha poco da offrire. Il problema, non sono le canzoni (che in alcuni casi sono di pregevole fattura), ma la considerazione generale che si ha di questo disco. Si tratta di un lavoro di buona fattura, ma sicuramente non è il capolavoro che molti definiscono. In effetti, questo album non è superiore a nessun disco dei Cream, ma andiamo con ordine.

L'album inizia decisamente bene, con "Had To Cry Today", probabilmente la cosa migliore di tutto il disco. E' un brano rock blues, con un riff che nulla ha da invidiare ai Led Zeppelin. Il brano dura nove minuti, tutti costruiti sullo stesso granitico riff, ma gli assoli di chitarra e la melodia vocale sono così ipnotici che i 9 minuti passeranno senza essere notati.
Si prosegue poi con "Can't Find my Way Home", una gradevole ballata acusitca, penalizzata un po' dalla produzione (il suono delle percussioni risulta un po' fastidioso).
Segue una caotica e disorganizzata (ma non per questo brutta) la cover di "Well All Right". Nonostante probabilmente sia una delle cose minori del disco è da segnalare l'ottima coda strumentale, con un eccellente assolo di piano. Chiude il lato A una ballata di Clapton, la souleggiante "Presence of the Lord", che a metà brano esplode in una e vera propria sarabanda per wah wah.

Il lato B inizia con la deliziosa "Sea of Joy", con un magistrale riff, ottimo contrasto tra elettrico e acustico (compare anche il violino, suonato da Grech) e eccellente prestazione vocale.
Chiude l'album la controversa "Do What you Like", una cavalcata jazzata di 15 minuti a firma Baker. Nonostante il brano in se sia piuttosto buono, il problema è nella jam centrale, troppo lunga e appesantita da dei cori che ripetono il titolo del brano, che risultano più che altro fastidiosi. Abbastanza brutto anche il finale psichedelico. Va segnalato comunque l'ottimo assolo di batteria.

Qua termina l'album originale, anche se le varie edizioni in CD riportano alcune bonus track (alcune, pare totalmente non relazionate ai Blind Faith, ma solo a Grech solista) e termina anche il breve capitolo Blind Faith.

Possiamo parlare di un buon album di solido rock/blues, ma non di un disco essenziale. Un ascolto è comunque consigliato, soprattutto ai neochitarristi e a chi vuole scoprire una curiosa parentesi di Clapton (qua nel pieno del suo splendore, chitarristicamente parlando).

Voto: 7.5

domenica 6 settembre 2009

Grizzly Bear - Veckatimest (Warp, 2009)


I Grizzly Bear sono quattro musicisti di Brooklyn che hanno avuto la brillante idea di sperimentare con il pop, il folk, miscelando questi generi con derive alternative ed ingredienti di rock più classico. Questa non sembra una novità, nell'epoca degli Animal Collective e della moda del ritorno all'antico (moda che tocca più i Joy Division che altro), ma rispetto ai ragazzi di Baltimora i newyorkesi sembrano molto più “avanguardisti” nel loro intento. Al loro terzo lavoro, proprio mentre le sperimentazioni procedono verso altre direzioni in tutto il mondo della musica “alternativa”, continuano sulla loro strada, producendo un vero e proprio gioiellino. Il nome criptico “Veckatimest” può ingannare. In realtà si tratta di un gran disco, ma vediamolo meglio nel dettaglio.

L'incontro per nulla insipido di numerose influenze crea squisite convergenze sonore in canzoni stratificate dalla composizione piuttosto complessa, lontane dai cliché e dall'unidirezionalità di certe band-revival. Si rifugge nel beatlesiano, come nel prog anni settanta, per passare dai Beach Boys e ai più recenti Arcade Fire (senza mai citare direttamente nessuno di questi). Stupende armonie vocali e giri di piano che sanno di orecchiabile quanto di vintage (come se le cose non potessero andare d'accordo), come nel pezzo di apertura Two Weeks, che parte con un limpido giro di piano facilmente memorizzabile per sguazzare poi negli intrecci di voce-basso-piano che sono uno degli ingredienti principali di questo Veckatimest. Ci sono anche la componente epica di una canzone come I Live With You e la pop-consapevolezza di While You Wait for the Others. E anche i pezzi riempitivo non suonano per nulla scontati: parlo di piccole perle come Hold Still e About Face, riempitivi perché farciture rimpastate di sonorità che i Grizzly Bear già esplorarono nei lavori precedenti, seppur questo non è un difetto, e ascoltando questo disco nella sua interezza lo si può pienamente appurare.

Ottimo il lavoro sui suoni, a volte più legati al passato (anche questo per nulla negativo) pur senza sembrare “vecchi”, e la produzione, a confermare le esigenze di un'etichetta comunque di spessore come la Warp. Per parlare dell'aspetto tecnico non serve sprecare molte parole; si tratta di musicisti con una certa esperienza, e questa trasuda da ogni nota, da ogni inaspettato passaggio e da ogni colpo di batteria, in questo disco particolarmente presente (rispetto all'album di debutto Horn of Plenty ad esempio) ed originale.

Non ci si aspettava così tanto, davvero complimenti ai quattro ragazzi. Ascoltate questo disco, perché merita davvero (non solo per chi apprezza le band sopracitate).

Voto: 8


Coldplay - Concerto a Udine, 31/8/2009


Le band che raggiungono un successo così grande spesso peccano di sensibilità. Si presentano davanti a migliaia di persone con scenografie milionarie, fanno un ora di concerto e se ne vanno senza un grazie. Non è il caso dei Coldplay. Un palco enorme, un casino di soldi spesi in fuochi d'artificio, palloni ed altri effetti di scena piuttosto azzeccati, senz'altro, ma c'è anche uno show perfetto in ogni suo dettaglio, con quasi 2 ore di musica, una tracklist da pelle d'oca ed un esecuzione da brivido. Con due buoni gruppi spalla, oltretutto.
Parto proprio da quelli.
Alle 7 e qualche minuto accendono gli amplificatori i Ministri, che fanno un set di qualche minuto per scaldare la folla, che (nonostante il genere) gradisce. Qualche “bevo, bevo bevo” si eleva dal pubblico e i loro 25 minuti di set volano veloci. Buona la performance, con unica pecca la voce veramente stanca del cantante. Su tutte spiccano La Piazza e Non Mi Conviene Puntare in Alto.
Arrivano dopo poco i White Lies, band-rivelazione inglese del 2009. Fare l'occhiolino ai Joy Division non è solo un'operazione di marketing se sai suonare lo strumento che imbracci. I ragazzi tecnicamente ci danno dentro, si contano pochissimi errori e il set sfugge velocemente, con perle come Farewell to the Fairground in apertura e il singolo Death, ben eseguito, a chiudere.
E arrivano loro, quelli che hanno fatto muovere più di 40.000 persone nonostante il prezzo piuttosto elevato del biglietto. Si parte col botto, tutti in piedi anche sugli spalti, per la combo devastante di Life in Technicolor (introduzione), Violet Hill, Clocks, In My Place e Yellow. Nella serie almeno quattro delle canzoni migliori del loro repertorio, tra le altre cose anche le più amate, e lo si sente dalla reazione quasi smodata del pubblico (sempre meno di quella che partirà per il tormentone Viva la Vida). Eseguendo praticamente tutto l'ultimo CD, spunta anche qualche perla dal passato come The Hardest Part o la migliore di tutte, Fix You, veramente intensa in concerto. Con un set acustico in mezzo al pubblico (dal quale parte una sentita cover di Billie Jean del compianto Michael Jackson) e un remix di Viva la Vida, escono per la pausa. Di ritorno c'è tempo per qualche canzone (la migliore Lovers in Japan, con tanto di farfalle di carta sparate sul pubblico), prima dell'encore con The Scientist e Life in Technicolor II accompagnata dai fuochi d'artificio a mettere la parola fine alla performance.
Tecnicamente la band è davvero apprezzabile. Si contano sulle dita di una mano gli errori, ancora meno le stonature di un Chris Martin in forma, che gioca anche con il pubblico dirompendo qua e là con qualche frase in un italiano che dire stentato è dire poco. Divertenti quanto basta per far capire che anche loro si divertono, ancora, a suonare, lasciano l'amaro in bocca solo quando ci si rende conto che lo spettacolo è finito e che per rivederli bisognerà attendere molto. Veramente un gran concerto, complice anche l'atmosfera creata di un pubblico di sostenitori accaniti e sinceri.
Imperdibile.
*la fotografia è stata trovata su FlickR, non è di mia proprietà e ringrazio l'autore

venerdì 4 settembre 2009

Jethro Tull - Concerto a Riolo Terme, 27/8/2009


Questo non era il mio primo concerto dei Jethro Tull, è stato il terzo e sinceramente non sapevo cosa aspettarmi: la prima volta a Ravenna (al Pala de Andrè, 28 Giugno 2007) non era stata un granché per i loro standard; Anderson aveva la febbre e inoltre era stato irritato dal pubblico che gli scattava le foto con il flash abbagliandolo (come se Anderson non fosse già irritabile di suo). Molto meglio la seconda volta a Schio (Arena Campagnola, 4 Luglio 2008) per il tour del quarantennale. Si percepiva voglia di suonare, il gruppo era in forma, Anderson era di buonumore e la scaletta era molto buona. Ma adesso cosa potevo aspettarmi?

Comunque partiamo dall'inizio, nel momento di apertura dei cancelli del Parco Fluviale. Vedo che a differenza degli altri anni non c'è posto dove sedersi: tutti in piedi. Già un punto a sfavore, perché il cielo non promette molto bene (e infatti cadrà qualche goccia di pioggia di lì a poco, ma non durante il set dei Jethro Tull, fortunatamente). Inoltre vedo sul palco a fare il soundcheck della gente completamente diversa dai Jethro Tull. Scoprirò di lì a poco, che oltre ai Jethro, suonerà anche un gruppo di supporto, i Mamamicarburo, una band discretamente famosa a livello underground.

I Mamamicarburo iniziano verso le 9:30, dopo le goccie di pioggia già menzionate. Non posso dire di apprezzare la loro musica, ma loro mi fanno simpatia, sono molto emozionati, si scusano quasi con il pubblico di essere lì e senza dubbio a livello tecnico se la cavano egregiamente: insomma, riescono ad eseguire il loro set in maniera piuttosto dignitosa, anche se il chitarrista verso metà concerto cade e apparentemente si fa male (notavo su di lui un espressione di dolore per il resto del tempo).

Al termine dei Mamamicarburo, qualche minuto per cambiare il palco e finalmente è l'ora dei Jethro Tull.

Non si può dire che a inizio concerto fossi molto impressionato: ero infatti un po' deluso dai due brani di apertura, ovvero "Nothing is Easy" e "A New Day Yesterday". La prima l'avevo sentita a tutti i concerti Tullici a cui ero andato, e la seconda è stata presentata in maniera condensata, priva della jam centrale (che invece a Schio era stata eseguita).

Le cose migliorano notevolmente con il terzo pezzo, "Beggar's Farm", dall'album di esordio. L'ipnotica linea di chitarra suonata da Martin Barre ipnotizzava letteralmente il pubblico, lo shuffle a metà brano eseguito in maniera impeccabile, ottimi gli assolo di tutti i membri del gruppo in particolare quello del leader-folletto Ian Anderson. Segue "Serenade to a Cuckoo", cover del jazzista statunitense Rahsaan Roland Kirk, e soprattutto la più recente "Rocks on the Road", che è sempre un piacere ascoltare dal vivo, se non altro per la jam finale.

A questo punto però cominciano le sorprese. Con qualche gioco di parole, Ian introduce la breve e dimenticata "Jeffrey Goes to Leicester Square", nella quale Martin imita con la chitarra elettrica il suono di mandolino. Al termine del pezzo Anderson comunica al pubblico che stanno per suonare la loro "worst song ever", con un "hippie vegetarian freak out guitar solo by Martin Barre". La loro "worst song ever" si scoprirà essere "Back to the Family", brano ben lungi dall'essere il loro peggiore (onestamente, Ian, ti sei scordato di "General Crossing", di "Automotive Engineering" o di "Gold Tipped Boots, Black Jacket and Tie"?). Sentire dal vivo "Back to The Family" è stato molto bello, anche se la voce di Ian non riesce a reggere il paragone con la sua stessa voce di 40 anni fa, ovviamente.

Seguono l'attesa "Bourée" e soprattutto "Mother Goose", con un ottima prova di basso di David Goodier (in formazione solo dal 2007 ma in ottima sintonia con il gruppo e con il suo leader). La superba "Heavy Horses" e l'ottima "Farm on the Freeway" (eseguite tutte di un fiato) spianano la strada al momento batteristico della serata, ovvero "Dharma for One". Non senza commenti acidi di Anderson ("thankfully the drum solo will not least 20 minutes as in the seventies, but just 20 seconds. But it will still seem like ages!"). Che Doane Perry fosse un ottimo batterista lo sapevamo già, ma una conferma ogni tanto non fa male. Bella anche l'idea di inserire lo strumentale di Martin Barre "Count the Chickens" all'interno del brano.

A questo punto siamo verso la fine del concerto, quindi iniziano i cosidetti "brani d'obbligo". Il primo dei quali è, ovviamente, "Thick as a Brick", che ho già sentito anche negli altri concerti, ma che non mi stancherò mai di sentire dal vivo. A questo punto devo spendere un paio di buone parole per il tanto bistrattato tastierista John O'hara, entrato in formazione nel 2007 con Goodier. O'hara viene spesso definito non altezza dei suoi predecessori, o addiritura insufficente dal punto di vista tecnico. La prima affermazione posso capirla, ma per quanto riguarda la seconda credo che sia assolutamente infondata. Un altra accusa che ho sentito fare ai danni di O'hara è che il buon tastiere tenti di scimmiottare John Evans (primo leggendario tastierista del gruppo). A questa accusa rispondo con una domanda: avete mai ascoltato John Evans o John O'hara? Se la risposta è "sì", allora state mentendo, se la risposta è "no" apprezzo l'onestà.

Ad ogni modo si prosegue con "My God", che finalmente riesco a sentire bene dal vivo. Infatti, quando il brano venne eseguito a Ravenna, venne troncato a metà in reazione al continuo comportamento del pubblico che continuava ad irritare Anderson. La chiusura del concerto è standard, con "Aqualung" come fine set e "Locomotive Breath" come bis, anche se ogni volta che vado a vedere i Jethro Tull, la coda flautistica di quest'ultimo brano si estende sempre di più (e a ragione, perché è molto coinvolgente).

In definitiva un ottimo concerto, partito un po' in sordina, ma proseguito a livelli memorabili, che dimostra che questi ragazzotti ci sanno ancora fare molto bene, specialmente il chitarrista Martin Barre, autore di memorabili assoli e di ritmiche ben studiate, semplici ma mai banali. Ottime parole spese anche per Ian Anderson, che con la voce non c'è più da tempo, ma che con il flauto resta Dio e ovviamente per il resto del gruppo (Doane Perry si è dimostrato particolarmente in forma questa sera rispetto alle altre). Vederli dal vivo è sempre una grande emozione, anche se i tempi dove il Minstrel in the Gallery aveva i capelli lunghi e saltava indemoniato sul palco sono finiti da un bel pezzo. Ma come si suol dire, un bicchiere di brandy invecchiato non fa mai male, no?

(Per la foto si ringrazia gentilmente Cinzia Raffagli)