martedì 30 novembre 2010

[NEWS] Il ritorno live dei System Of A Down

Come riporta il loro sito ufficiale, i System Of A Down torneranno ufficialmente nel 2011 con un tour estivo. La band è, senza ombra di dubbio, una delle band che più al mondo si attendeva per una "reunion", anche se essenzialmente questo è semplicemente un ritorno poiché lo scioglimento non è mai stato dichiarato. 

Sono state annunciate alcune date europee, di cui la prima assoluta sarà proprio in Italia. Good Times Bad Times sarà presente.

Ecco i dettagli:

2 GIUGNO 2011 - FIERA DI MILANO, RHO (MI)
4 GIUGNO 2011 - ROCK IM PARK, NURNBERG, GERMANIA
5 GIUGNO 2011 - ROCK AM RING, NURBUGRING, GERMANIA
6 GIUGNO 2011 - OMNISPORTS DE BERCY, PARIGI, FRANCIA
9 GIUGNO 2011 - GREENFIELD FESTIVAL, INTERLAKEN, SVIZZERA
11 GIUGNO 2011 - DOWNLOAD FESTIVAL, DONINGTON CASTLE, GRAN BRETAGNA
13 GIUGNO 2011 - NOVAROCK, NICKELSDORF, AUSTRIA
15 GIUGNO 2011 - WUHLHEIDE, BERLINO, GERMANIA
17 GIUGNO 2011 - METALTOWN FESTIVAL, GOTHENBURG, SVEZIA
19 GIUGNO 2011 - PROVINSSIROCK, TURKU, FINLANDIA

lunedì 29 novembre 2010

The Antonio's Revenge - Times Square Lights (Produzioni Dada, 2010)


Tracklist:
1. Times Square Lights
2. Shining Star
3. Better Than Myself
4. Italian Holiday
5. Out of You

Un nome che fa riferimento a John Marston e al sequel di Antonio and Mellida. Un disco che esce per Produzioni Dada, che già si è occupata di interessanti progetti come Jules Not Jude, T.H.O.C. e Gretel e Hansel. Un paio di premesse mica da poco per questo Times Square Lights dei The Antonio's Revenge, formazione bresciana che si fregia anche di Fausto Zanardelli (ne avevamo parlato per il suo disco con lo pseudonimo Edipo qualche tempo fa) come ospite a percussioni e tastiere.
Questo album, o meglio extended play, racchiude cinque canzoni abbastanza buone che ripercorrono in maniera decente un panorama brit che non è mai stato scosso da importanti rivoluzioni, e i risultati si vedono. Anche questo EP, infatti, sa di già sentito, ma riesce nell'incredibile intento di non essere mai né banale, né spoglio, sempre carico al punto giusto nonostante i suoi ingredienti principali siano quelli della chitarra acustica e della tipica flebile voce che facilmente si connette a band britanniche come i Travis (anche se loro sono scozzesi, dove il genere fila un po' meno che nel sud). L'asso nella manica della formazione è Alessandro Razzi che sia alla chitarra che alla voce fa un ottimo lavoro, riuscendo a tirare fuori le linee vocali perfette per ogni occasione, con un timbro che più azzeccato non poteva essere, e anche ad innestare qualche ottimo arrangiamento con la sei corde. Giovanni Boscaini al basso non ha problemi ad accompagnare il tutto con un apporto ritmico non speciale, ma comunque apprezzabile.

In virtù di quello che abbiamo detto (e ascoltato), questo disco è consigliabile a chi si sia almeno una volta appassionato a band brit-pop o comunque al rock inglese più puro, perché anche in Italia gruppi del genere che sanno il fatto loro si stanno facendo strada tra i giganti, pronti magari ad arrivare sui grandi palchi. E speriamo sia il caso dei The Antonio's Revenge che, con un EP come questo, hanno dimostrato di meritarselo.
Notevole.

Voto: 7.5

domenica 28 novembre 2010

[NEWS] Noi Sud sta con la musica emergente

Roma, 26 nov 2010 - "Presentata interrogazione ai Ministri dei beni e attività culturali e dello sviluppo economico affinché ognuno nelle proprie aree di competenza intervenga a sostegno della musica italiana" lo rende nota l'On. Americo Porfidia di Noi Sud.
"Che il settore musicale italiano indipendente sia in continua evoluzione - spiega Porfidia - lo dimostra il successo di manifestazioni come il MEI (Meeting delle etichette indipendenti) che da più di un decennio, trasforma ogni fine novembre la città di Faenza nella capitale della musica indipendente italiana. Tuttavia - continua Porfidia - le produzioni musicali italiane non sono molto valorizzate dal sistema radiofonico nazionale che predilige trasmettere canzoni provenienti per lo più dal mercato estero. Come fa osservare Audiocoop, a fronte del fatto che il 60% dei compact disk venduti in Italia sia di musica italiana, i più grandi network radiofonici commerciali che operano sul territorio nazionale trasmettono meno del 30% di musica italiana, e sostanzialmente, quasi nessun autore proveniente da piccole o medie etichette. La situazione è ancora meno florida se si analizza l'offerta televisiva. Di fatto - denuncia il deputato campano - si registra un forte danno verso tutte le piccole e medie etichette discografiche italiane con risvolti negativi sull'intero settore del made in Italy che rischia di cancellare la tradizione rinnovata della nuova musica italiana, il suo rapporto col territorio e le peculiarità locali, con il grave risultato di omologare il gusto degli ascoltatori ad un generico livellamento musicale." 
"Per questo - conclude l'on. Porfidia - chiediamo ai Ministri interrogati se non ritengano opportuno assumere iniziative, nelle proprie aree di competenza, al fine di promuovere la musica italiana ed eventualmente fare in modo che vi siano delle quote per il made in Italy nelle radio e tv del Paese (40% di musica prodotta in Italia, analogamente a quanto accade in Francia, della quale il 20% di opere prime) e sgravi e incentivi su chi investe per opere prime, promozioni all'estero e diffusione sui nuovi mercati on line; se non si ritenga necessario aprire un tavolo di confronto con produttori, discografici e radio e tv nazionali per trovare insieme strategie per promuovere la buona musica italiana; se non si ritenga necessario siglare un accordo per la promozione della piccola e media discografia indipendente italiana per la promozione della musica italiana all'estero e se non si ritenga fondamentale continuare a sostenere tali importanti manifestazioni con sostegni diretti, sgravi e incentivi per i produttori di opere prime e di investimenti on line"

On. Americo Porfidia
Noi Sud - Membro IV Commissione (Difesa)

sabato 27 novembre 2010

Gio Gentile - Atlantide (Videoradio, 2010)


Tracklist:
1. Atlantide
2. Anime
3. Mike Day 2
4. Guardiano di Nuvole
5. Leukos
6. Utopeace
7. Nettuno
8. Thira
9. Mediterraneo
10. Vivara

Erano sei anni che Gio Gentile, noto chitarrista campano, non si faceva vedere sul mercato discografico. C'è da dire che nel frattempo le cose sono cambiate molto, ma su di lui il peso di internet non si è fatto sentire (dopotutto propone un genere di cui gli internauti se ne fregano abbastanza).
Atlantide è un disco molto complesso, un ensemble di prog e jazz quasi completamente strumentale che si propone di parlare del mare, come il nome stesso del disco e di alcune tracce suggeriscono. Il mare è una forza ambivalente, affascinante, possente, mitologica, mortale. La civiltà scomparsa di Atlantide secondo la leggenda è stata molte cose, difficile definirla, e dire che questo disco prova a darne un ritratto abbastanza completo utilizzando il linguaggio molto espansivo del jazz è forse un'esagerazione, però gli intenti sembrano essere stati quelli.

La title-track attira tutta l'attenzione dell'ascoltatore sul combattimento continuo che tastiera e chitarra fanno per prevalere una sopra l'altra, insieme a qualche accenno di voce che dal punto di vista musicale svolge una notevole funzione di riempitivo. Quando si andrà a riascoltare per la terza o quarta volta questo disco sarà proprio "Atlantide" il pezzo che più ci farà ricordare del motivo per cui è stato composto, e quasi saremo portati ad immaginare in lontananza le onde del Mediterraneo infrangersi sulle scogliere greche o siciliane. Un concetto, quello di onda, che viene rievocato successivamente soprattutto da "Utopeace", con Joe Amoruso alle tastiere, e "Nettuno", brani di cui si apprezza anche la titolazione (soprattutto del primo, che gioca molto sui concetti di utopia e di pace, quindi di una pace utopistica). La canzone dedicata alla piccola isola di "Vivara", vicino a Napoli, con la leggerezza e l'armonia estremamente delicata delle sue chitarre ci ricorda i primi lavori di Santana, mentre "Leukos" e "Thira", rispettivamente un compagno di viaggio di Ulisse e il nome di una città dell'isola di Santorini, riportano l'attenzione su uno stile chitarristico più vicino al prog imbarazzantemente "sborone" di Satriani. Nel caso di Gentile, questo tipo di super-assoli è fortunatamente limitato a quel senso pittoresco che si utilizza per parlare di mare, di onde, di viaggi, d'acqua. Sensazioni che vengono evocate con molta facilità da tappeti di tastiere e di chitarra che si rincorrono l'un l'altro, da un incedere ritmico che spesso emula maree e quasi solletica l'immaginazione per lasciarci intravedere barche e galeoni che cavalcano il mare alla ricerca del tesoro di Atlantide.

La forza comunicativa di questo Atlantide è ciò che lo rende speciale. Se vogliamo essere cinici, possiamo anche dire che trovare qualcuno disposto a farsi quattro o cinque pippate di Atlantide prima di riconoscere che quello che stiamo dicendo è vero è difficile, e pertanto non sarà apprezzato dalle persone che molto probabilmente lo abbandoneranno prima di terminare il primo ascolto (avanti, la musica nel 2010 si utilizza così, grazie ad iTunes).
Noi consigliamo semplicemente di soppesare bene gli ascolti e far tesoro di quello che disco comunica, perchè Atlantide, sia il disco che la leggendaria civiltà, è in grado di far sognare e di risvegliare in noi sentimenti particolari che anche grazie a questo disco riuscirete a cogliere.

Voto: 8-

venerdì 26 novembre 2010

Deviazioni da X Factor

Anche la quarta edizione se n'è andata tra i plausi dei fans e le offese dei detrattori. Io devo essere onesto, suppongo che quello che sto per dire possa sembrare esagerato, ma questa edizione mi è piaciuta. Per quanto sia evidente in alcuni casi che i talent show producano solo "merda" che poi viene sfruttata discograficamente nel peggiore dei mondi, quest'anno i finalisti hanno comunque avuto un training decente da parte di Elio e Mara Maionchi e possono, potenzialmente, fare dei bei dischi in futuro. Questo non esclude che, come avviene spesso in meccanismi analoghi (come anche per il festival di Sanremo), il voto popolare non sia stato minimamente considerato ma fosse tipo deciso a tavolino, anche perché vedere un "personaggio" come Nevruz in finale nonostante le incredibili stonature dimostrate in gran parte delle canzoni che gli hanno fatto cantare durante le puntate risulta abbastanza strano.
Ad onor del vero se vogliamo valutare i pezzi scritti dai tre finalisti, il migliore è quello della vincitrice Nathalie, l'unica persona che meritava di arrivare in finale tra gli ultimi cinque rimasti, secondo me. Una voce splendida e una capacità notevole di interpretare brani suoi e non suoi, che forse, grazie ad Elio, riuscirà a farsi conoscere come una vera cantautrice e non come quei venduti di Giusy Ferreri e Marco Mengoni che hanno sfruttato la vittoria per fare i quattrini con brani veramente osceni e privi di ogni interesse sia discografico che dal punto di vista dell'ascolto (basta pensare al duetto della Ferreri con Marracash). La quarta edizione ha quindi prodotto un potenziale ottimo personaggio che se saprà sottrarsi alla morsa delle case discografiche che come un tumore maligno ingoiano e devastano tutto quello che gli arriva, finirà molto probabilmente su questo blog recensita in maniera positiva (perchè non ci siamo preclusi le vie del pop).

Detto questo fare un pistolotto critico su cosa sono i talent show e in che modo stiano distruggendo la cultura musicale in Italia risulterebbe scontato. Mi limiterò a dire che X Factor è un format simpatico e, se non altro, godibile, che a volte riesce a portare agli occhi e alle orecchie dei telespettatori dei contenuti musicali di un certo livello (anche se con una certa rarità), come i pezzi scelti da Elio durante questa edizione, vedasi Area, Balletto di Bronzo e Ivan Graziani. Se poi la conduzione di Facchinetti e la scelta di inserire giudici come la Maionchi e la Tatangelo condizionano il tutto in una veste meno seria e più pop, questo è semplicemente per fare cassa, e non si può certo condannare il servizio pubblico se ci propina programmi musicali di livello mediocre; dopotutto è la mediocrità del pubblico a determinare cosa si meritano di vedere da una TV commerciale. 

In sostanza, il messaggio è questo: finché il programma sarà divertente io non lo condannerò, basta che la vittoria di Nathalie sia un segnale positivo in grado di mettere fine a vittorie di gente di merda come Marco Mengoni, con una voce stupenda ma completamente incapace di comporre brani decenti. E scusate il francesismo.

giovedì 25 novembre 2010

Stone Sour - Audio Secrecy (Roadrunner, 2010)


Tracklist:
1. Audio Secrecy (instrumental)
2. Mission Statement
3. Digital (Did You Tell)
4. Say You'll Haunt Me
5. Dying
6. Let's Be Honest
7. Unfinished
8. Hesitate
9. Nylon 6/6
10. Miracles
11. Pieces
12. The Bitter End
13. Imperfect
14. Threadbare
15. Hate Not Gone (bonus track della versione cd+dvd)
16. Anna (bonus track della versione cd+dvd)
17. Home Again (bonus track della versione cd+dvd)
18. Saturday Morning (bonus track su iTunes tedesco o nel pre-order americano)

Anni e anni sprecati a parlare di progetti paralleli e tradimenti. Dopo la morte di Paul Gray, Corey ha annunciato che forse gli Slipknot non torneranno mai più e il modo in cui tratta questo suo sedicente "side project" non fa sperare molto bene i fan degli ex-nove che, per alcuni motivi abbastanza comprensibili, spesso detestano questi Stone Sour.
Questa formazione parafighetta di Corey in realtà ha prodotto finora un paio di bei dischi e ha saputo spegnere le critiche coniugando ottime prove in studio con accattivanti ed energiche performance live che, soprattutto nei grandi festival estivi, hanno scaldato folle piuttosto numerose in attesa dei loro beniamini (vi ricorderete il loro concerto prima degli Iron Maiden all'Heineken Jammin Festival 2007, dove furono accolti in maniera formidabile). 
Arrivati alla terza prova con il fiato sul collo saranno riusciti a mantenere fede agli standard qualitativi medi dei primi due lavori?
Effettivamente si, ci sono riusciti. Ciò che si ascolta in Audio Secrecy è un'altalena continua di alternative metal pesto e tagliente, dai toni caldi e volutamente iperdistorti, e una mistura di alt-rock e hard rock più freddo e "poppeggiante" che si abbandona tra le flebili braccia della melodia per provare a vendere qualche copia in più. Per capire meglio queste due categorie, rifatevi pure alle vecchie "30/30 150" e "Through Glass", che ben fanno capire le differenze. Con una produzione molto più curata e da chart, questo disco ricalca questo bivio del quale la formazione di Des Moines non riesce ad individuare il percorso corretto. E' abbastanza strano da dire ma questa volta sono stati i pezzi più calmi a suscitare più interesse, sia per il songwriting piuttosto limpido e deciso che li accompagna, sia per il modo in cui Corey Taylor li canta, appollaiato in maniera abbastanza indelicata sul suo trespolo da rockstar maledetta che si spoglia della maschera e dello screaming per fare anche qualche singolo strappalacrime. E' il caso di "Anna", "Dying", la title-track all'inizio e "Home Again" (anche se la migliore rimane "Hesitate", la più malinconica e sofferta dell'ensemble), tutte coordinate con un ritornello piuttosto melodico ed orecchiabile o comunque una costruzione che si pavoneggia del suo status di easy-listening. Ma c'è anche spazio per la strafottenza più alternative che sfuggiva dalle loro grinfie nei brani più aggressivi del primo disco, come accade in "Mission Statement" e in alcune sezioni del singolo "Say You'll Haunt Me", una scelta azzeccata da dare in pasto alle chart di Billboard e delle varie riviste più o meno specializzate. In questo brano in particolare si sente benissimo come la produzione di Raskulinecz accomuni i suoni del pulito delle chitarre in vari artisti con cui ha collaborato (in questo caso mi vengono in mente per primi i Coheed and Cambria e il loro Good Apollo, I'm Burning Star IV, Volume Two: No World For Tomorrow).

Dire se questo disco è brutto o meno non spetta certo al sottoscritto, poiché è chiaro che chi li ha sempre odiati non cambierà idea con un lavoro del genere. La verità è che nessuno di questi brani brilla né per originalità né per capacità di risultare penetrante ed influente, semmai ci si fa coraggio di traccia in traccia, mandando giù bocconi di "già sentito" che riescono però a sopprimere i desideri di stoppare il disco grazie all'efferato binomio aggressività-dolcezza che quasi come in un delizioso piatto agrodolce si mischiano con tutte le loro avversità, fondendosi in un tutt'uno che non distingue più alternative rock da alternative metal. E' il miracolo del Corey Taylor più commerciale, quello che se ne frega delle critiche e magari ha anche più di qualche interesse ad attirare le fighe ai concerti (anche perché il suo amico Root si è già accaparrato la Scabbia), riuscendo a tenere a galla una barca con qualche buco ("Nylon 6/6" o "Pieces") causato anche dall'eccessiva durata del disco. Ripeto, niente di nuovo ma un disco che riesce ad unire sponde neanche troppo distanti in una maniera tutta sua, senza nessuna pretesa.


Voto: 7-




mercoledì 24 novembre 2010

9° Compleanno di Rock TV @ Alcatraz, Milano 20 Novembre 2010

La TV del figlio di Galliani compie nove anni. Aspettate, non ho detto niente di positivo, ma mi correggo subito: in realtà Rock TV, per chi possiede Sky, è una delle poche ancore di salvezza se si vuole vedere qualche video decente (a parte alcuni programmi di MTV Brand New), e nonostante il suo peggioramento progressivo non si può ancora parlare di una programmazione scadente come quella di Deejay TV o analoghi.
Come di consuetudine il canale 718 festeggia in un importante locale di Milano il suo compleanno, chiamando band amiche e non a riempire la serata con un bel po' di musica. Stavolta è toccato all'Alcatraz e le band che si sono esibite sono diventate moltissime. La qualità sarà rimasta alta come quando suonavano i Bluvertigo, ecc.? 

L'Alcatraz si riempie quasi completamente e lo show inizia alle nove puntuali mentre ancora la gente fa la coda sotto la pioggia battente di Milano. Mi sono perso la prima band (penso i Dufresne) e appena entro mi trovo faccia a faccia con i secondi in scaletta, i Meganoidi, band che ho sempre apprezzato. Questa sera propongono una combo di brani del loro repertorio più rock, cioè "Mia", primo singolo estratto dal loro ultimo full-length Al Posto Del Fuoco, e la loro hit più celebre "Zeta Reticoli". Eseguite molto bene ed apprezzate dal pubblico, lasciano parzialmente l'amaro in bocca per la loro poca adattabilità ad una situazione del genere (si preferivano magari i brani più ska-punk dei primi dischi, dai quali non mancavano singoli appetibili e perfetti per l'occasione). Lo stesso problema si riscontrerà un'ora più tardi con i Tre Allegri Ragazzi Morti, che propongono i due singoli del loro ultimo Primitivi del Futuro, strappando difficilmente gli applausi della gente che ancora è rimasta legata ai loro primi dischi. Effettivamente presentarsi davanti a gente che visibilmente ha voglia di saltare (e in qualche caso pogare) in questa nuova veste reggae può anche risultare noioso, nonostante "La Faccia della Luna" sia un pezzo molto azzeccato su disco. Altra nota amara viene dalle tre canzoni eseguite dai Rezophonic, il carrozzone "di beneficienza" (scusate per la definizione limitativa) portato in giro da Mario Riso. Eseguono "Can You Hear Me?", con alla voce praticamente tutti i cantanti che abbiamo sempre visto all'opera con il progetto, ma dopo questo bel momento "L'Uomo di Plastica" e "Spasimo" vengono rovinate dalle "guest star", se proprio le si vuole definire così, Francesco Sarcina e Giuliano Sangiorgi. Il primo si crede fin troppo una rockstar per essere ancora apprezzabile su un palco quando non sta facendo canzoni dei primi dischi delle Vibrazioni e sbaglia le parole, mentre l'ottimo Max Zanotti (ex Deasonika) è visibilmente irritato (lo stesso era successo con Sangiorgi pochi minuti prima) dalle stonature e dalle dimenticanze dei due.
Tra le altre band le due più incisive sono state The Fire e Marta Sui Tubi, i primi grazie alla splendida voce di Olly e alla scelta dei brani ("Scars" è effettivamente uno dei brani migliori dell'ultimo mediocre disco), i secondi per il loro stile particolare e la loro tecnica stupefacente, anche se questo aspetto ai più potrà non arrivare. Sentire "Cinestetica" live ci voleva. 
La presenza di un paio di band metal nella scaletta pensavo avesse rovinato tutto, ma alla fine il loro peso si è sentito relativamente poco (in particolare quello degli Extrema, mentre i Labyrinth si sono rivelati molto più noiosi), lasciando il titolo di band più noiosa della serata a Roy Paci, che si presenta in veste "pseudo-punk", sparando la sua tromba a mille sopra un tappeto di distorsioni quasi incomprensibili. I Vanilla Sky deludono per la poca incisività, anche se la cover di "Just Dance" live rende molto bene.
La serata viene conclusa dai Lacuna Coil, band che personalmente non apprezzo più di tanto per i loro ultimi dischi, ma che ha saputo coinvolgere e creare un minimo di attenzione dopo una serata a suo modo interessante, ma parzialmente mal riuscita. La presentazione della serata, affidata ad Alteria, Ste & Tato, tra i personaggi più in vista nella Rock TV degli ultimi tempi, non è proprio il massimo ma si apprezzano comunque i momenti di DJ Set che riescono a creare un ottimo grado di coinvolgimento tra i presenti (soprattutto quando le casse suonano Queen, System Of A Down e Rage Against The Machine). Da segnalare anche l'assenza ingiustificata della band di Sarcina, pubblicizzata da tempo come presente, e quella di Pino Scotto, volato a Napoli per assistire la madre malata.


In fin dei conti la serata è stata divertente, ma mancava un certo collante tra le band e non tutti hanno saputo tenere alti livello tecnico, attenzione del pubblico e scelta dei brani, tre aspetti che in questo tipo di kermesse non vanno assolutamente trascurati. Ma per dieci euro, chi si lamenta?

martedì 23 novembre 2010

GTBT Incontra la Scena Italiana #7 - Marcello Capra

La sua chitarra ci ha incantati quando ne abbiamo parlato la prima volta. Questa volta l'abbiamo lasciato dire la sua dietro la tastiera per questo breve botta e risposta. Questo è Marcello Capra.

Ciao Marcello, ti ringraziamo subito per il tempo che ci dedichi. Partiamo con una domanda su di te, cosa ti ha portato la prima volta ad imbracciare la tua chitarra?
Da “Please Please me” dei Beatles, a “Satisfaction” dei Rolling Stones, da “Io ho in mente te” dell’Equipe 84 a “C'è una strana espressione nei tuoi occhi” dei Rokes, gli Shadows con “Apache” strumentale, il Boogie e il Rock and Roll prima della Beat Generation, nel '66 la chitarra ereditata dal nonno tenore d’opera, che catturò il mio interesse, abbandonando i guantoni da portiere di calcio.

Pensi che in futuro darai sempre così tanto spazio al tuo strumento o hai anche altri progetti in cui non sia protagonista? 
Il futuro è la continuità del presente, non faccio progetti a lunga scadenza, ora sto preparando una serie di composizioni che vorrei eseguire in solo e anche con altri strumenti, dove ci sarà un giusto dosaggio di interventi, in passato, prima degli ultimi lavori di guitar solo, ho sempre lasciato grande iniziativa ai miei collaboratori, ovviamente dipende anche da loro, nel senso che devono interpretare al meglio il contenuto e lo spirito del brano. Avrei anche un sogno nel cassetto, quello di vedere un’orchestra completa dai legni agli ottoni, eseguire le mie musiche, ma per questo mi occorre un ottimo arrangiatore.

All'interno del disco "Preludio Ad Una Nuova Alba", grazie ai titoli che spesso citano queste ambientazioni, le immagini che vengono evocate più spesso fanno riferimento al mare, all'acqua, alla pioggia. In che modo si relaziona questo tipo di lessico e di realtà con la musica che fai? Perchè questa scelta?
Ho apprezzato la tua interpretazione che fa riferimento ad alcuni titoli, ma nelle tracce ci sono tante altre ispirazioni, come le danze popolari, città magiche, personaggi significativi, luoghi e angoli che mi hanno lasciato ricordi indelebili, pensieri e sentimenti, elementi e frammenti di cose vissute…

Traccia tre, "Omaggio a Lulù". Chi è? Se non siamo troppo indiscreti, si intende
Lulù è stata la mia adorata e fedelissima cagnolina, che ha vissuto 13 anni con me, un omaggio dopo la sua vita…

Cosa c'è nel futuro di Marcello Capra? Un nuovo disco? Concerti?

Se le cose non cambiano in meglio per la musica d’autore in Italia, penso di avere pochissime prospettive… io non suono musica d’intrattenimento, non mi avvalgo di “effetti speciali”, non amo propormi svendendomi in sudditanza a qualche promoter, lo stesso vale per i discografici, quindi se tutto va bene, continuerò a incidere e fare qualche live, ho molti estimatori anche all’estero, questo mi da il coraggio e la forza di continuare.

Se dovessi dare un giudizio sulla scena musicale italiana, facendo riferimento ai tuoi ascolti e al tuo background, o magari anche alla tua regione, cosa diresti? C'è qualche artista che stimi particolarmente negli ultimi anni?
Apprezzo molti musicisti italiani, in particolare quelli che propongono musiche personali che miscelano varie influenze e contaminazioni, non voglio fare torti a nessuno tra questi, non mi sento in sintonia con quelli della mia generazione o prima, che propongono cose passate solo per garantirsi fans e visibilità.

Chi reputi importante per la tua formazione, che ne so, un'artista, un musicista, uno scrittore.
Rispondo 1 per settore. Artista: Alejandro Jodorowsky, Musicista: John Rembourn, Scrittore: Tiziano Terzani.

Grazie mille per aver risposto a questa intervista. Le porte di GTBT saranno sempre aperte. 
Grazie a te Emanuele, alla redazione di GTBT, e ai carissimi amici Synpress.
Marcello Capra

lunedì 22 novembre 2010

Le Luci della Centrale Elettrica Live @ Teatro Comunale, Ferrara 11 Novembre 2010



La Data Zero. Così è stata battezzata da quelli de La Tempesta la performance di Vasco Brondi al Teatro Comunale di Ferrara. In realtà Data Zero è una rassegna che si tiene a Ferrara da settembre e che vede numerosi artisti presentare proprio nella "città delle biciclette" i loro nuovi dischi. L'undici novembre è toccato al beniamino di casa, Vasco Brondi, forte di un consenso popolare che in tutta Italia riesce ad essere tanto grande da non temere più le grasse urla dei suoi (ex) concittadini che lo ricordano ancora per il piccolo cantautore di città che era.
Il nuovo disco non brilla certo per originalità e per freschezza, ma in questa capatina a teatro tutto ha avuto un altro significato. Una certa timidezza degli astanti ha fatto inizialmente da caloroso contraltare alla pazzia di un paio di ubriachi esaltati che già da un'ora prima del concerto sbandieravano per strada la loro felicità, ma quando Vasco Brondi è uscito allo scoperto il pubblico impaziente si è scaldato e ha iniziato ad interessarsi. Niente cori, dopotutto le canzoni sono nuove, ma un grande senso di attrazione, quasi magnetico, nel sentire questi brani inediti, soprattutto nella veste semiorchestrale che i fiati e le tastiere di Enrico Gabrielli e i violini di Rodrigo d'Erasmo riescono a costruire (in realtà il pezzo che più ne guadagna non è nuovo, ma è la vecchia "Fare i Camerieri"). Il disco nuovo è eseguito interamente, alternato da qualche breve monologo di Vasco Brondi che non nasconde di essere impacciato in queste situazioni più comunicative, salvo poi mollare l'osso e spiaccicare anche qualche battutina come mai gli si era sentito fare (soprattutto in relazione all'ubriacone che balla durante tutto il concerto provocando lo sconcerto della security, la quale a sua volta si è attirata l'odio del pubblico più intelligente che difendeva il poveraccio). A livello di performance si può parlare di un Vasco in forma, forte del periodo di pausa che l'ha visto lontano dai palchi per qualche mese, e con molta voce da donare alle solite parti urlate, in realtà aiutate dall'effetto distorto del suo classico microfono secondario.
Niente da dire quindi a livello tecnico, soprattutto per la notevole ospitata (spiccano tra il pubblico anche Molteni dei TARM e Giorgio Canali) che ha contributo a migliorare anche la resa del concerto. Buona ma sopravvalutata la cover degli Afterhours, "Oceano di Gomma", che Vasco esegue da solo sul palco all'inizio dell'encore di due pezzi che regala al pubblico alla fine di un concerto durato poco più di un'ora e mezza. 


Diciamo la verità, poteva andare peggio. A nessuno fa paura idolatrare un cantautore che si è fatto strada tra i giganti, anche grazie al loro aiuto, ritagliandosi uno spazio che forse gli era anche dovuto. Oggi che pure lui è diventato un gigante a spaventare è più che altro il grande numero di fans che lo seguono, con il rischio dell'effetto "pallone gonfiato" che già si intravede all'orizzonte tra interviste e fatti di cronaca sulle reazioni dell'artista alle critiche su forum e siti vari. Una sola cosa rimane sicura, evidente, palese: lui è cresciuto, e se i testi riescono ancora a comunicare qualcosa forse non è solo per merito dei tempi che gli sono senz'altro d'aiuto, ma anche di una capacità che lui ha dentro e si porta dietro da quando ha iniziato l'avventura come Luci della Centrale Elettrica. A Ferrara ha dimostrato che la superficialità del nuovo disco è in grado di scomparire completamente quando si scontra con il calore del pubblico e delle performance live. Super consigliato, non perdetevi le prossime date. 

Video di "housenrico" e "aletoffy"

domenica 21 novembre 2010

Public - Oracolo (Lavorare Stanca/Fosbury Records, 2010)


Tracklist:
1. Canto per Scongiurare

2. Tra Gli Amici
3. Vedi Parigi
4. Notte Caleidoscopica
5. Oracolo
6. Massacrarsi Fino A Perdere I Sensi
7. Il Lato Magico Della Strada
8. Nel 2020
9. In Questo Incanto
10. Un'Altra Idea
11. Storia di una Ballerina

Posso dire subito che si sente che è prodotto da Fabio de Min? Un po' per affrontare il discorso con la tenacia giusta e un certo senso di "preconoscenza" della materia. Detto questo, aggiungiamo anche che i Public non hanno niente a che fare coi Non Voglio che Clara, ma propongono un rock particolare che dondola tra cantautorato, rock d'autore e limature pop che svolgono da contraltare ad una pesantezza che soprattutto in alcuni testi rischia di "stropicciarlo". 
La verità è che ascoltare Oracolo significa arrivare impreparati a riscoprire qualcosa che in Italia abbiamo smarrito da tempo: la capacità di lamentarci. Perchè lo facciamo sempre per le stesse cose, sempre per gli stessi cliché; ma il vero lamento emozionale che viene da un disagio interno è scomparso (o rimasto legato a personaggi discutibili come Fabri Fibra, che interpretano un disagio talmente fittizio da risultare imprescindibile agli occhi dei più), e i Public lo riescono ad incarnare in maniera superba, pur senza parlare di niente, lasciando sempre la parola a sentimenti superficiali ma che sono esplorati in maniera completa, utilizzando un lessico adeguato. E adesso la mazzata: i momenti malinconici e tristi di Oracolo sono quelli peggiori, quelli in cui gli arrangiamenti perdono in resistenza e compattezza, quelli in cui sembra di ascoltare una canzone già sentita. Ci si imbatte invece in qualcosa di veramente interessante quando la spensieratezza prende il sopravvento sui ritornelli, con le atmosfere più rilassate e distese di brani come "Notte Caleidoscopica" e "Tra Gli Amici", che lasciano comunque il tempo che trovano giacché, dopo qualche ripetuto ascolto, ci si accorge che l'unica a parte che tiene il banco è il refrain, appunto, spensierato, che riesce a creare una situazione tragicomica se posto in contrasto con il resto del disco. Smielosità post-punk nella title-track, brano che comunque funziona, e nervosismi per amore nella traccia di apertura, "Canto per Scongiurare", dove alcune scelte semantiche ricordano anche Godano dei Marlene Kuntz, ma molto alla lontana.

Il punto forte dei Public è la scelta del sound, un sound che senza l'alta definizione da major riesce ad essere presente ed è in grado di colonizzare l'ascolto, facendo da contrappeso alla pochezza di un paio di brani in particolare. Il grosso, poi, lo fanno i testi, ben scritti e collegati, tutti adatti a raccontare una storia che molto probabilmente solo lo scrittore stesso riuscirà a cogliere appieno. Il songwriting resta buono ma, come abbiamo già detto, si dimostra fragile quando deve essere usato per comunicare sentimenti più negativi, tristi, o incazzati, lasciando invece la funzione di veicolo di emozioni ai brani più allegri. Un disco per pochi, ma che piacerà a molti, lo sappiamo, siamo in Italia e ci si stupisce per tutto, per poco tempo. In ogni caso, uno sforzo che si deve apprezzare perché sa farsi apprezzare.

Voto: 6.5

sabato 20 novembre 2010

Low-FI - Low-FI EP (Octopus Records, 2010)


Tracklist:
1. Garage Floor

2. Wrongness
3. No Morning
4. The White Lane
5. Something

Low-Fi EP è un bellissimo EP, partiamo da questo presupposto. Non è solo perchè questo trio sa suonare e comporre molto bene ma perché riescono a dargli un'anima particolare nonostante il genere spesso molto cazzone che affonda le sue radici nel panorama garage e rock degli anni '90, facendo tesoro della lezione dei primi Nirvana e Sonic Youth che hanno inevitabilmente influenzato anche tutto ciò che non era grunge dopo di loro (a partire dai dEUS, evidente influenza della band). Alessandro, Adriano e Marco, napoletani, hanno condiviso il palco con un gran numero di band celebri (Linea 77, Il Teatro degli Orrori e Tre Allegri Ragazzi Morti su tutti, prima di incontrare i 24 Grana che gli presenteranno quello che diventerà il loro produttore, cioè Fontanella), e si sono fatti conoscere nel panorama underground anche grazie a partecipazioni a compilation, oltre che tramite un buon numero di concerti particolarmente apprezzati.
Questo EP è composto da cinque tracce, tutte e cinque più che meritevoli di spendere qualche parola per parlarne. Nella prima traccia, "Garage Floor", già dal titolo si capisce cosa vogliano dire e spiegare, introducendo al lettore il loro stile e i loro dettami, producendo un pezzo tagliente e molto sostenuto che resta in testa con una certa facilità. Per trovare un altro brano così tanto fertile dal punto di vista rock si deve arrivare all'ultimo, "Something", uno dei brani più emotivi. In "Wrongness" si lascia gran parte del lavoro "sporco" al basso, che sostiene un ritmo incalzante in una canzone che per più di quattro minuti riuscirà anche a far ballare più di qualcuno. Si apprezza in particolar modo il lavoro delle chitarre negli altri due pezzi, che si incastrano alla perfezione producendo un effetto molto simile a quello dei brani più graffianti dei già citati Sonic Youth. Ma qualcosa ricorda anche i Motorpsycho del periodo più rock. 

In realtà riascoltando il disco più di una qualche volta ci si rende conto che il background da cui la band prende ispirazione non è solo quello di questi grandi nomi di cui si parlava sopra, ma anche band più "moderne" e commerciali come Placebo, Bloc Party e Franz Ferdinand, per quel piglio ballerino che alcuni aspetti elettronici del disco si portano dietro dall'inizio alla fine. I Placebo si riflettono invece nel forte impatto dell'elemento chitarristico, che sono uno degli aspetti principali della band inglese da quando debuttò con splendide canzoni come "Nancy Boy". Nomi a parte i Low-Fi riescono a rivivere un pot-pourri molto ben congeniato di influenze con uno spirito personale che contribuisce alla creazione di un blend molto originale che non lascerà scontento quasi nessuno. Ve li consigliamo perché da questo EP fanno presagire un futuro d'oro per loro e per la loro musica.

Voto: 7.5 

venerdì 19 novembre 2010

Korn - Korn III: Remember Who You Are (Roadrunner, 2010)


Tracklist:
1. Uber-Time

2. Oildale (Leave Me Alone)
3. Pop A Pill
4. Fear Is A Place To Live
5. Move On
6. Lead The Parade
7. Let The Guilt Go
8. The Past
9. Never Around
10. Are You Ready to Live?
11. Holding All These Lies


Il nono disco. Sotto Roadrunner. Subito occorre dire che è la fine, per un gruppo già finito da tempo come i Korn. E' vero, hanno dato tanto, hanno fatto tanto di bello e sono stati incredibilmente influenti negli anni '90, ma non sarà arrivata l'ora di staccare la spina? Lo scoprireremo solo vivendo, intanto questo Korn III: Remember Who You Are è un vero tuffo nel passato, alla faccia di tutti quelli che dichiarano sempre di fare un disco "simile a quelli degli esordi" solo per suscitare più interesse e vendere più copie a scatola chiusa, salvo poi rimanerne delusi. Ma effettivamente qualche motivo per rimanere delusi da questo disco c'è, perché la potenza e la spietatezza dei loro primi quattro dischi non si è mai più ripresentata, per quanto sia stato possibile mascherarla nei live e negli album successivi grazie a produzioni multimilionarie che hanno provveduto sempre molto bene a creare una parvenza di potenza che gli desse un'aria di band continuativa e in assenza delle condizioni necessarie a dichiarare il fallimento.
A salvarli dal declino degli ultimi due dischi, See You On The Other Side e Untitled, a dir poco osceni (e non lo dico per scherzo), arriva un piatto ricco di ritornelli potentissimi, distorsioni al limite del grezzo, un comparto ritmico incredibilmente preciso e distruttivo, affidato a Fieldy e al nuovo batterista Ray Luzier, che davvero ricordano l'epoca d'oro della band che fu originaria di Bakersfield prima di perdere i pezzi e prendere componenti un po' da ovunque in America. Purtroppo l'assenza di Silveria e Head si fa sentire, e il senso di vuoto si avverte nonostante pezzi volutamente super-energici e carichi come la funky-metal "Fear Is A Place To Live" e "Oildale (Leave Me Alone)", grazie ad un'interpretazione ottima di Jonathan Davis che le prova tutte per dimostrarsi ancora "quello di una volta." Non lo è più, e le sue strillate risultano ridicole e forzate in più di un punto, salvo poi correggersi quando si ha a che fare con atmosfere più distese come quelle di "The Past" e "Move On".

Il problema principale è l'assenza di un punto di rottura, un qualcosa che ti faccia assaporare la novità del "nuovo disco". A volte si accoglie con difficoltà il cambiamento, e questo lo si può benissimo capire, ma anche quando si vuole continuare sulla stessa strada o riprendere vecchi stili bisogna comporre brani d'impatto, d'effetto, che non prendano solo gli aspetti che hanno funzionato in passato riportandoli di pari passo, ma riscrivendoli con la stessa verve e lo stesso spirito, che qui evidentemente mancano. Basta ascoltare, ad esempio, "Lead The Parade" o "Never Around" e la domanda che sorge spontanea, vedrete, sarà: "Ma chi vogliamo prendere in giro?" 

Ragionando per pro e contro, questo disco è abbastanza equilibrato e pertanto ruota attorno ad un giudizio sufficiente.
Pro:
- tutti i fan vogliono sentire la band picchiare fortissimo, urlare come una volta, spaccare tutto come una volta, e qui lo fanno

- la produzione di Ross Robinson è ottima e dona una veste volutamente graffiante ed originale ad ogni singolo pezzo
- i nuovi musicisti reclutati nel tempo spaccano di brutto

Contro:
- non c'è nulla di nuovo e questo rende il disco completamente privo di originalità e di appetibilità, insomma che motivo c'è di ascoltarlo?
- Davis si sforza troppo di sembrare il grande screamer di quindici anni fa ma l'età si fa sentire

- i brani sono carini ma mancano di quella verve che ha saputo rendere influenti e a loro modo storici tutti i brani dei primi album

I Korn non sono più quelli che erano e, per questo motivo, possono ficcarsi il titolo dove dico io. Senza troppa cattiveria, sia chiaro, perché sono pur sempre una di quelle band con cui buona parte di noi è cresciuta. Ma per quanto dovremo ricordarceli come dei falliti, non è ora di andare in pensione? Al prossimo perchè il salvataggio in extremis ha funzionato. 

Voto: 6-

giovedì 18 novembre 2010

GTBT Incontra la Scena Italiana #6 - Lingalad

Abbiamo parlato, qui, del loro disco. Li abbiamo apprezzati per quello che suonano, ora apprezziamoli per quello che dicono.
Sotto, un'intervista ai Lingalad. 

Ciao ragazzi, è stato un piacere sentire un bel disco di folk italiano come il vostro. Una domanda sparata così, diretta: come mai la scelta di questo genere? Qual è il vostro background artistico? 
Il background nel gruppo è molto eterogeneo: dal rock, al folk, dal jazz all'heavy metal. Tra le diverse isole su cui abitare tutti insieme, abbiamo deciso di condividere quella del folk. Crediamo sia il genere più adatto a veicolare le storie che raccontiamo. 

I titoli delle canzoni mi fanno pensare a un forte legame anche con il territorio. O sono troppo complicato io? "Toni il Matto" che sembra quasi uno di quei personaggi dei piccoli borghi rurali, la pietra di Erice, poi la pioggia, insomma, di cosa parlate nei vostri testi? 
Sono tutte storie che può capitare di ascoltare in una locanda, raccontate da vecchi personaggi o bizzarri figuri. Oppure portate dal vento alle orecchie di chi vuole ascoltare. Molte le abbiamo raccolte nella nostra terra di origine, la Lombardia. Altre hanno il sapore del mare, come la pietra di Erice. Tutte hanno però un denominatore comune: storie in bilico tra passato e presente, tra oblio e memoria. Con la speranza che non vengano dimenticate del tutto.

Com'è la scena musicale nella vostra zona? Avete mai collaborato o avete intenzione di collaborare con altri artisti che fanno un genere analogo, o, perchè no, completamente diverso?
Nella Locanda del Vento sono entrati vari artisti: per esempio Roberto Scola, un ottimo fisarmonicista che ha suonato ne Il profumo del tempo, oppure Francesca Cazzulani, voce in Alice. E ancora Davide Camerin, meraviglioso cantautore che ci ha regalato un'emozionante interpretazione di Toni il matto.
Per quanto riguarda la scena musicale della nostra zona, dobbiamo constatare che il cantautorato, come altrove, è sempre più sommerso da decine di discutibili tribute band


Cosa ci si deve aspettare da un vostro concerto? Un live set normale o c'è di più? 
Dipende dal contesto in cui suoniamo. Passiamo da un set folk rock, con batteria e basso, ad un live acustico composto principalmente da chitarre, flauti e percussioni. Questo perchè ci capita di suonare in location molto diverse: dalla manifestazione intenazionale su grandi palchi, all'intimità di un monastero di montagna. 

Una domanda difficile: perchè suonate? Cosa volete comunicare, quali sono i vostri obiettivi? 
L'obiettivo, che poi è anche il motivo per cui suoniamo, è far conoscere delle storie attraverso le nostre canzoni e allo stesso tempo conoscere luoghi e persone viaggiando per concerti. Il tutto con la consapevolezza di non ambire a nient'altro se non al divertirsi suonando insieme. Tutto quello che ci è successo negli ultimi dieci anni, dagli articoli sul Corriere della Sera ai concerti a New York, non è mai stato qualcosa a cui ambivamo davvero. Tutto è successo naturalmente, quasi per caso. E quindi ci sembra giusto lasciare anche il futuro al caso (che qualcuno chiama destino).

Come vedete il futuro dei Lingalad, altri dischi, tour, progetti d'altro tipo? 
Altri dischi per ora no. Dobbiamo riprenderci ancora dalle fatiche della Locanda! Piuttosto tanti concerti e la realizzazione di un nuovo dvd l'anno prossimo, in collaborazione con la Filmaker dei fratelli Piccioli. Raccolglierà materiale inedito: sia video nuovi che backstage. E, come al solito, un video parodia di un nostro video ufficiale. Nel primo dvd ("I sentieri di Lingalad") "il Vecchio Lupo" divenne "Il vecchio luppolo", nel nuovo dvd "In viaggio ancora" si trasfigurerà in un ben più gogliardico "In Piaggio Ancora"...

mercoledì 17 novembre 2010

Linkin Park - A Thousand Suns (Warner Bros., 2010)


Tracklist:
1. The Requiem

2. The Radiance
3. Burning In The Skies
4. Empty Spaces
5. When They Come For Me
6. Robot Boy
7. Jornada del Muerto
8. Waiting For The End
9. Blackout
10. Wretches and Kings
11. Wisdom, Justice and Love
12. Iridescent
13. Fallout
14. The Catalyst
15. The Messenger

Bollatelo come volete, un passo falso, un miracolo, una rinascita, un fallimento, ma questo è pur sempre un disco-sorpresa. 
Questo lo rende senz'altro appetibile e meritevole di qualche riga di descrizione, insomma, di questa recensione. Chester Bennington si è montato la testa quasi subito quando i miliardi gli sono piovuti addosso già dai primi estratti di Hybrid Theory, facendo diventare i Linkin Park una delle band più osannate, ricche e a loro modo seguite degli ultimi dieci anni. La fama, si sa, può nuocere molto alla capacità compositiva di una band e visto che tutti gli aspetti che hanno contributo a creare la formula vincente dei primi due dischi dei Linkin Park se ne sono andati, sia per la volontà della band di seguire altri percorsi sia per il loro peso che, nel 2010, è diversissimo rispetto a quello di dieci anni fa, quando tutte le band sedicenti nu metal erano spietatamente acclamate, e il rap con un po' di screamo a sovrastare tonnellate di power chords in distorto vendeva milioni di copie.
Ecco perché il cambiamento, da bravi uomini di business, più che da bravi musicisti. Il problema è che loro in quella veste ci si trovavano bene, e hanno saputo coinvolgere migliaia di adolescenti con un groove pazzesco incalzato dalle due voci subito riconoscibili di Chester e Mike, che nel tempo si sono ridotte a macchietta di loro stesse (soprattutto quella di Shinoda), come si può sentire nei pochi brani in cui ancora si sforza di utilizzare la tecnica del rappato. Cosa c'è di buono quindi in un album così? A Thousand Suns, secondo gli autori, è un disco da prendere con le pinze, dove ogni brano è costruito come un viaggio a sé stante che si può leggere però anche nell'insieme. Questa dichiarazione di intenti, in realtà, serve solo a rovinare un disco che di per sé è molto debole, nell'impianto melodico, nella presa che può avere su un eventuale ascoltatore sia dei vecchi LP che di questo loro nuovo corso. Basta ascoltare canzoni spompe come "Burning In The Skies" e "When They Come For Me", per capire di cosa sto parlando, dove manca tutta la verve che li ha resi famosi. L'orientamento è molto più elettronico e lo si sente in tutti gli arrangiamenti, nella scelta dei suoni e nella costruzione dei pezzi: tra tutti i brani in cui l'elettronica viene usata "troppo", il migliore è sicuramente "Blackout", fortemente influenzato dal progetto parallelo Fort Minor, fondato nel duemilaquattro da Shinoda, con un tiro assolutamente techno che in alcuni tratti ricorda i Prodigy dei tempi andati. Ci pensa anche la criticatissima "The Catalyst" a regalare un po' di sollievo, nonostante il riff di tastiera principale sia dannatamente dance e non si levi dalla testa neanche a pagarlo: la voce di Chester fa un lavoro incredibile e soprattutto nei momenti più pacati rende evidente il coinvolgimento emotivo dal quale si lascia prendere tanto come sa coinvolgere chi ne subisce le conseguenze, cioè noi.
Rimangono molti altri pezzi, e il fatto che io non abbia molta voglia di citarli non è una gran cosa. I momenti più spinti suonano esageratamente pop, quelli più placidi incredibilmente banali e scarichi, privi d'impatto. Si contano sulle dita di una mano i momenti in cui li riconosci ancora, e il cambio di rotta è senz'altro fallimentare sotto questo punto di vista.

Permane una produzione incredibile targata Rick Rubin, con un appeal vagamente alt-pop che può piacere ai molti amanti della techno poco oltranzisti che girovagano per il mondo del rock alla ricerca di qualche nuova inclinazione degli artisti più celebri (e non per caso, visto che tantissimi preferiscono fare un salto nell'elettronica una volta ogni tanto, come hanno annunciato per il prossimo disco perfino gli U2). L'idea di creare un disco concettuale costa cara ai Linkin Park e nonostante sia più che evidente come qui dentro ci sia del gran lavoro, non possiamo astenerci dal criticarne la parziale riuscita, che non gli permette di raggiungere la sufficienza malgrado la bellezza di alcuni dei brani. Riprovateci di nuovo, prima di tornare in soffitta.

Voto: 5

martedì 16 novembre 2010

Le Luci della Centrale Elettrica - Per Ora Noi La Chiameremo Felicità (La Tempesta Dischi, 2010)


Tracklist:
1. Cara Catastrofe
2. Quando Tornerai dall'Estero
3. Una Guerra Fredda
4. Fuochi Artificiali
5. L'Amore Ai Tempi dei Licenziamenti dei Metalmeccanici
6. Anidride Carbonica
7. Le Petroliere
8. Per Respingerti In Mare
9. I Nostri Corpi Celesti
10. Le Ragazze Kamikaze

E allora si, divertiamoci a chiamarla felicità, anche se è tutt'altro. Ascoltiamo bene i testi di Vasco Brondi e poi proviamo ad individuare la percentuale di felicità che esalano. Che sia quanto o più del monossido di carbonio che gli piace tanto citare non ci interessa, perché l'universo "vascobrondiano" si fonda su una serie di elementi che si sono consolidati nei primi anni della sua breve carriera e che, volenti o nolenti, siamo costretti a sorbirci di nuovo.
Cos'aveva di bello il primo disco? "Canzoni da Spiaggia Deturpata" era un gioiello, un disco diventato in breve tempo cult per la sua capacità di comunicare, con un lessico personale dell'autore ma che si poteva benissimo estendere a tutti i suoi coetanei (e soprattutto a quelli più giovani), un'immediatezza quasi punk nonostante il genere e un "modo di dire le cose" talmente diretto da risultare di facile comprensione a chiunque. Inoltre, sommato al demotape e a quanto imparato durante l'estenuante tour che ne ha seguito l'uscita, Le Luci della Centrale Elettrica è diventato un progetto riconoscibile per alcuni tratti somatici (anzi, somatizzanti) che piacciono ad un numero di fans incredibilmente alto, e che continueranno per anni a rimanere appannaggio unico di questo artista. Questo per dire che gli accordi che usa, il modo di cantare che utilizza, il suo timbro, le parole scelte e il modo di costruirci sopra delle frasi che restino in testa e il songwriting di Vasco Brondi stupiscono perchè inimitabili, davvero innovativi (stupisce più che altro come non sia mai venuto in mente a nessun'altro di fare una cosa del genere). L'aspetto negativo di tutto ciò è che, per quanto la gente voglia ascoltare un disco uguale al precedente e lavarsene le mani di eventuali cambi di rotta e di ambizione nella mente dell'artista, a chi vuole dare un giudizio critico dell'album non rimane in mano niente. Tutto evapora nella ripetitività di quei concetti e di quello stile che non è più tanto appetibile come lo era tre anni fa, e che lascia a desiderare soprattutto quando consideriamo che le aspettative erano altissime (o ha vinto il premio Tenco per nulla?).
Ma piano, non esageriamo, nulla è svanito in una bolla di sapone: Per Ora Noi La Chiameremo Felicità contiene una decina di tracce, tutte molto belle, tutte identificate in quell'insieme di aspetti di cui sopra, quindi sicuramente funzionanti per lo stuolo di fans che mai lo abbandonerà. Vince su tutte "Anidride Carbonica", la più concitata, fatta di un fiume di parole che riescono ad avere una coerenza nonostante alcuni scivoloni. Il bello di un disco così è anche che le frasi riescono ad avere una forza comunicativa eccellente grazie al timbro di Vasco, uno dei pochi che anche se ti piazza una frase a sé stante come "le luci di dicembre delle raffinerie di Ravenna" riesce a smuoverti qualcosa dentro. Lo dimostra anche in "Le Petroliere", il singolo "Cara Catastrofe" e "Una Guerra Fredda", canzoni il cui significato sfugge subito dall'attenzione quando iniziano ad alternarsi frasi-tormentone e cazzate à-la-Vasco Brondi, nonostante i brani ottengano tonnellate di linfa vitale dagli ospiti del disco (anche qui, gli stessi del tour precedente), cioè Canali, D'Erasmo degli Afterhours ed Enrico Gabrielli, che lo accompagnano di nuovo anche in concerto. Per quanto gli archi rendano fiacchi gli arrangiamenti riescono a dargli l'impatto che meritano, sollevando il disco da una piattezza musicale che, tagliando corto, si riduce di nuovo a quattro accordi da spiaggia, che per giunta non è più deturpata, visto che il lavoro sul sound è molto superiore a quello della prima uscita discografia per La Tempesta. Il taglia-e-cuci di paesaggi urbani e rurali, degli scontri inevitabili tra la vita del giovane disoccupato e la sua città che simboleggia uno Stato che se ne frega di tutti, di lotte interiori ed esteriori, continua a non lasciar scampo: la forza comunicativa di queste frasi visibilmente sconnesse è enorme, e di nuovo il disco frega tutti quelli che non ne potevano già più di sentirlo urlare "portami a bere dalle pozzanghere" o "cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero". E anche se non si capisce se il suo obiettivo sia andarsene, come ha fatto spostandosi in Lombardia per inseguire il sogno musicale, o invocare ad un ritorno alla propria casa, come in "Quando Tornerai dall'Estero", altro brano vagamente carico che riesce a mantenere accesa la candela fino all'ultimo secondo.

Si pensava che fosse finito, ma ha resistito. Ma al terzo lavoro lo attenderà la prova definitiva: un altro disco così e per Vasco è la fine. E da Milano dovrà tornarsene nella città che tanto ama-odia, cioè Ferrara. 

Voto: 6.5

lunedì 15 novembre 2010

Tre Allegri Ragazzi Morti Live @ Deposito Giordani, Pordenone 12 Novembre 2010


RECENSIONE A CURA DI ALESSIA RADOVIC
Chi va ai concerti lo sa, una band che suona nella propria città d'origine dà sempre il meglio di sè e così è successo per i Tre Allegri Ragazzi Morti in quel di Pordenone. La location? Il Deposito Giordani, rimasto uno dei pochi locali che offre un live a cinque stelle senza dover pagare un'entrata salata; a sua volta il pubblico si presenta numeroso e proveniente da tutto il Friuli-Venezia Giulia (abbiamo dato un'occhiata alle targhe delle automobili) e ciò ci rincuora - qualcuno che ancora ama il rock ed è disposto a fare strada c'è.
Dopo un'ora abbondante di attesa ecco i ragazzi morti salire sul palco, accompagnati dal solito "uomo topo" che li accompagna come seconda chitarra. 
S'inizia con qualche pezzo de I Primitivi del Futuro ma è solo quando iniziano le note di "Mai Come Voi" che il pubblico si scalda sul serio. Nulla da dire sull'ultimo album se preso a sé stante ma rispetto ai precedenti lavori manca qualcosa, anche se forse è solo il cambio di stile a creare malinconia nei fans.
Il concerto vola via veloce ed è gia ora del famoso "vaffanculo" (a dirla tutta è famoso solo tra i fan del gruppo, ai novellini crea sempre un po' di sconcerto). Prima di finire il frontman Davide Toffolo spreca qualche parola sui tempi d'oggi in cui la musica e soprattutto gli eventi live sono in via d'estinzione, invita il pubblico a ribellarsi e a fare ciò che più si ama fregandosene dei genitori (cautela, il rock è maledetto ma la vita vera è un'altra).
E così si finisce, sentendosi meno stressati dopo un'ora e un quarto di libertà. Nella scaletta, tra le altre: "Il Mondo Prima", "Mai Come Voi", "Occhi Bassi", "Ogni Adolescenza", "Voglio", "La Faccia della Luna", "Mio Fratellino Ha Scoperto il Rock'n'Roll" e "Il Principe in Bicicletta"


POSTFAZIONE A CURA DI EMANUELE BRIZZANTE
Il ragazzo morto è un prototipo di persona che negli anni '90 ha messo tantissima carne al fuoco, riscuotendo consenso prima di tutto per l'immaginario pittoresco da cui traeva ispirazione (i fumetti intrisi di politica, l'adolescenza, la letteratura più malinconica), e poi per l'aspetto contenutistico che tramite la musica veniva veicolato ad uno stuolo di fans che negli anni è cresciuto consolidandosi e diventando colonna portante della carriera di una band, appunto, i TARM. Nel 2010 si può benissimo dare uno sguardo indietro, per vedere da dove sono partiti e dove sono arrivati ora questi tre artisti, ma non lo faremo, lasciando a voi il piacere dell'analisi. 
Ciò che risulta evidente è che le provocazioni di Davide Toffolo, come quelle citate nella recensione di Alessia, risultano abbastanza stonate quando vengono fatte di fronte a una folta folla di persone mentalmente carbonizzate, senza offesa alcuna chiaramente. E' altresì evidente come il processo di lobotomia che negli anni è stato eseguito dalle persone che ci manipolano, cioè i nostri governanti, abbia cambiato le carte in tavola, e dal '68 al 2010 sono passati troppi anni per pretendere che queste incitazioni à-la-"rivoluzionario che va a drogarsi a Woodstock" facciano ancora presa. Quando si scioperava per i diritti del lavoro e si occupavano le fabbriche per giorni e settimane, e se era necessario per mesi, le persone dimostravano di avere ancora la forza di lottare per ottenere quello che volevano, o quello di cui avevano bisogno. Oggi ci si lamenta a ruota libera, senza trovare la forza né le condizioni psicofisiche adatte per agire, per lottare, per costringere chi di dovere a darci quello che di diritto ci spetta. Giudizi sociopolitici a parte, le dichiarazioni di Davide Toffolo non spingono sul tasto giusto, giacché per quanto sia giusto il concetto di "combattere per riappropriarsi degli spazi" il popolo italiano ha dimostrato di avere degli altri modi di dimostrare il proprio malcontento, cioè lamentandosi, lamentandosi e ancora lamentandosi, piangendo sulla spalla di quello accanto. Inoltre, e non è poco, alcune tipologie di persone non sono pronte a sentirsi dire di rivoltarsi contro i propri genitori (a parte che il pubblico dei TARM ha tra i 20 e i 30 anni mediamente...) e alzare la musica se gli dicono di abbassarla, fumare se gli dicono di non farlo.
Dopo questa lunghissima, e per alcune persone sicuramente esagerata, postfazione, possiamo concludere dicendo che i Tre Allegri Ragazzi Morti abbiano senz'altro il merito di aver fatto da portavoce agli adolescenti italiani per più di vent'anni, ma è arrivata l'ora di divertirsi con del buon "rock'n'roll" (o reggae'n'roll, come lo chiamano ultimamente dopo lo spostamento dell'asse del genere verso questi lidi) lasciando da parte la politica, perché si rischia di sembrare i soliti "comunisti", dei finti impegnati che lo fanno per arrivismo, quando in realtà i buoni propositi ci sono e Toffolo ne è la palese dimostrazione. Il problema è la gente, e se davvero si vorranno adeguare, i ragazzi morti dovranno trovare una nuova nicchia da occupare, perchè questo spazio gli sta abbastanza stretto. Tutto ciò non toglie che il concerto sia stato ottimo sotto ogni punto di vista.

domenica 14 novembre 2010

I concerti del mese - Novembre 2010 (parte 2)

(continua da 31 Ottobre)

17.11 THE DRUMS - Bologna
18.11 NEW MODEL ARMY - Bologna
19.11 BEACH FOSSILS - Bologna
19.11 RITA MARLEY - Bologna
19.11 THE RIDEOUTS - Trieste
19.11 BOB LOG III - Padova
19.11 SHRINEBUILDER - Madonna Dell'Albero (RA)
19.11 RELLA THE WOODCUTTER - Padova
20.11 SAKEE SED - Padova
20.11 LINEA 77 - Pieve di Cento (BO)
20.11 FRANCESCO GUCCINI - Pistoia
20.11 MASSIMO VOLUME e BACHI DA PIETRA - Madonna Dell'Albero (RA)
20.11 JAILL - Padova
20.11 LE BRAGHE CORTE - Bologna
20.11 THE MIGHTY STEF - Padova
20.11 WILD NOTHING e STRANGE BOYS - Bologna
20.11 HEIKE HAS THE GIGGLES - Pontelagoscuro (FE)
25.11 SPAGHETTI BOLONNAISE - Porto Viro (RO)
25.11 NICOLA LOTTO - Padova
25.11 THE PAINS OF BEING PURE AT HEART - Bologna
26.11 UNKNOWN PLEASURES: A JOY DIVISION CELEBRATION BY PETER HOOK - Roncade (TV)
26.11 JULES NOT JUDE - Padova
26.11 IL TEATRO DEGLI ORRORI - Reggio Emilia
27.11 IL TEATRO DEGLI ORRORI - Marghera (VE)
27.11 BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB - Roncade (TV)
27.11 EX-OTAGO - Codroipo (UD)

sabato 13 novembre 2010

Underground Railroad - Moving the Mountain (Alka/Shinseiki, 2010)


Tracklist:
1. Black Rain
2. Same Old Place
3. Riverside
4. Hard to Let Go
5. Chain Gang
6. Enlightenment
7. Drown
8. Part Time President
9. Rainstorm
10. A New Machine
11. Satisfied
12. Dirty Woman

Southern, molto southern. Sprechiamo parole a raffica per definire un disco del genere? No, non ne vale la pena. Attenzione, non stiamo dicendo che sia brutto, perché ci sono dei bei pezzi, però miei cari ragazzi è possibile avere del materiale originale nel duemiladieci?
Dispiace sempre iniziare con così poca effervescenza una recensione, però, come dicevano una volta, pane al pane, vino al vino. Gli Underground Railroad, emiliani, hanno già fatto della bella musica in passato e non hanno smesso con questa nuova bomba "sudista", anche se non politicamente (o senza dirlo). ZZ Top, Lynyrd Skynyrd, echi ledzeppeliniani, come altre persone già hanno notato. Influenze che rasentano comunque sempre l'hard rock, anche i più strazianti Guns'n'Roses, i lavori solisti di Slash, i Velvet Underground e perché no, gli Audioslave e i Deep Purple. Ci sarebbero cascate di band da citare, le band da cui sono influenzati, le band a cui assomigliano, ma ci limiteremo ad abbozzare una descrizione di quello che potete trovare Moving the Mountain.
Il genere l'avete capito, è quello. Niente di più, niente di meno. I brani, in realtà costruiti con una certa cura, sono tutti molto standard nell'assetto e nel songwriting, così come nella scelta dei suoni. Colpisce, negativamente, quello che si è appena detto, e positivamente invece la tendenza sempre piuttosto palese ad irrigidirsi dentro a schemi e preconcetti che prendono a piene mani dal panorama hard rock più classico, senza però "sporcarsi le mani" con il plagio. Questo significa, per forza di cose, che quel tipo di linguaggio viene catturato e in un blend molto più moderno ricompattato e reso al pubblico sotto una luce abbastanza personale, se vogliamo dare un merito alla band. Ogni canzone, di per sé, fornisce elementi importanti per capire scelte nel sound, scelte stilistiche, motivi e finalità della band. La voglia di fare del sano rock'n'roll che funzioni ancora. 
Ed effettivamente ci riescono, senza pretendere troppo né da loro stessi (tecnicamente e per quanto riguarda i suoni selezionati per finire nella release definitiva che abbiamo tra le mani) né dagli ascoltatori. Sperando che esistano, perchè questo genere, feste di birra a parte, sta morendo e bisogna addentrarsi in qualche desertico stato degli USA meridionali per trovare chi lo apprezza ancora. In Alabama, forse, è dove gli Underground Railroad volevano nascere, ma l'Emilia non li porterà molto lontano, dove la birra si beve per dimenticare la nebbia e le delusioni politiche. 

Punti a favore quindi la rielaborazione personale di quei cliché che hanno rotto le palle al mondo intero, il suono pulito e curato, gli assoli, levigati e non troppo sboroni.

A sfavore gioca la scelta del genere, da non imputare troppo alla band se comunque questi sono i loro gusti (ed è giusto che suonino quel che gli va di suonare), alcuni momenti troppo pesanti da digerire soprattutto negli ultimi due brani del disco ("Satisfied" e "Dirty Woman"), la strada già sbarrata che il mercato gli impone.
Ma senza questi punti contrari dove sarebbe lo sprone? Un disco che i fan del southern rock (e dell'hard rock) più tradizionali ameranno tantissimo, mentre gli altri rimarranno con la bava alla bocca sperando che ai concerti venga qualche donna a mostrare le tette stile backstage dei Motley Crue. Ma siamo in Italia, sveglia!

Voto: 6-

venerdì 12 novembre 2010

The Wild Boars - A Bottle Or A Gun (Honeychile/New Model Label, 2010)


Tracklist:
1. A Wild Boar On a Voodoo Train
2. Out of Luck
3. Where Credit's Due
4. Unfaithful
5. Linedance Hooker
6. One Day All This Will Be Yours
7. Do I Have To?
8. Vigilante
9. This Bottle
10. Your Train


Quanta America c'è nella musica italiana degli ultimi anni. Non è neanche perchè ci si è stufati di copiare dai britannici perché questo genere è vecchio come il mondo anche in Italia. Quante migliaia di band già negli anni '60 e '70 importavano, a modo loro, il bluegrass, il southern rock e il country, rimanendo nell'anonimato perchè allora se non facevi "musica popolare" in Italia non eri nessuno?
Beh l'importante è farlo con il cuore, ed è quello che fanno i The Wild Boars, forti di un influenza che più che da generi di questo tipo (e non solo quelli, anche blues e folk) arriva da esperienze personali che li vede già nell'ambito familiare a contatto fin da piccoli con queste categorie musicali, tanto da arrivare ad ammettere che essere nati in città è una sfortuna (così ha detto il cantante e chitarrista Stefano Raggi in un'intervista). Le dieci canzoni che compongono il disco sono tutte brillanti mosaici che oltre a prendere gli elementi più distintivi dei generi di cui sopra riescono anche ad essere vivide rielaborazioni, che anche grazie ad una voce particolare come quella di Andy Penington e ad alcuni contributi di strumenti come il banjo e il dobro donano un'atmosfera classica ma allo stesso tempo "nuova" ad alcuni brani. L'anima blues è abbastanza evidente anche nei testi, in alcuni tratti intimisti e in altri più intenti ad esplorare l'io dei membri della band e le loro vite. L'eccezione che conferma la regola è "Vigilante", dedicata a fatti di cronaca nera che sempre più attanagliano questo paese, ma sicuramente fa riferimento anche agli avvenimenti più storici in questo settore, che derivano molto spesso proprio dagli amati USA (amati dalla band più che dal sottoscritto in realtà). Le atmosfere evocate dai brani, a partire dalla opener "A Wild Boar On A Voodoo Train" passando soprattutto per "Linedance Hooker" e "This Bottle", fanno sempre riferimento ad uno scenario tipicamente americano, il deserto attraversato dalle motociclette o dalle auto, la Route 66, i vecchi film western, il sud arido e povero. Questo ciò che viene in mente al primo ascolto, anche se la grinta di alcuni brani li accomuna più a certo southern/hard rock dei primi tempi come quello dei Lynyrd Skynrd, che però non lascia pesanti solchi all'interno della produzione dei Wild Boars.



Questo disco è consigliato a chi ha ancora voglia di ascoltare del buon blues rock, anche se purtroppo i fan del settore sono in netto calo negli ultimi anni di abbondanza alternative. Può sembrare anacronistico ma a volte venire fuori con una cosa "antiquata" sapendola svecchiare a dovere ha anche il suo perché. E questo è proprio quello che hanno fatto, con una passione notevole, proprio i The Wild Boars. 


Voto: 7

giovedì 11 novembre 2010

Thoc! - Nicolao (Mizar, 2010)


Tracklist:
1. 1000 Reasons

2. Mean 2 Mean
3. Garda Deutsch
4. The Dove
5. Vampire
6. U2
7. Nicolao
8. Happiness Will Come In Summer
9. 2 Fingers up!
10. Two of A Kind
11. Patty Party

Imitatori, state attenti. I Joy Division, i New Order e i Cure hanno fatto la storia e molti ci stanno facendo soldi facendo la stessa identica cosa nell'era del digitale (e del suono digitale), magari anche appropriandosi di un'etichetta inutile come "indie". In Italia ci sono alcune buone band che si muovono in questo settore, e non starò qui a citarle (basta che vi rileggiate un po' di recensioni), e sicuramente i THoC! sono una di queste. THoC! significa The House of Caps e rappresenta davanti al pubblico questo quintetto bresciano che ha evidentemente voglia di far ballare la gente ai concerti nonostante le venature tristi che per natura tutti quelli che sono influenzati da Curtis e soci interpongono nelle loro canzoni, soprattutto a livello di voce.
Partiamo dagli aspetti positivi stavolta? Tutti i brani che compongono Nicolao sono piccole perle di ballabilità ed orecchiabilità, che starebbero benissimo come singoli e a volte come pezzi da pista di discoteca (o ancora meglio, nei dj set che molti live club fanno dopo i concerti negli ultimi anni). In particolare "1000 Reasons", "U2" e "Garda Deutsch" (quest'ultima molto simpatica per altro), che per alcuni versi ricordano anche i Devo, altra pietra miliare del settore. Il disco è piuttosto veloce, sia come tempi che come lunghezza delle canzoni, scorre via senza problemi, non estendendo mai più del dovuto le tracce né le parti al loro interno. Questo perché ogni brano è costruito in maniera molto semplice ma con tutti gli sforzi concentrati nell'essere d'impatto, e lo dimostrano praticamente tutte le canzoni, anche se ci sono alcuni momenti in cui le contaminazioni sconfinano nell'imitazione, come nella bella "The Dove" che purtroppo però sa di già sentito (così come la title-track). Paradossalmente, è una delle canzoni in cui la voce se la gioca meglio, nonostante sia, per buona parte del disco, l'anello debole del tutto, in alcuni momenti sull'orlo del precipizio, sempre a pochi passi dalla stonatura. "Vampire" fa immediatamente accostare la band agli altri alfieri del genere in Italia, anche se non stiamo parlando esattamente dello stesso ambito, cioè i Trabant (e a loro volta, i loro "maestri", i Gang of Four), con dei synth pazzi che sicuramente faranno scatenare più di qualcuno nei live set.
Questa odissea electro-rock si fregia di un aspetto essenziale, che non tutti questi dischi riescono ad avere, cioè la capacità di penetrare nelle orecchie dell'ascoltatore come un'avventura indimenticabile, lasciando il segno, grazie ai toni molto "sintetici" di alcuni frangenti dei brani, grazie a una personalità che li riesce comunque a distinguere dalla massa informe delle band che gli assomigliano, e infine per la melodicità e l'anima intrinsecamente pop di quello che è l'apparato di base delle canzoni, cioè la loro struttura e la loro costruzione ritmica. Anche le scelte dei suoni giocano a loro vantaggio, nonostante l'autoproduzione, riuscendo a rendere intenso ogni brano anche quando i suoni non abbondano con l'elettronica (vedasi "Happiness Will Come In Summer"), e interpretando perfettamente l'anima malinconica e allo stesso tempo quasi godereccia della vecchia guardia che ultimamente si è tradotta nell'electro-wave di Bloc Party, MGMT e molti altri. Un'ottimo sforzo che fa uso di pochi elementi ormai classici per partire alla rincorsa di un emisfero tutto da scoprire e riscoprire, di volta in volta, che tu stia ascoltando i Franz Ferdinand, gli Heike Has The Giggles o i THoC!.

Un disco che non lascia scontenti, simbolo di una generazione che parte alla conquista della scena musicale utilizzando strumenti vecchi come il mondo e che nessuno più dichiarare sconosciuti o "troppo lontani dalla nostra cultura". Per questo è probabile che faranno anche strada, e noi sinceramente glielo auguriamo. Una parola sola: contagioso. 

Voto: 7.5

mercoledì 10 novembre 2010

Philosophy of Watermelon - A Dirty Quickie (Antstreet Records, 2010)


Tracklist:
1. Friday Night

2. We Are Pow
3. Sex on Drugs
4. Brain Eater
5. Hello from Hell
6. T.D.T.F.
7. 666 Girl
8. I Wanna Be Your Slave
9. Cry Cry Cry (Johnny Cash)
10. Party Girl

Rock'n'roll, e lo dichiarano. Io devo dire che a volte trovo coraggiosa la scelta di fare ancora questo genere nel duemiladieci poiché morto e sepolto da una decina d'anni, nel continuo ripetersi di cliché che, diciamolo con pochi peli sulla lingua, hanno scassato il cazzo. Però, non hanno rotto a tutti, e quindi queste band trovano ancora una ragione di vivere, così come i punk e i metallari, per i quali vale lo stesso discorso.
A Dirty Quickie, lavoro piuttosto "quick", per richiamare anche il titolo, è un veloce lancio di palla dalla parte del punk/rock più banale ma vincente, quello che sa di già sentito ma non ha ancora esalato l'ultimo sospiro. Le dieci tracce che lo compongono sono corte e rapide al punto giusto, d'impatto ma nonostante questo piuttosto indolore (sarà per la scelta della formula tipica della costruzione punk che non lascia più il segno se non la vai ad ascoltare live con un impianto buono che ti spacchi le orecchie?). "Friday Night", come "666 Girl", come, per non tirarla per le lunghe, tutte le altre canzoni, sono costruite in un modo molto simile, che passa per i mostri sacri del rock'n'roll più sporco ad attingere anche nel mondo più recente dell'alternative punk (che brutta definizione!). Le limitazioni più evidenti sono quelle della stesura dei brani, che non hanno un'evoluzione particolarmente interessante né curata, e che si assomigliano un po' tutti. Certo ai punkettari e a chi ha voglia di pogare ai concerti non gliene frega niente, ma questo è un sito di recensioni quindi bisogna anche notare che gli accordi sono sempre gli stessi e le strutture non cambiano quasi mai. Social Distortion, ma prima Ramones, nel pentolone, insieme a qualcosa di più commerciale che però è risuonato con un sound molto più grezzo e ruvido (ecco, questo è un elemento che innalza le sorti del disco). E la cover di Johnny Cash è un altro dei buoni santi dell'album, mai pesante neanche dopo una decina di ascolti.
In generale, non c'è molto da dire poiché tutto quello che potete ascoltare in A Dirty Quickie l'avete sicuramente già sentito. Se poi vi basta la copertina per comprarlo, quando lo vedete su qualche scaffale non lasciatelo là, darete un grosso contributo alla musica indipendente trentina che, effettivamente, ha bisogno di una mano per uscire dalla nicchia in cui si trova.

Voto: 6.5

martedì 9 novembre 2010

Nichelodeon - Il Gioco Del Silenzio (Lizard Records, 2010)


Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist:
1. Fame

2. Fiaba
3. Claustrofilia
4. Malamore e la Luna
5. Amanti in Guerra
6. Ombre Cinesi
7. Apnea
8. Il Giardino degli Altri
10. Se
11. Lana di Vetro
12. Ciò che Rimane 

I Nichelodeon sono un progetto estremamente interessante. Direi quasi tossico, ma poi dovrei stare lì a spiegare perchè ho usato questo termine, e non ne ho voglia. Sono nati tre anni fa, salvo poi debuttare con uno strepitoso Cinemanemico, che mi inviarono a casa senza neppure pagarlo (= la gentilezza dell'artista), manifesto iniziale della loro produzione, direttamente preso da un live. Abbiamo usato troppi plurali perchè in realtà la mente del progetto è Claudio Milano, eccentrico musicista che ha fin da subito deciso di lasciare da parte codici e canoni già decisi dal mondo del rock e della musica italiana, per decollare con un insieme di manifestazioni artistiche che raggiungono il loro climax proprio con questo full-length, supportato da un DVD, intitolato "Come Sta Annie?", in cui al Bloom di Mezzago (MB) si può vedere la band intenta a musicare la puntata finale della serie Twin Peaks. L'intero set è riportato su questa video-testimonianza che ci dà subito una chiave di lettura ottima anche per lo stesso Gioco del Silenzio: un album da gustare non solo con l'udito, ma anche con gli occhi, che suscita immaginifiche riflessioni ed evoca pensieri astratti, variopinti, in più frangenti, seguendo la tracklist e anche prescindendo da essa. Insomma, più lo ascolti (e in qualsiasi modo lo ascolti), questo è un album che ti prende e tende a sconvolgerti. Sarà l'immensa capacità di questi pezzi di penetrarti dentro e di risultare d'impatto pur lasciando da parte scontatezze codificate ed esagerate soggezioni alla melodia che sconfinano, molto spesso in questo genere, nel disavanzo, così come può essere il songwriting raffinato e mai banale che conferisce al tutto un'aria pregiata, quasi di lusso. In ogni caso, il disco è fico, questo è poco ma sicuro.

Dentro di lui, atmosfere malinconiche, laconiche, che si sollevano in sprazzi di theremin e bombarda che quasi ironici spiazzano l'ascoltatore, così come quell'ocarina (suonata dal buon Max Pierini, protagonista anche al basso), che arriva quando meno te l'aspetti. A partecipare al progetto ben quindici musicisti, che portano così tantissime influenze, interferenze, prepotenti contaminazioni: nonostante questo non c'è un attimo in cui l'eccessiva presenza di strumenti diversi porti confusione né caos all'interno dei pezzi, che sono tutti nitidamente scaglionati, assemblati in maniera perfetta, con precisione geometrica. Lo dimostrano "Amanti In Guerra", "Se" e "Lana di Vetro", tra i più evocativi, ma anche "Claustrofilia". Diciamo che si accavallano sensazioni, influssi e situazioni talmente differenti che una recensione non potrà mai descrivere appieno tutto quello che c'è nel disco. "Ombre Cinesi", poi, batte tutto. No, meglio non dire ftw, troppo nerdacchiona come espressione, ma ci starebbe tutta. Se il trend più evidente è quello di sporcare tutti i brani di un lontano jazz che non arriva mai a palesarsi appieno, tutto il resto è definibile solamente con il termine sperimentale, perchè qualcosa del genere io sinceramente non l'ho mai sentito, né in Italia né nell'universo dei Nick Cave e degli sperimentatori di varia natura.

In generale, possiamo dire che:
- Claudio Milano ha di nuovo colpito nel segno, citando e riscrivendo brani che già incluse a suo tempo nel perfido ma perfetto Cinemanemico, scrivendo un disco che, per la mole di materiale e di contributi che si porta dentro, necessiterebbe di sforzi descrittivi a dir poco biblici
- La qualità generale della scrittura e dell'esecuzione è più che notevole, sicuramente tale da poter definire questa gemma uno dei dischi dell'anno
- Dischi come questo non escono tutti i giorni e quindi c'è senz'altro da esaltare, oltre agli aspetti qualitativi e quantitativi già citati, anche quelli più emozionali, dove continue direttive pregne di sentimentalismo quasi protoromantico guerreggiano sanguinosamente contro un'aggressività che se non si esterna con la musica si concretizza comunque in quella scaturigine di immagini che il disco per forza solleva fieramente

Se non avete voglia di darvi la zappa sui piedi evitando di ascoltarlo solo perchè non avete trovato la recensione esauriente, fateci un favore (a me e ai Nichelodeon), comprate il disco ed ascoltatelo. Qualunque genere vi piaccia, qualunque età abbiate, qualunque percorso musicale abbiate intrapreso, vi sconvolgerà. Potrebbe non piacere, certo, per la sua troppa delicatezza che lo rende talmente di nicchia da infastidire anche gli esperti, ma tutto ciò non lo rende forse ancora più figo? 

Voto: 9