lunedì 30 novembre 2009

Neodea - Teorema del Delirio (Black Fading Records/Alkemist Fanatix, 2009)



I Neodea sono un quartetto milanese che dichiaratamente, da qualche anno, ha deciso di imbracciare la via del neo-grunge (mi prendo la responsabilità di questa definizione, per non usare post- e menate varie). Il risultato non è dei migliori. Il pericolo di copiare lavori già fatti da grandi nomi come Alice in Chains, Soundgarden e Pearl Jam è sempre dietro l'angolo e si concretizza in modo particolare in certi brani di questo lavoro che ora analizzerò più nel dettaglio.
Già dall'inizio in Panic TV (ed è tutto identico in Deliri e Paradisi Artificiali) capiamo che sostanzialmente non tira aria nuova. Soliti riff grungettoni resi meno sterili da un cantato all'italiano abbastanza originale quando non fa l'occhiolino a Hetfield o a qualche Vedder (qualcuno dei suoi cloni, si intende). In 34 & 2, oltre a questo, spunta addirittura un riff in salsa west-coast che sembra rubato dai lavori recenti dei Dream Theater, anche se troppo semplice per definirlo tale. Violet, insieme a Mascara, regala un attimo di personalità al lavoro, con alcuni spunti più vicini a sonorità di band come gli A Perfect Circle, continuando comunque a seguire percorsi per niente innovativi e più devoti alla scopiazzatura che alla rielaborazione, che ci vorrebbe per riproporre, DI NUOVO, un genere come il grunge. Morto, e non per colpa di Cobain. Risultano comunque i pezzi più salvabili del disco. La ballata alla Stone Temple Pilots paramelodici non può mancare, ed ecco Madre, altro brano all'insegna della banalità più accentuata. Una recensione deve sforzarsi di trovare anche i lati positivi di un lavoro e allora diciamolo. Tecnicamente la band se la cava, anche se come già detto la fantasia scarseggia. I suoni sono azzeccati, adeguati al genere, e la voce soprattutto gratta al punto giusto. I testi inoltre, abbastanza “clichéttosi” (mi si permetta il neologismo) per questo stile, reggono il confronto con altre band emergenti italiane e risultano alla fine decenti.
Un album solo per aficionados del grunge all'americana, anche se cantandolo in italiano ci sono anche discrete possibilità che possa arrivare all'orecchio di qualche nuovo fan dell'ultim'ora. Non si parli di novità, perché qui siamo lontani anni luce dall'innovazione di certe band che il grunge l'hanno portato su altri lidi, come i Verdena. Per il resto, strimpellano bene. 

Voto: 4.5 

domenica 29 novembre 2009

Van Cleef Continental - Red Sisters (Casa Molloy/Audioglobe, 2009)


Il nuovo progetto di Andrea Van Cleef punta al stoner e al rock pesante, trasferendo il tiro rock'n'roll dei Bogartz (ex gruppo di Andrea) ad un sound più possente ed intenso, con più di qualche elemento di contatto con i Queens of the Stone Age e altre band che hanno collaborato con Homme (i recenti Them Crooked Vultures, qualcosa dei Kyuss e dei Mondo Generator).
Simili nei riff e nelle strutture proprio ai QOTSA sono brani come “Then She Said” e “Fire In My Bones”, pese al punto giusto per immaginarsi gran coinvolgimento ai concerti. Un riarrangiamento piuttosto Husker Du di “Moonlight Shadow” del sempreverde Mike Oldfield fa da spartiacque tra la parte aggressiva del disco (su cui spicca “Junior Bonner”, quasi british nei riff, anche se riproposti con sonorità grunge quasi vicine alle vecchie glorie di Cornell coi Soundgarden), e quella più melodica di “In a Red Room” (con atmosfere soffuse grazie ad alcune parti di piano dagli accenti blues) e “Skulls”, con sonorità di chitarra quasi noise. Un intermezzo pseudoelettronico di novanta secondi taglia quasi in due il disco, e si tratta di “Anna Lee”, porzione new wave/dark di un disco, se non lo avete capito, piuttosto vario.
Il sound di questi Van Cleef Continental perlustra gli ambiti più diversi del rock più figo, dallo stoner, al rock'n'roll, all'indie, al grunge fino a quello influenzato dai beat del britpop. C'è bisogno di una marcia in più per parlare di capolavoro, certo, ma questo disco insegna che con una chitarra distorta al punto giusto e la voce che gratta quando serve la tecnica può anche andare a farsi fottere. In sé, un disco suonato decentemente e composto poco meglio, ma con un tiro pazzesco. Dateci un ascolto. Merita.

Voto: 7+

sabato 28 novembre 2009

Lo scopo di "questa" musica

Come primo "editoriale" di questo blog/sito, penso che questo post si meriti un'introduzione. I fondatori del blog hanno deciso, da questa data in poi, di pubblicare "periodicamente" (senza, quindi, scadenze fisse) un editoriale che si occupi di un argomento inerente al mondo della musica e, perché no, dell'arte in generale. Questo post in particolare parla della musica come arte, e del suo concetto trasformato nel tempo; leggetelo per capire meglio a cosa mi riferisco. E no, non sono articoli simili a quelli megaintellettualoidi a cui vi ha abituato Rockit. Avanti, so che lo leggete!

L'argomento è molto semplice. La musica, nei secoli, ha sempre avuto un ruolo "artistico" (non per niente proprio di arte si tratta), nel senso che, come tutti i movimenti artistici più o meno conosciuti (futurismo, dadaismo, cubismo, ecc.) nasce, vive e muore, nei suoi stili e nelle sue più variegate trasformazioni, da e per un tale contesto sociale, storico e politico. Ogni "movimento", di qualunque natura, è tale perché "figlio del suo tempo" e la musica non fa eccezione. Abbiamo visto che la musica classica, dapprima musica su commissione (un po' come i quadri) nasceva da contesti religiosi, o comunque salottieri, perbenisti e filomonarchici (per le commissioni che richiedevano talune opere), come tanti movimenti artistici (i capolavori di Michelangelo, Leonardo, Giotto ecc. chi li potrebbe annoverare come tali se non fossero derivati da committenze ecclesiastiche o di nobili spendaccioni che volevano decorare le loro sale da ballo?). La vera rivoluzione in questo senso arriva nel '900, prima con i gospel, il jazz e il blues (in tutte le loro evoluzioni), poi con generi più "moderni". Di questi volevo parlare.
Il punk, nato negli anni '70 ma che conta tra i suoi precursori (dal punto di vista strettamente artistico) musicisti del calibro degli Who, ha radici sociali ben definite. Nasce dalle reazioni e dalle conseguenze delle spinte rivoluzionarie degli anni sessanta che hanno avuto precise ripercussioni storiche e sociali negli anni settanta, e i portavoce di questo genere non erano solo musicisti, ma persone qualunque. Diciamo che chi faceva questa musica si identificava più facilmente con chi la doveva subire (ascoltare, diremo noi), perché il contenuto trasmesso faceva parte di un contesto più ampio dove i bisogni del mittente e del destinatario del medesimo messaggio coincidevano. Per questo motivo i testi, più che la musica, rappresentavano un certo tipo di ideali, e colpivano certi ceti sociali che non potevano rimanere estranei da questo tipo di "cultura" (poi, puntualmente, trasformata in "popolare" da qualche squalo affamato di soldi, tra produttori, discografici e quant'altro) perché parte integrante della stessa. Negli anni '60, non solo per i sessantottini ma anche per i precursori della "beat generation" o per i rivoluzionari dei campus universitari americani di metà decennio, la musica beat, hippie e il pop d'autore (Bob Dylan e molti altri), insieme alla letteratura affine, significava davvero qualcosa. Era quello che si voleva sentire.
La domanda è: nel 2009 quello che ascoltiamo ha davvero un significato per noi? Ci dicono davvero quello che vogliamo farci sentire? Nella società anestetizzata dalla pubblicità, cioè dalla TV, e dai modelli imposti dalla stessa, direi che la risposta più appropriata è un laconico si. Ci tocca molto da vicino il fatto che MTV e canali affini siano i più diretti responsabili di una degenerazione, nel commerciale, della musica come arte, sempre più disposta a vendersi per non trasmettere più niente. I nostalgici dei vinili non sono sempre e solo collezionisti, del resto negli anni '70 ascoltare certa musica significava anche appartenere ad una certa estrazione sociale. 
Oggi la musica pop, propinataci come unica soluzione da TV e radio pagate da poche grandi major per diffondere solo e soltanto questo, ha perso tutto il suo contenuto. Nessuno mette in dubbio che una canzonetta di musica leggera à-la-Max Pezzali o Cesare Cremonini possa comunicare tanto ad una persona, perché il tipo di messaggio ricevuto è soggettivo quando i testi parlano d'amore o di situazioni simili. E' che questo tipo di contenuti non rispecchia la nostra società, che ha bisogno di qualcuno che si faccia portavoce dei problemi che realmente esistono (e mi perdonino i lettori se non li sto qui a citare, sapete benissimo quali e quanti sono). Nessuno pretende di dire cosa avete bisogno di sentire voi che leggete, ma questo tipo di comunicazione artistica ha perso ogni valore. Se una volta l'arte era specchio della società in maniera positiva, oggi lo è per il contrario. Nessun genere musicale dopo gli anni '80 (a partire dal metal e dal grunge) rispecchia vere situazioni che possiamo trovare in certi contesti sociali (anche se l'hip hop ha più volte tentato di invertire questo trend, con eccezioni a confermare la regola prima che le eccezioni prendessero il sopravvento); e se davvero i Nirvana potevano (e possono) comunicare qualcosa per giovani nel pieno delle loro turbe adolescenziali, possiamo tranquillamente dire che lo sbiaditissimo panorama di Seattle, che ha dato vita a decine di gruppi dal valore artistico a volte ottimo a volte un po' meno, non rispecchia la natura di quella città (o perlomeno avremo una città di 602.000 abitanti che vogliono tagliarsi le vene), così come la musica "emo" si presenta più come una moda che come una necessità di dire qualcosa. E chi la vive in maniera diretta, tagliandosi le vene o cose di questo tipo, dovrebbe rendersi conto che chi la fa non sta dicendo a lui di farlo, ma sta trasformando le tipiche paranoie (o "pare", per dirla in slang giovanile) adolescenziali in un modo intelligentissimo di fare soldi con un apporto artistico veramente basso.
La musica è diventata un sordido modo di guadagnare, anche se nessuno poteva impedirlo. Ma è tanto facile quando gente onesta come Bob Marley e De Andrè se n'è andata, e ha dato tanto per dire la loro per poi schiattare lasciando alle case discografiche che detenevano i diritti delle loro canzoni tutto il guadagno che ne deriva. Teniamoci le trovate pubblicitarie per beneficienza di Bono Vox, intanto i suoi miliardi se li godrà sempre e solo lui. E non me ne voglia nessuno, ma questo è quello che tutti noi ci meritiamo. Perché la società siamo noi, e l'anestetico che ci sta addormentando ogni tentativo di reagire ce lo stiamo lasciando inculcare noi. Senza tanti problemi. Dandogli anche una mano. Wake up.

venerdì 27 novembre 2009

El Grupo Nuevo de Omar Rodriguez Lopez - Cryptomnesia (Rodriguez Lopez Productions, 2009)


Cosa aspettarsi dal chitarrista dei Mars Volta, aiutato dal cantante dei Mars Volta e dal bassista dei Mars Volta, con un superbatterista che risponde al nome di Zach Hill? Quello che sentite ascoltando questo “Cryptomnesia” è in effetti, senza pensarci neanche troppo, l’ennesimo album dei Mars Volta. Solito prog psichedelico gonfio di giri di chitarra vorticosi, che incespicano, poi ripartono, si confondono con il basso veloce e graffiante, con la voce sempre molto ‘angelica’ di Cedric Bixler Zavala. Si cerca il filo logico che, spesso, non c’è.

Il prodotto è un disco criptico (termine richiamato anche dal titolo), per niente banale per chi non ha mai ascoltato il genere, mentre prevedibile per i fan delle altre band di questi ragazzi. Già la traccia di apertura Tuberculoids ci fa capire che i tempi di “De-Loused in the Comatorium” rivivono ancora nella memoria di Lopez ecc., e a parte una specie di “mosh” progressivo finale non è in effetti niente di nuovo. E’ un rock più ascoltabile e lineare, quello di Half Kleptos, se “lineare” lo si può definire. Il cantato è sempre il solito, come nella successiva Cryptomnesia, uno dei pezzi più agitati del disco, grazie anche ad un lavoro di batteria veramente notevole. E’ in realtà troppo pomposo, e prima dei suoi sei minuti di durata sarete colti da un irrefrenabile istinto di cambiare traccia. Stesso identico discorso per Shake is For 8th Graders e Puny Humans, aiutate però da una durata, se Dio vuole, più accettabile. Paper Cunts, dal giro vocale quasi pop, risulta grazie ad una base a dir poco complessa, molto interessante e studiata (come se il resto dell’album non lo fosse, direte voi).
Ci sono anche degli episodi strumentali come la tirata They’re Coming to Get You, una pseudo-colonna sonora da gara automobilistica, con una sezione centrale a dir poco tesa, e Noir, con la voce che si inserisce solo per qualche rumore di fondo/bisbiglio, a presagire quell’esplosione finale, una vera e propria aggressione schizofrenica che vi stenderà letteralmente.

Il disco è tecnicamente superbo, e non sprecano un secondo a dimostrare come, nessuno escluso, sappiano padroneggiare i rispettivi strumenti in maniera superlativa. Non è niente di eccezionale invece la composizione, complicata finché si vuole ma senza gusto, soprattutto dopo che tutti gli elementi di questo disco li abbiamo già sentiti nei lavori passati di Mars Volta e At The Drive In (in quei riff più punk/hardcore). Per creare un disco nuovo, Lopez dovrebbe appoggiarsi a musicisti diversi, puntando su un prog più pulito e meno esagerato. In ogni caso, sicuramente il disco piacerà ai fan degli MV ma non ci si aspetti niente di nuovo. Siete avvisati.

Voto: 5,5

giovedì 26 novembre 2009

Tricycle - Tricycle (ABC, 1969)


Sicuramente questo per un bel pezzo sarà il disco più oscuro recensito su questo blog. Chi sono dunque i Tricycle? Questo nome non dirà niente ai profani, e questa volta, probabilmente non dirà nemmeno niente agli esperti di musica pop rock anni 60, perché questo disco è davvero raro.
Ma per comprenderlo meglio è necessario fare un passo indietro. Negli anni 60 esisteva un genere musicale chiamato Bubblegum Music, ovvero il padre della terribile musica truzzoide che c'è ai giorni nostri.
Per inciso, mentre i Beatles, i Mothers of Invention, i Doors, Jimi Hendrix e chi più ne ha più ne metta parlavano di amore, di lotta, di critica sociale, di poesia o di qualsiasi altro argomento sensato, gruppi come i 1910 Fruitgum Company, gli Ohio Express, i Kasenetz-Katz Singing Orchestral Circus e altri, facevano canzoni che parlavano (sembra stupido dirlo, ma è vero) di caramelle gommose et similia. Non solo, ma la Bubblegum Music è stata anche la fondatrice del paraculismo musicale: infatti come accadde negli anni 80 con Den Harrow e Milli Vanilli, spesso non era nemmeno il gruppo a cantare, ma session man della casa discografica (addirittura a nome 1910 Fruitgum Company uscì pure un album intitolato "Hard Ride", che suonava come un disco hard rock!). L'unica nota gaia di tutta questa faccenda erano le b-side dei singoli: spesso per evitare che anche la b-side diventasse una hit (e quindi vendesse di meno il singolo) mettevano qualcosa di completamente inascoltabile, tipo un brano registrato al contrario, o un brano rallentato, oppure qualche canto da ubriacone su una base suonata a caso.
I Trycicle si distinsero dagli altri gruppi di Bubblegum Music, perché rivisitavano in chiave ironica, a volte con venature di hard rock o psichedelia, hit già esistenti. Purtroppo però il risultato era poco interessante per i fan del rock psichedelico, e troppo dissacrante per i fan della Bubblegum Music, e dopo questo album omonimo sparirono così come erano venuti. I musicisti hanno infatti tutti nomi che nulla dicono, probabilmente si sono tutti ritirati dal mondo della musica dopo questo disco.
In effetti, l'album è molto meno interessante di quanto possa sembrare benché vi sia presente qualche momento di rilevo. Spesso gli arrangiamenti ironici (con citazioni a Yankee Doodle o cose simili), purtroppo non si discostano molto dalla musica Bubblegum originale, e non si può certo parlare nemmeno di grandissime doti strumentistiche, a parte i cori che sono ben amalgamati.
Così, brani come "Lemonade Parade", "54321 Here I Come", "Yumberry Park" e "Yellow Brick Rainbow" risultano parecchio inutili, perché nel loro stile parodistico non risultano differenti dai vari successi zuccherosi (letteralmente) del genere. Qualche sprizzo di ironia si ha in "Good Time Music", nel quale i Tricycle sembrano voler giocare a fare i Mothers of Invention di "Absolutely Free", ma a parte questo e una curiosa imitazione di Donald Duck il brano ha ben poco da offrire, così come pur nella sua gradevolezza, ci si dimentica facilmente anche dell'opener "Mr. Henry's Lollipop Shop". I Beatles vengono scimmiottati in "Mary Had A Little Man", ma il risultato finale è ben lungi dalla perfezione.
I tre brani rimanenti sono i più interessanti, che salvano l'album dal baratro totale. La rivisitazione del classico dei 1910 Fruitgum Company "Simon Says" (nota in Italia come "Il ballo di Simone" e interpretata da Giuliano e i Notturni), benché sia uno spudorato plagio ai Pink Floyd (soprattutto gli inserti chitarristici) è sicuramente superiore all'originale, con una lunga acid jam. Di buona fattura anche la sperimentale "It's A Game", nella quale i musicisti, timidamente, osano di più e giocano con diversi ritmi. Il brano di chiusura, però, è sicuramente il migliore, la cupa "Poor Old Mr. Jensen": la storia della morte di una anziana persona malata sicuramente è un modo atipico di chiudere un album che parla di caramelle gommose. Parte come un brano psichedelico tipico dell'epoca, prima di trasformarsi in una strofa dalla melodia parecchio triste e cupa dominata dalla voce e dall'organo. Segue poi un intervento chitarristico relativamente interessante per i canoni del disco, per poi riprendere la strofa e chiudere il brano. Molto belli i cori, che come ho già detto prima, sono probabilmente l'unica cosa di cui il gruppo può vantarsi.

L'idea di base era buona, ma purtroppo in moltissimi casi ci si è limitati a copiare il genere più che a riarrangiarlo, e ciò non va a favore del disco. Un peccato, perché brani come "Poor Old Mr. Jensen" dimostrano che questo disco avrebbe almeno potuto essere decente.
Questo album è rarissimo, è fuori stampa dal 1969 e non è nemmeno mai stato stampato in CD, ma trovarne una copia su ebay o su programmi di sharing non è un impresa impossibile.

Voto: 4.5

mercoledì 25 novembre 2009

Fuck Buttons - Tarot Sport (ATP Recordings, 2009)



Le sette tracce che compongono questo “Tarot Sport” entrano di diritto nell'olimpo della musica elettronica sperimentale degli ultimi anni, un genere che ha subito un'impennata ineguagliabile, spinto dalle nuove frontiere della musica “digitale” (dove i Macbook sostituiscono sempre di più i tradizionali synth), con il fiorire di decine di gruppi veramente validi a deliziare le orecchie dei fanatici del genere (che non hanno niente a che vedere con la dance, la techno e la trance da discoteca).
I Fuck Buttons, da Bristol (Inghilterra, guarda caso) sono in giro da cinque anni, e con questo secondo full-length hanno deciso di suonarle a tutti. Dopo l'inquietudine digitalizzata in urla e suoni da cinema pulp del primo “Street Horrrsing”, ci regalano un disco quasi “ancestrale”, con campionamenti da viaggio nell'infinità dell'universo, colonna sonora di un “2001 Odissea nello Spazio” personale, che tutti possiamo immaginare nella nostra mente a nostro modo. Olympians e Surf Solar, con le loro melodie catchy ma comunque basate su una costruzione sperimentale ai massimi livelli (21 minuti di durata spalmati su due tracce), di difficile comprensione ma di facile presa, con suoni studiati per convincere e stupire. L'effetto ipnotico del disco si propaga lungo tutti i beat e le note di synth di Rough Steez e The Lisbon Maru, risultando alla fine un prodotto rock ma suonato con le diavolerie elettroniche più moderne, con un occhio sempre rivolto al passato del buon synth-pop che continua ad essere fondamento per tutta la musica ballabile anche negli “anni zero”. E se comporre un brano con la lucidità e il tiro di Phantom Limb non è cosa da tutti, sorprende l'orecchiabilità di Flight of the Feathered Serpent, all'inizio un brano da inseguimento, con una base danzabile che continua inarrestabile per nove minuti, con qualche strizzatina d'occhio alla musica tribale (che si sentiva molto di più come influenza della band inglese nel primo disco).
Tarot Sport” è un disco lungo quanto basta per sorprendere ogni secondo senza mai stancare, risultando sempre originale e mai uguale a sé stesso, con un campionario di suoni limitato ma bastevole a creare armonie e melodie indimenticabili, tra le braccia di una drum'n'bass colma di tutto quello che contamina la musica elettronica oggi: new wave, trance, techno, dance, sperimentazione progressiva. Ed un disco così non lo si può digerire in fretta. Ascoltatelo e riascoltatelo, diventerà una droga. Promesso. 
Voto: 8+ 

martedì 24 novembre 2009

Muse Live @ Futurshow Station, Casalecchio di Reno (BO) 2009



Che dire. Detrattori immotivati a parte (e ce ne sono) sapete già tutti, anche chi non c'è mai stato, che un concerto dei Muse è sempre spettacolare. Lo si evince dai DVD e dai numerosi video rilasciati che documentano performance mozzafiato, avvincenti e tecnicamente all'altezza di gruppi con ben più esperienza di questo ormai rodato trio (quartetto, a dire il vero, ai concerti). 
A Casalecchio di Reno, supportati dai Biffy Clyro, iniziano con 15 minuti di anticipo (e qualcuno, compreso il sottoscritto, si perde l'inizio di "Uprising" per questo motivo) e finiscono dopo solo 95 minuti circa di set (100 compresa la pausa pre-encore), creando giusto un po' di disappunto per la velocità con cui salgono e scendono dal palco. Ma non è stato certamente un concerto freddo. Una scaletta (la trovate sotto) buona, considerando la presenza di quasi tutti i brani dell'ultimo "The Resistance" (le migliori per resa live "MK Ultra", potentissima, e "United States of Eurasia", sottotono rispetto alla versione su disco "Undisclosed Desires"), passando per una versione nuova (con il piano al posto della chitarra) di "Cave", tratta dal primo disco vecchio ormai dieci anni, e le immancabili "Time is Running Out" e "Starlight" (eseguita, se non sbaglio, in una tonalità più bassa). Tutti i brani risaltano per la potenza e la precisione con le quali sono state eseguite ("Stockholm Syndrome" e "Hysteria" su tutte), complice un mix di batteria e basso assolutamente granitico e alcune sovraincisioni, insieme all'aiuto del quarto uomo a percussioni e sintetizzatori. Un Bellamy veramente in forma non poteva che giovare al risultato finale, sebbene si possa notare un po' di fiacchezza (rispetto ai tempi d'oro dei primi due dischi) nella resa di "New Born" (troppo lenta) e "Plug in Baby" (distorsione poco convincente).
Si può tranquillamente dire che il concerto è stato comunque quasi perfetto, pochissimi errori e un suono ottimo nonostante il Futurshow Station sia secondo me un palazzetto da dedicare più ad eventi sportivi che a concerti (tende a rimbombare), con l'aiuto di un pubblico coinvolto come poche volte succede ai live (più cantando che muovendosi, c'è da dirlo) e di alcune trovate sceniche notevoli. La prossima volta (dovrebbe essere nel 2010) non perdeteveli.

Setlist:
UPRISING
RESISTANCE
NEW BORN
MAP OF THE PROBLEMATIQUE
SUPERMASSIVE BLACK HOLE
MK ULTRA
HYSTERIA
NISHE (jam)
UNITED STATES OF EURASIA
CAVE (nuova versione)
GUIDING LIGHT
HELSINKI JAM
UNDISCLOSED DESIRES
STARLIGHT
PLUG IN BABY
TIME IS RUNNING OUT
UNNATURAL SELECTION
-ENCORE-
EXOGENESIS: SYMPHONY PART 1: OUVERTURE
STOCKHOLM SYNDROME
KNIGHTS OF CYDONIA 



lunedì 23 novembre 2009

Isis Live @ Bologna, 19 Novembre 2009




Il concerto degli Isis a Bologna non poteva che essere spettacolare. Pur senza scenografie, discorsi per animi deboli e plettri gettati al pubblico. Con due supporter da spaccare le orecchie (i Transitional, distruttivi come una macchina schiacciasassi col loro drone che mette a dura prova l'audio mediocre del locale, e i Dalek, duo rap con i controcoglioni, con basi potenti ed originali ed un MC inarrestabile), arrivano dopo un po' di attesa per fracassare i timpani dei pochi fan giunti all'Estragon di Bologna per oltre un'ora di live. 
La scaletta non è delle migliori, ma considerando che si tratta del tour dell'ultimo, discusso, disco "Wavering Radiant, la presenza di tanti pezzi tratti da quest'ultimo non stupisce. La sorpresa è piuttosto che brani che nel disco non rendevano particolarmente come Ghost Key, Threshold of Transformation e 20 Minutes-40 Years suonano molto meglio live, complici un'esecuzione tecnica ed una scelta dei suoni che definire perfette è a dir poco riduttivo. Il materiale dagli album più vecchi suona ovviamente impeccabile, come su disco (anche se si sente la mancanza di capolavori come "The Beginning and the End" e "So Did We").
Come già citato il lavoro sul suono è assurdo, le chitarre graffiano al punto giusto, trascinate da un basso e da una batteria tecnicamente eccellenti, e dai sintetizzatori/tastiera di un Bryant Meyer quanto mai in forma. Il suono di batteria e quello del distorto di Aaron Turner spazzano via tutto quello che trovano sul loro percorso, e l'headbanging del pubblico non può che essere inarrestabile.

Gruppi come questi non sono mai abbastanza apprezzati dagli ascoltatori italiani che tendono a rimanere legati al mondo della radio e dei brani in madrelingua, ma (e parla un non-amante di questi generi "sperimentali" come il post-rock e il post-metal) è impossibile, durante e dopo un set di questo livello, non rimanere colpiti ed interessati dalla bravura e dalla classe che una band come questa può portare sul palco. E dire che avevo già visto God is An Astronaut e Mogwai.
Eccelsi.  



* La foto è di Andrea Barcella
* Il video è di sisipho85

domenica 22 novembre 2009

Melissa Auf Der Maur - Auf Der Maur (Capital Records 2004)


Se dico "Celebrity Skin" o "Rotten Apples" forse ne ricordate gli autori (Hole e Smashing Pumpkins) ma non il personaggio che li lega. La signorina Melissa Auf Der Maur ha infatti contribuito col suo Fender ai dischi appena citati ed è suo il disco di cui parliamo in questa recensione. Il lavoro che porta come titolo il cognome della bassista canadese (nata in Kenya da padre svizzero e madre canadese) è uscito nel 2004 e vi hanno partecipato musicisti molto conosciuti dell'ambito alternative rock statunitense quali Mark Lanegan (Screaming Trees), James Iha e Paz Lechantin (Smashing Pumpkins, A Perfect Circle), Brant Bjork (Kyuss), Eric Erlandson (Hole), Twiggy Ramirez (Marylin Manson) Josh Homme e Nick Olivieri (QOTSA).
Personalmente sono uno che di solito non ama le voci femminili nel rock (con le dovute eccezioni) ma questo lavoro mi piace parecchio, anche vocalmente.

Dodici sono i brani che compongono questo disco, perciò è meglio darsi da fare.
Si comincia con Lightning is my Girl che apre letteralmente con effetti speciali ad anticipare una costruzione veramente potente: batteria avanti, chitarre distorte a manetta e una voce ammaliante. Il ritornello, grazie a cori veramente indovinati, pare cantato da sirene maliarde.
Probabilmente l'inizio di Followed the Waves è ispirato per davvero alle sirene delle leggende marinare date le sovrapposizioni di voci femminili; i suoni continuano ad essere veramente grossi e in verità echi degli Smashing Pumpkins nelle atmosfere si sentono.
I toni delle chitarre infatti sono scuri: si apre qua e la qualche squarcio di luce ed il ritornello (“my heart lies to you”) ha una melodia accattivante. Nel tappeto sonoro fatto principalmente di chitarre fanno capolino anche alcuni interventi di synth.
Real a Lie apre subito con un drumming movimentato ed un sapiente intreccio chitarristico mentre il bridge è affidato ad una voce con un leggero eco. Il refrain, manco a dirlo, va anche stavolta a segno!
Brano numero 4 è Head Unbound che inizia con una batteria semplice e feedbacks di chitarra: un'atmosfera calma che sembra attendere solo la giusta scintilla per esplodere. Il ritornello apre ma sempre mantenendo la calma che caratterizza il brano. Essendoci James Iha alla sei corde trovarci sentori di Smashing Pumpkins non è difficile.
Il pezzo che arriva ora è il terzo singolo estratto dall'album (a parer mio il più riuscito) e si intitola Taste You, di cui esiste anche una versione in francese (che cercherò) e dove a duettare con la bella Melissa c'è un Mark Lanegan a dir poco sexy (!), che si ritrova ad interpretare col suo vocione la parte dell'amante in una storia tormentata. La song si apre con un riff di chitarra sul quale la cantante/bassista/chitarrista/tastierista canadese mette una linea vocale semplice e accattivante. Il brano poi è un vero e proprio crescendo fino a raggiungere il ritornello (“I will taste you-uh-uh-uh”). Nel finale entra, come detto poco fa, Mark Lanegan che più che cantare parla dandosi botta e risposta con l'autrice del brano.
I'll be Anything you Want a differenza dei precedenti brani risente più del passato Hole della Auf Der Maur: è infatti caratterizzato da un beat più sostenuto e da chitarre più aperte e chiare. Le voci che si sentono sospirare in alcuni punti sotto la linea principale per certi versi ricordano le atmosfere che si creano nei pezzi degli A Perfect Circle.
Beast of Honor è un pezzo allegro e un po burlesque che per i suoni ricorda i Queens Of The Stone Age ed azzecca un altro ritornello (“I'll be anything you want, you'll love me more than you love yourself, on my knees on my knees beging you darling please”) e cita nientemeno che Ozzy (“finished with your woman 'cause she's not me” che riprende “finished with my woman 'cause she couldn't help me with my mind” cantata su Paranoid, il più famoso brano dei Black Sabbath).
My Foggy Notion parte di brutto con un riff “quadrato” fatto da chitarre potenti in primo piano che addirittura coprono la batteria, tenuta stavolta più indietro. Gli archi del brano sono accreditati a Paz Lenchantin, Ana-Vale Lenchantin e Fernando Vela e si sposano perfettamente con gli strumenti elettrici malgrado questi ultimi siano sparati a mille.
Più arioso e luminoso è lo scenario che si ascolta in Would if I Could, pezzo pop che non avrebbe sfigurato come singolo e forse avrebbe potuto dare alla signorina Auf Der Maur più passaggi radiofonici, magari anche qui da noi (peraltro all'epoca dell'uscita di questo disco Melissa suonò al concertone del primo maggio a Roma...ricordo chiaramente la minigonna che indossava). A percorrere Overpower Thee è il pianoforte suonato da Chris Goss, produttore dell'intero lavoro insieme all'autrice dei brani. I toni del pezzo (scritto da Goss e Josh Homme) sono cupi e malinconici, la voce straziata e quasi teatrale: due minuti e mezzo trascorsi con l'immaginazione in un fumoso club anni quaranta con la femme fatale di turno che canta sdraiata su un pianoforte a coda...
Si va invece letteralmente al galoppo su Skin Receiver, dove batteria e chitarra fanno il verso ad un cavallo: i suoni creati per questa canzone con la chitarra sono veramente da fuori di testa! Ah, le urla che si sentono sono accreditate a Josh Homme.
Quest'ultimo firma insieme a Melissa il pezzo che chiude il disco (I need I want I will) e che comincia con i suoni dell'India. La melodia è affidata quasi esclusivamente a vocalizzi, mentre la voce principale parla. Altra cosa curiosa è che per questo brano sono presenti nel booklet i credits per chi ha battuto le mani ed i piedi, ovvero tutti i musicisti che hanno partecipato alle sessions e tale Barry “Tinker” Thomas. Morale della favola: se lei ha bisogno di fare musica e vuole farlo...lo fa.
Lasciate scorrere quest'ultimo brano e troverete una bonus track: ascoltate e poi ditemi.

Disco davvero potente questo, complici i numerosi ospiti (e che ospiti!) gli arrangiamenti ben riusciti ed i suoni studiati ad-hoc per il progetto. Certo gli echi del passato musicale della signorina si sentono, ma non sono così evidenti ed in più c'è da aggiungere che le canzoni sono state scritte molto bene, in modo maturo (questo è il primo lavoro solista).
Ma dai, non sapevo fosse stata modella per una campagna di Calvin Klein...

Voto: 7

sabato 21 novembre 2009

Elio e le Storie Tese - Gattini (Sony Music, 2009)


Dicono che Elio e le Storie Tese o li si ama o li si odia, ma per me questa affermazione non ha senso. E' impossibile per chiunque con QI superiore alla media odiare volontariamente Elio e le Storie Tese.
I simpatici mattacchioni di Milano (che a prima vista sembrano un gruppo di pagliacci qualunque, e invece si rivelano essere probabilmente il gruppo più sagace, intelligente e critico che vi sia in Italia al momento, oltre che ovviamente il più divertente) dopo averci brillantemente e piacevolmente sorpreso con "Studentessi", a distanza di un anno ci riprovano con questo "Gattini".
Ma non lasciatevi trarre in inganno, "Gattini" non è tanto un disco nuovo quanto un operazione di rivisitazione dei vecchi classici impreziositi dall'orchestra. Vi è un solo inedito, "Storia di un bellimbusto", molto divertente e realistica dal punto di vista del testo, ma un po' scarna musicalmente. E il resto? Quest'operazione impreziosisce i brani oppure li rende solo più pomposi?
Partirò subito dicendo che la versione qua presentata di "Cassonetto Differenziato per il Frutto del Peccato" è assolutamente fiacca e che ne "Nella Vecchia Azienda Agricola" ne "John Holmes (Una vita per il cinema)" convincono a pieno (quest'ultima avrebbe potuto essere molto meglio se solo la chitarra di Cesareo fosse stata più alta nel mixaggio). Inoltre "Uomini col Borsello" e "Shpalman" non mi sono mai piaciute e benché la versione "romanza da salotto" di quest'ultima sia geniale, queste nuove versioni non mi fanno cambiare idea, e la versione qua proposta de "La Follia Della Donna (Parte I)" per quanto gradevole non si discosta poi molto dall'originale.
Detto questo però bisogna fare i conti con una versione assolutamente straordinaria di "Essere Donna Oggi" che probabilmente surclassa qualsiasi versione live del pezzo (e con un cameo di Enrico Ruggeri irrestibile). Anche la versione di "Psichedelia" qua offerta è con tutta probabilità superiore all'originale (l'assolo finale di Cesareo, per quanto non complesso, fa scendere letteralmente i brividi, così come l'improvvisazione vocale di Lucio Dalla). "Largo al Factotum" con una prova vocale straordinaria di Elio, una maestosa versione di "Rock and Roll" (manca purtroppo la mitica frase "la techno è una merda", ma viene qua compensata da un imperdibile raffronto tra Apicella e i Deep Purple!) e ottime versioni di "Pork & Cindy", "La Terra dei Cachi" e "Il Vitello dai Piedi di Balsa" (nota personale, cos'è quella terribile musica che viene usata come pena qua?) contribuiscono sicuramente ad alzare la media del disco.
Insomma, qualcosa non convince, ma certamente i lati positivi superano di gran lunga quelli negativi. Elio e le Storie Tese non deludono mai, e sembrano anche non invecchiare mai: la voce di Elio è più matura, Rocco Tanica, Jantoman e Cesareo paiono non sentire gli anni che passano suonando sempre con più entusiasmo e la sezione ritmica Faso/Meyer è ancora più compatta del solito. Brillanti dal punto di vista compositivo, brillanti da quello strumentistico.

Se avete comprato l'album su itunes come premio vi trovate "Der Wahn der Frauen (erster Teil)" (versione in Tedesco de "La Follia della Donna (Parte I)") e "(Nubi di Ieri sul Nostro Domani Odierno) Abitudinario" assenti nella versione CD. Se invece, come me, avete comprato l'album in edizione CD, come premio trovate allegato un interessante DVD contenente il divertente making dell'album e il videoclip + making of di "Storia di un Bellimbusto". Insomma, qualsiasi edizione voi prendiate sarete ricompensati. Perché non approffittarne?

Certo, questo album non è essenziale, ma sicuramente ai fan storici piacerà e potrà incoraggiare nuovi ascoltatori a scoprire la musica di Elio e le Storie Tese, senza caricarli di un inutile best of (cosa che la Sony ha già fatto contro il volere stesso di Elio e soci. Notate tra l'altro che anche "Gattini" è uscito per la Sony. Obblighi contrattuali?)
Concludo infine dicendo che sono grato al gruppo di aver escluso brani come "Tapparella", "Servi della Gleba" o "Cara ti Amo", che sono sì stupendi e marchio di fabbrica del gruppo, ma che avrebbe finito per stereotiparli troppo e per legarli sempre agli stessi pezzi. Certo, almeno un brano da "Studentessi" potevano metterlo, ma in fondo tra quell'album e "Gattini" è passato solo un anno.

Voto: 8+

giovedì 19 novembre 2009

Barbagallo - Floppy Disk (autoprodotto, 2009)


L’onesto recensore ogni tanto deve saper ammettere che alcuni dischi vanno ascoltati con una cultura musicale alle spalle che non possiede. Alzo la mano. Il cantautore siciliano Carlo Barbagallo mette sinceramente in difficoltà, ma piuttosto che lamentarmi preferisco trovare le parole per descrivere un lavoro immenso nella sua completezza ed originalità, un disco che tocca i più diversi meandri del blues, del pop, del rock, della psichedelia, con sperimentazioni al di là degli schemi che ormai ingabbiano anche chi fa prog o musica d’avanguardia. Molto spesso, perlomeno.
“Floppy Disk” esce dalla mente di uno dei musicisti più eclettici che mi sia capitato di ascoltare. Dalla sua biografia si apprende la sua abilità con molti strumenti, ma anche che ha solo 25 anni. Non è questo che scopriamo in un CD influenzato dai Beatles (per questo fari puntati su Paper Mirror e Friday) e dal brit-rock meno ostentato (è il caso dell’unico pezzo orecchiabile, Yolkrise), con chitarre di buona ispirazione anni ‘60 – ‘70 (i primi Pink Floyd o i lavori solisti di Barrett? Zappa?), piano e tastiere allucinate, musica raffinata. Ricordi di Genesis e dei più recenti Motorpsycho, quando anche loro superano le vie più “alternative” per raggiungere quello stato quasi comatoso, riflessivo, che con le venature psichedeliche tra arpeggi e synth ti sa far immaginare di essere chissà dove, sorvolando chissà quale posto incantato. Evocativo, il termine giusto (soprattutto per un pezzo come Spectacle, che in alcuni tratti fonde i Radiohead di “OK Computer” alle atmosfere di “Animals”, di quei bravi ragazzi di Waters & co. che ho già citato prima). Sono anche i titoli a farti capire che si cerca una certa comunicatività, come Pale Purple Sky, e la successiva, in ordine, Motion Reprise, un viaggio noise senza pretese. Si ritorna sulle frequenze radio (se qualcuno ha visto I Love Radio Rock) con Cold Shiver, apprezzabile in particolare per l’inserimento, tanto azzeccato quanto inaspettato, di un vortice di archi e suoni sintetizzati dalle arie piuttosto “classicheggianti”, e controtempi di batteria praticamente irriproducibili. Ed è musica da sonorizzazione di film muto in Little Island, un elemento su cui spero questo artista si voglia cimentare in futuro perché ha potenzialità per creare accompagnamenti davvero degni a scene di inimmaginabile teatralità (l’LSD non serve quando circola questa roba, sul serio).
Un album davvero caleidoscopico, quasi un’opera dimostrativa di come la cultura musicale ti possa portare, anche con poca esperienza (senza sminuire il buon Carlo), a produrre dei gioielli di raro splendore, ed il valore artistico di questo disco, già riconosciuto da recensori ed ascoltatori un po’ ovunque, dovrebbe avere la possibilità di viaggiare oltre i meandri di internet. Ma si sa, dissotterrare la musica migliore dalla fossa in cui l’hanno conficcata i discografici del 2000 è impresa da pochi. Ma per Barbagallo, ci metterei la firma. Ascoltatelo, ne vale veramente la pena.

Voto: 9

martedì 17 novembre 2009

Expatriate - In The Midst of This (Dew Process, 2009)



Dall'Australia con furore. Mediatico più che altro. Spinti dal basso con esibizioni importanti e l'attenzione delle riviste patinate, si presentano così con delle attese da eguagliare. O da disattendere. In questo caso possiamo parlare di un perfetto equilibrio. Gli Expatriate infatti propongono un indie rock pesantemente influenzato dalla new wave con ritornelli orecchiabili che qualche volta si potrebbero comparare al rock più commerciale del panorama americano (Foo Fighters in primis, vedere l'opener track, l'azzeccatissima Get Out, Give In). La struttura non è mai troppo complessa e sempre molto attaccata allo standard della strofa-ritornello-strofa-ritornello, così come il fan meno esperto vuole sentire. E infatti Crazy, la meno possente Air e la spedita e molto “alternative” Play A Part (il cantato mi ricorda molto Brandon Flowers, direttamente dai The Killers, forse una delle band che più si avvicina al sound di questo Expatriate). Niente sorprese sperimentali o particolari nella tracklist del cd, sound pulito e canzoni radio-friendly dal piglio commerciale, seppur si senta qualche influenza anni '80 che tende a scurire il suono. Ma lo sappiamo, farlo significa cavalcare la moda del new wave revival ormai sempre più pesante da sopportare. Times Like These e The Spaces Between (la seconda con qualche elemento più “placebiano”) scorrono via fluide, con i loro riff molto pop all'insegna del “facile da memorizzare”. Obiettivo raggiunto. Il resto del disco non ha molto di diverso da quanto finora detto.
Tirando le somme “In The Midst of This” è un album modesto, probabilmente con più pretese di quelle che è riuscito a trasformare in risultati, però si piazza tranquillamente sopra la linea del discreto, abbassato nel suo voto finale forse per quell'assenza di originalità (compensata da un hype pazzesca, tra l'altro) che ormai tutte le band di questo genere presentano. E non c'è da stupirsi. Se vi piace sempre guardare al passato senza cercare niente di nuovo (non che sia necessariamente una cosa negativa), gli Expatriate sono un buon rifugio. Lo ripeto, senza pretese. Ma discreti. 

Voto: 6.5 

lunedì 16 novembre 2009

Flight of the Conchords - Told You I Was Freaky (Sub Pop Records, 2009)



Nuovo episodio per il duo televisivo-musicale neozelandese. Autodefinitisi “comedy duo” o band “alternative hip hop”, tra le altre cose, sfornano un disco simpatico, una specie di collezione di brani inediti ed altri apparsi nella loro serie televisiva nel corso della programmazione sul canale americano HBO. Non era difficile trasportare il carisma dei due in musica, e questo disco ne è un esempio, benché dal punto vista del contenuto sia difficile esplorarne modi e significati.
Le basi da hip-hop di bassa lega sono senz'altro qualcosa che non giova al duo, che ci aveva deliziato in passato con ballate dal sapore più folk ed indie sicuramente più adatte al loro tiro. E' così che pezzi come Hurt Feelings, in apertura, e We're Both In Love, perdono quasi ogni interesse, essendo anche privi di quella caratteristica tipica dei brani rap “all'americana”, cioè avere bassi potenti e melodie catchy, che qui mancano quasi del tutto. Demon Woman si fregia di un approccio quasi power-pop anche se rimane sempre in quel riquadro di pseudo-ascoltabilità che denota una certa pecca di creatività di chi ha composto questi brani (sicuri che siano proprio i due?). A volte spingono a un po' di movimento, come in Sugalumps, in cui mescolano Justin Timberlake con l'r&b dei Black Eyed Peas. Non sarà una nota di merito, ma in un disco del genere il pezzo ha anche il suo perché. Sembra stia per comparire la voce di Dave Gahan in Fashion is Danger, ma poi l'affiatato duo ci delude di nuovo e torna all'hip-hop quasi inascoltabile di metà delle produzioni di Timbaland (e di nuovo in Too Many Dicks), con delle linee di voce prevalentemente “parlate”.
"I Told You I Was Freaky” è senza dubbio un album con nessuna attrattiva musicale, se non qualche ritornello radio-friendly che fa l'occhiolino a quelle hit da MTV di cui, conoscendo i due, pretende d'essere una parodia (ma non solo di quelle, basta sentire come mettono in caricatura Bob Marley e stralci più “omologati” della scena reggae in You Don't Have To Be A Prostitute). E' proprio l'intento canzonatorio dei testi (a tratti sinceramente molto simpatici) e delle musiche che fa un po' da contraltare all'assenza di originalità e di senso ad un CD che è più il nuovo episodio di una serie di mosse di marketing relative ad uno dei marchi di fabbrica delle grandi TV americane. Sono i Flight of the Conchords, con tutto quello che comporta.
Il che può anche piacere. 
Voto: 5 

venerdì 13 novembre 2009

Sondre Lerche - Heartbeat Radio (Rounder Records, 2009)


Sondre Lerche è un giovane artista norvegese che propone da ormai dieci anni un indie rock, influenzato dal pop e dal folk più cantautorali, dai forti accenti britannici con accenni neanche troppo nascosti alla vecchia scena, appunto, inglese (Beatles, ecc.). Un po' come la miriade di band che dal Regno Unito, e non solo, spopolano dalla morte di Lennon in poi. Però il ragazzo ha una marcia in più.
Nel disco, “Heartbeat Radio”, dodici brani melodici, alcuni più spensierati altri più malinconici, semplici ma con una struttura ben studiata. I Cannot Let You Go tra le più “easy-going”, mentre ci si abbandona alla tristezza da “rainy days” che penso conoscano più gli inglesi che i norvegesi (ma per Sondre non è così) in pezzi come Easy to Persuade, I Guess It's Gonna Rain Today e If Only, quest'ultima costruita in maniera più complessa, seppur di poco, rispetto alla media del disco con alcuni timidi cambi di tempo a colorare l'album, in verità piuttosto monocromatico. E se non è niente di nuovo, né rispetto ai suoi lavori precedenti né rispetto altri artisti della medesima scena, ci regala comunque perle dal piglio coldplayiano (ci piacciono i neologismi) come l'opener Good Luck, rimanendo ancorato comunque al suo stile più comparabile ai Belle & Sebastian, da Glasgow. E in ogni caso pezzi come Words & Music sfigurano in mezzo ad alcune perle come le già citate o la sostenuta Almighty Moon.
In fin dei conti l'album è passabile, ben arrangiato e suonato ancora meglio. Perde lucidità se paragonato ai suoi precedessori e anche a qualche altro disco di artisti della scena britannica (Peter Doherty in primis), però si ascolta senza problemi. Certo, per la stampa che ha bisogno di criticare (Pitchfork?) materiale da infangare ce n'è, però noi che siamo più “liberali” possiamo tranquillamente dire che artisti come questi non fanno male alla musica né all'entourage da cui provengono, e un concertino, sotto la pioggia, ci sta pure. Buono. 

Voto: 7- 

giovedì 12 novembre 2009

Foo Fighters - Greatest Hits (RCA, 2009)


Recensire un "greatest hits" non è facile, soprattutto se non si tratta di rimasterizzazioni o riedizioni. Come il 99% delle raccolte anche questo "best of" dei Foo Fighters è una semplice carrellata di singoli con un paio di inediti e una versione alternativa di un vecchio singolo. Quindi, poco di nuovo. Dave Grohl e soci hanno fatto i miliardi e si possono permettere di prendere qualche altro spicciolo facendo contenta la casa discografica con un prodotto di questo tipo che probabilmente manco hanno voluto (si sa come funzionano queste cose no?). 
Concentrandosi sul contenuto del disco, vi si trovano sedici tracce tra le quali i tredici singoli più popolari (mancano solo "DOA" e "Walking After You"). Chiaramente stiamo parlando di All My Life, My Hero, Monkey Wrench e tutti gli altri successi del passato che già abbiamo sentito e risentito centinaia di volte ai concerti dei Foo. La tracklist è quindi piuttosto succulenta per chi apprezza la band e non ha voglia di comprarsi tutta la discografia, limitandosi a prendere dallo scaffale il greatest hits che da buona operazione di marketing si troverà in numerose copie sopra a tutti i loro vecchi full length. A dire il vero la delusione è per la durata di 63 minuti del disco, che poteva quindi contenere qualche canzone in più (le due sopracitate, oppure "Let It Die", "In Your Honor", "Aurora", "Generator" o "Stacked Actors", di possibilità ce n'erano molte), anche a livello di inediti, ma così non è stato. Per quanto riguarda le novità troviamo un'edizione acustica di Everlong, il brano più riuscito di tutta la discografia degli americani, apprezzabile in questa veste più "da camera" (già proposta nei live da 3 anni circa); gli inediti sono una vera sorpresa. Il singolo Wheels, che sta spopolando su MTV et similia, è un vero e proprio tormentone, con un ritornello orecchiabilissimo ed un tiro veramente spaventoso. Rimane in testa con grande facilità grazie anche ai soli quattro accordi con cui è costruito, ma nonostante questo cattura l'ascoltatore e risulta, alla fine, uno dei brani più riusciti degli ultimi 10 anni di carriera dei Foo Fighters (escludendo quindi i primi tre dischi). Word Forward è invece meno commerciale e ha una struttura più classica, con il tipico urlato di Dave e i riff taglienti che contraddistinguono praticamente metà delle canzoni della band. Lascia meno il segno rispetto a tante loro hit del passato ma è comunque sopra la sufficienza.
Che dire, questo "Greatest Hits" è un prodotto interessante sotto il profilo collezionistico e pubblicitario più che per il suo valore "discografico", nonostante contenga due inediti interessanti da ascoltare anche per chi i Foo Fighters non li ha mai approfonditi. Per il resto, una mera operazione di guadagno come una band di questo calibro si può tranquillamente permettere. Ma Wheels resta una perla non da poco.

Voto: 6.5

mercoledì 11 novembre 2009

The Styles - Newrante (H20 Music, 2009)

Per chi non conosce Guido Style è quello che qualche tempo fa faceva finta di suonare la chitarra ai concerti di J Ax dopo il successone di "+ Stile", quella canzone di merda. Beh. Nei The Styles è tutta un'altra cosa. Dopo l'esplosione di alternative rock dall'impeto quasi punk del primo CD (You Love The Styles), questo Newrante è un disco che deve molto alle collaborazioni di Guido (unico produttore e musicista di tutte le canzoni) con l'ex Articolo 31, e si contamina di dance e pop senza tanto nasconderlo. 
La sua forza è negli inni quasi "generazionali" di canzoni come la title-track Newrante, che se la prende con il mondo dello star system musicale, con i gruppi di moda che evidentemente non sono apprezzati da un ragazzo che ha così trovato il modo di farne parte. Musicalmente banalissima, è comunque abbastanza catchy da diventare "suoneria del mese" per qualche squallido programma di MTV o della defunta All Music, ma ammettiamo che il suo ritornello non se lo toglierà dalla testa nessuno. Il brano più intenso e "comunicativo" è Degeneration Group, carrellata di esperienze di una gioventù che alcuni definirebbero "bruciata" e narrata da un suo protagonista con uno sguardo al Rino Gaetano (in versione più soft, chiaramente) più recentemente reinterpretato in chiave moderna già ad artisti come Luci della Centrale Elettrica e Zen Circus, ma in questo caso piegato alle influenze più pop dell'artista. Amsterdam, una città che si ama citare nei testi da tanto tempo ormai, è un brano melodico, malinconico e che scivola tra le note di una qualsiasi canzone nazionalpopolare con liriche d'amore, seppur sia presente quel tocco personale di Guido che la accosta più al resto del disco che ad artisti della nostra scena cantautorale. In ogni caso parzialmente evitabile, come i crediti del disco (nella traccia Credits) sparati col vocoder sopra una base dance; un riempitivo quasi squallido per un disco che doveva nascere dal numero spropositato di brani che il ragazzo si vantava di aver composto per questo nuovo lavoro. Stessa cosa per i brani strumentali, Hitler's Vendetta e Pig's Fly, in quanto risulta di difficile comprensione il loro significato all'interno del contesto The Styles sebbene puntino il faro sul futuro molto più "dance" o elettronico del progetto. Le basi quasi da discoteca si portano via anche una potenziale hit come Party Animal (più per il testo che altro), per niente azzeccata soprattutto per il vocoder che suona in alcuni momenti ridicolo ed un testo più banale rispetto a quelli citati sopra (a parte qualche frase degna di nota come "se incontro la band del momento gli sputo"). Carine ma nulla più le due canzoni che musicalmente rappresentano l'unica soluzione di continuità con il debut album, Radio Star e Rock Band (la seconda in versione inglese come bonus track), dove l'alt-rock è prevalente, con distorti e soliti riff in power-chord che si apprezzeranno soprattutto nei live ("non avrò una bella faccia ma almeno io ce l'ho", incipit di un ritornello memorabile).
Facendo due conti questo Newrante non regge minimamente il confronto con il suo precedessore, vuoi per la troppa libertà creativa che si è concesso Guido (e che magari non ha così tanta fantasia) o vuoi semplicemente per la piega che ha deciso di prendere, sfruttando il successo avuto con i primi singoli, per cantare in italiano e sfondare nel mondo di MTV che sembra, impropriamente direi, snobbare nei suoi testi. Alla fine "non mi vesto da coglione perché siete già in tanti" è un inno più che per chi lo ascolta che per chi la canta, che un po' coglione si dimostra in questo senso. L'album è comunque salvabile e si merita più la sufficienza per i testi simpatici ed azzeccati e qualche spunto rock che si spera sia di buon presagio anche se come avrete capito, il sottoscritto non ci spera. Fate lo sforzo di sperarci voi.

Voto: 6-

lunedì 9 novembre 2009

Le Vibrazioni - Officine Meccaniche (BMG, 2006)


Il terzo lavoro delle Vibrazioni arriva, nel 2006, come una palese dimostrazione delle qualità tecniche e compositive di una band che nonostante il tempo che passa non ha ancora perso lo smalto che possedeva negli anni del fortunato debutto. E' un lavoro prettamente rock, più vicino al loro primo disco che a quello successivo (II), con l'inserimento di qualche elemento più esterofilo, dall'attitudine hard rock (vedasi il ritornello del singolo Drammaturgia) e con quell'immancabile commistione di pop all'italiana, rock preso a piene mani dalla tradizione ledzeppeliniana (e più in generale della vecchia scuola inglese) e funky (L'Inganno del Potere e Sai emblematiche in questo senso, probabilmente le più classiche nei confronti del vecchio repertorio di Sarcina e soci). Se è un ottimo brano dall'anima pop, vicino a "Dedicato a Te" e vecchie glorie dei milanesi, con un cantato molto memorizzabile e un groove che più radiofonico non si può. Introduzione ad uno Stato di Inebriante Distacco dal Reale si inerpica in sentieri inesplorati per la band, e risulta un pezzo dalle forti atmosfere post-rock, arricchite da tastiere ed archi dagli ottimi arrangiamenti (sempre in aria "easy-listening"). Queste tinte sperimentali si ritrovano poi nella coda strumentale di Eclettica. Il rock in puro stile Vibrazioni è ancora più evidente in Dimmi, con qualche studiata intromissione noise. E Fermi Senza Forma è, in sé, la sintesi perfetta di tutti gli elementi di questo "Officine Meccaniche", risultando tra i brani migliori del disco.
Grazie ai soliti riff di facile presa, ai testi quasi sempre legati a tematiche d'amore (testi all'italiana, dicesi) e ritornelli più catchy che mai, questo terzo album delle Vibrazioni è la prosecuzione perfetta della loro carriera, visualizzando comunque un'evoluzione nel sound che lascia presagire bene per il prossimo full-length. Che dire...contaminatevi anche voi di queste vibrazioni ad alto rischio dipendenza.

Voto: 8

domenica 8 novembre 2009

Verdena - Miami Safari EP (Black Out/Mercury/Universal, 2002)



Miami Safari EP è in ordine cronologico il quarto EP (o singolo, come lo definiscono alcuni) prodotto dai Verdena, tramite la combo Black Out e Universal (con il contributo anche di Mercury), che ha pubblicato tra gli altri Ministri e Casino Royale. Come i precedenti ("Viba", "Valvonauta" e "Spaceman) contiene l'omonimo pezzo e alcuni inediti, tra cui una cover, tutte riproposte col tempo anche nei concerti.
I contenuti di questo EP sono forse tra i migliori mai prodotti dai Verdena al di fuori dei loro full length e lo capiamo subito, tralasciando Miami Safari, presa direttamente dall'album della svolta "Solo Un Grande Sasso", prodotto con Manuel Agnelli degli Afterhours, comunque ottimo pezzo dalle aperture melodiche sopra i tipici riff "verdeniani" che subito si individuano nella mano del frontman Alberto Ferrari. La suite Solo Un Grande Sasso (divisa in Parte I e Parte II) mette in fila in tutto dodici minuti di neopsichedelia quasi completamente strumentale, devota ai Pink Floyd come al noise della generazione precedente i Verdena (fine anni '80 - inizio '90), con una struttura studiata ad hoc per non annoiare nonostante la lunga durata. Il riff di base è sempre il medesimo ma viene rielaborato più volte dai tre (aiutati anche da un piano Rhodes, uno wurlitzer, alcuni synth e un mellotron, come si apprende dal booklet) creando quell'effetto sorpresa che ti coglie ad ognuno dei numerosissimi cambi presenti nei due pezzi. L'altra novità, Morbida, è una ballata con chitarra acustica simile alle altre che i Verdena hanno proposto su questa falsariga ("La Tua Fretta", "Bambina In Nero" e "Onan" in particolare). Nessun commento sui testi, particolari come sempre. 
La cover presente in questo EP è dei Melvins, formazione cara ai tre bergamaschi. Si tratta di Creepy Smell, eseguita in maniera molto potente e precisa, leggermente più veloce dell'originale, con la voce di Alberto ad urlare per avvicinarsi alla resa in realtà molto più personale dello storico King Buzzo. Da apprezzare soprattutto i concerti.
Questo EP, così come tutti gli altri, è immancabile nella collezione di ogni fan dei Verdena, ma dovrebbe essere ascoltato anche dai fan dell'ultim'ora e dai semplici interessati perché contiene in sintesi parte del codice genetico dei Verdena, tutta la loro vena compositiva ispirata dai grandi della psichedelia e del grunge, la grazia nella scena dei suoni e l'aggressività che li contraddistingue nelle performance live. Se lo trovate, procuratevelo.

Voto: 8

venerdì 6 novembre 2009

Creed - Full Circle (Wind Up, 2009)


Ritornano sulle scene dopo la parentesi Alter Bridge (che comunque continueranno ad esistere stando alle dichiarazioni di Mark Tremonti) ed il disco solista del cantante Scott Stapp ("The Great Divide") gli statunitensi Creed. Questo quarto album in studio è la reunion dopo lo scioglimento (o pausa di riflessione?) del 2004: sentiamo come suona!

Il disco comincia con il primo singolo estratto (Overcome): brano perfetto per anticipare l'album uscito a fine ottobre. Il riff è di quelli che non dimentichi facilmente, grazie anche alla mano riconoscibilissima di Tremonti (divenuto ormai a tutti gli effetti un guitar hero: ascoltate il solo!) che fa gemere la sua PRS; il refrain è allo stesso modo appiccicoso (vuole essere un complimento), soprattutto per la linea vocale: in questo lavoro Scott Stapp tira fuori un nuovo modo di cantare rispetto a quanto fatto in precedenza e svela due anime contrapposte che a me personalmente hanno ricordato James Hetfield da un lato (!) e Eddie Vedder dall'altro. Nei brani più robusti la voce ricorda il cantante dei Metallica soprattutto per le linee e per la pronuncia sguaiata, mentre dove serve più calore sembra di ascoltare davvero il frontman della band di Seattle.
Le chitarre, in primo piano anche sulla seconda traccia (Bread of shame) sono grosse e ricche di basse; anche qui il riff è spigoloso e funziona alla grande. Ad ascoltare questo pezzo in certi momenti mi sono venuti in mente gli Alice in Chains, forse per il cantato del ritornello.
A Thousand Faces si apre come una ballatona, con una chitarra acustica brillante che lascia spazio alla solid body nel ritornello, cantato da Stapp e Tremonti che dimostra anche di avere una bella voce. Si ritorna a territori più cari ai metallari in Suddenly, anche se la linea vocale dell'inciso è di una melodia unica! Nei bridge arriva quella somiglianza con Hammett descritta qualche riga più su.
Eccoci alla canzone numero cinque (Rain), che con Away in Silence è uno dei brani dove la voce è più “vedderiana” e suoni più morbidi, chitarre acustiche e aperture da veri maestri. Anche i testi di questi due pezzi sono più morbidi della media.
Con Fear si ritorna alla PRS di Tremonti che soffre e geme sotto un distortone come si deve: forse è il pezzo più Alter Bridge style del lotto. Diciamo che ad evitare l'effetto “doppione” ci ha pensato il signor Chris Lord Alge dal suo banco di missaggio lavorando sui suoni soprattutto di basso e batteria, lasciando uscire la personalità ed il sound caratteristici di Tremonti creandogli però un contorno diverso da quello che ha negli Alter Bridge.
On my Sleeve si apre con gli archi, che sono poi presenti in tutto il brano; una ballata davvero riuscita, con voce espressiva e chitarra sempre pronta a colpire.
La chitarra acustica apre anche la title track (Full Circle), pezzo che strizza l'occhio al country per certi versi, e che come i Creed ci hanno abituati ha delle aperture melodiche da brivido. La traccia successiva è una Time che nulla ha a che vedere con l'omonima targata Pink Floyd: una ballata dove ancora una volta Tremonti si cimenta con la chitarra acustica confermando il suo gusto melodico. Altro brano che si apre tranquillo è Good Fight che lascia invece spazio all'utilizzo di un crunch sul ritornello. Il riff portante della strofa è suonato da una chitarra con un pizzico di reverb e i toni bassi in evidenza a scaldare l'atmosfera. Anche qui c'è spazio per il Tremonti più cattivo, che verso la fine, dopo uno special metallico tira fuori un solo da manuale.
Chiude il cerchio The Song You Sing, brano che comincia con una acustica allegra e brillante e che diventa poi elettrica all'arrivo di un altro ritornello appiccicoso: sarà il prossimo singolone?

Un grande ritorno questo Full Circle: lavoro in cui la band dimostra di non aver perso l'identità ma nel quale allo stesso tempo si sente una crescita fatta soprattutto da scelte diverse (rispetto al passato) nel modo di cantare da parte di Scott Stapp e da un paying ancora più sicuro di Mark Tremonti. La batteria è fatta di pattern riconoscibili per chi ha fatto girare parecchio l'ultimo degli Alter Bridge (il batterista è lo stesso) ma i suoni più naturali fanno si che il paesaggio sonoro cambi e ci si trovi davanti qualcosa di diverso. Infine, il ritorno di Brian Marshall ha fatto si che le linee di basso siano da bassista e non da chitarrista (sugli altri album in studio il basso era affidato a Tremonti) e chi suona il basso capisce cosa intendo: sono più complete e calde e forse anche questo contribuisce al rinnovamento del sound della band. Finalmente una reunion che non delude!

Voto: 7,5

mercoledì 4 novembre 2009

Frigidaire Tango - L'Illusione Del Volo (La Tempesta, 2009)




I Frigidaire Tango sono un nome emblematico per la scena underground italiana. Emersi negli anni '80 come gli alfieri della new wave italiana, scena che non è mai fiorita come invece ha fatto altrove, hanno fermato il progetto nel 1986 per ricomparire 23 anni dopo con questo “L'Illusione del Volo”, interessante lavoro frutto nientemeno che dei troppi anni di stop. E' evidente infatti un accumulo di idee che non permette una completa omogeneità del prodotto finale, lasciando alla voce e ai testi il ruolo di collante tra atmosfere così diverse.
Il codice genetico della new wave più pura è tutto riversato sulla traccia d'apertura Milioni di Parole, così come decenni di tradizione punk ed alternative italica confluiscono nella splendida Mescola Le Razze. Queste due tipologie di suono regnano per tutto il disco, combinandosi in maniere sempre diverse, come nella cavalcata quasi totalmente strumentale Dreamcity (con suoni lo-fi sarebbe adattissima ad un videogioco delle prime console Atari), dai forti toni anni '80, e il pop d'autore di L'Acqua Pensa, con qualche arco che ricorda il lavoro di Dario Ciffo quando militava ancora nei sempreverdi Afterhours. Federico Fiumani, peraltro ospite nel disco, sembra essere grande ispirazione perché echi per nulla impalpabili dei primi Diaframma sono evidenti in Soffia, in Normalmente Triste e in Poesia di Luce. I sintetizzatori gutturali à-la-Franco Battiato, sovrastati dalle chitarre potenti e puntuali, riempiono Paura del Tempo, dal testo sgraziato e pessimista, e si scrive addirittura una personale, forse per alcuni blasfema, versione del padrenostro in Preghiera. “Sudiamo oggi il nostro pane quotidiano perché l'uomo nasce senza debiti”. Il disco si conclude con New Wave Anthem, non troppo fedele al nome in quanto più simile a certe ballad riconducibili agli ultimi dischi di Giorgio Canali (peraltro produttore dell'opera) più che a una tradizione dark come si vorrebbe far credere. In ogni caso è il brano più riuscito, forte di un testo all'altezza delle pretese di un ritorno così atteso.
Un disco come questo si apprezza più per il valore artistico che per la tecnica, buona ma non dimostrata nelle composizioni di questi Frigidaire Tango che riescono in maniera assolutamente genuina a riprendere la new wave abbandonata negli anni '80 per proseguirla con stralci di rock, indie, alternative, punk e cantautorale, mescolando cioè tutto ciò che la “scena” (quella seria) italiana ci ha regalato nel loro periodo di assenza. Superando le prime reazioni di pesantezza suggerite dalla voce, si completa l'ascolto con un senso di appagamento per un'opera completa, volendo anche di valore storico (e musicale, viste le sperimentazioni) anche se ci si chiede quanto ce ne fosse bisogno. Fino a che nessuno se lo chiederà, un gran bel disco.

Voto: 7.5

martedì 3 novembre 2009

Editors - In This Light And On This Evening (Kitchenware, 2009)



Fare soldi imitando i Joy Division o lo stuolo di emuli che occupano da anni i piani alti delle indie charts o le copertine delle riviste più "in" si può. Lo dimostrano quotidianamente centinaia di band sempre nuove che si trovano sempre più a loro agio nel gonfiarsi il portafogli elaborando (in chiave più o meno moderna/personale) tutto quello che l'ex quartetto di Salford ha fatto in pochi anni di carriera (tanto, si intende). Gli Editors, dopo Interpol e i tanti aficionados dell'articolo determinativo "THE", ne hanno guadagnato tanto producendo, protetti dalla "vendibilità" assoluta di questo genere (più o meno propriamente inquadrato in quelle detestabili ed abusatissime etichette che sono "post-punk" e "new wave"), due dischi più che discreti, orecchiabili e, tutto sommato, fregiati di una patina di originalità infusa soprattutto dalla voce quantomai caratteristica di Tom Smith. Al terzo lavoro lo slancio creativo (o imitativo...) sembra essersi esaurito e per sfuggire al rischio del ristagno à-la-Oasis (e quanti altri?) si ripara là dove nel 2009 trovano rifugio in molti: l'elettronica. New Order, Visage e Depeche Mode per fare qualche nome.
Il singolo Papillon, forse uno dei brani più radio-friendly della loro discografia, stupisce al primo impatto. Costruito bene, con una melodia fondata sugli stereotipi del synth-pop ballabile, reminiscenza degli eighties più dark (c'è chi parla anche dei Cure), si secca però a causa della lunghezza eccessiva (più apprezzabile in questo senso la single version), espediente che non funziona neanche in soluzioni diverse come nella title-track. Troppo estesa, scioglie l'interesse iniziale per le sue atmosfere quasi EBM in una ripetitività che fagocita tutto, dai pattern di synth al cantato, prima di spezzarsi per un "outburst" centrale che riporta il pezzo alla sufficienza. L'essenza del disco è prevalentemente pop, e non è questa la sua condanna: il quarto brano, You Don't Know Love, così come Bricks And Mortar, è una ballad di poca sostanza, in sé riempitivo per un disco veramente a tinta unita. Si ammicca ai Radiohead in The Big Exit, dove il frontman sceglie finalmente un sentiero diverso per le sue linee vocali: nonostante questo (peraltro un riassunto plausibile anche per Eat Raw Meat = Blood Drool), il brano fatica a lasciare il segno. Notevole fin dall'inizio è invece The Boxer, pezzo dalla struttura radiofonica ma arricchito da sintetizzatori più studiati, che intervengono in strati diversi durante il proseguimento della canzone sottolineando in particolare l'azzeccatissima melodia principale. 
Il disco di per sé si ascolta. La sua assenza di spunti creativi è controbilanciata in verità dall'uso, " relativamente nuovo" per gli Editors, degli strumenti elettronici, ovunque inseriti in maniera sapiente senza forzature evidenti. Resta inteso che proporre un prodotto orecchiabile ma scarsamente originale come questo significa beccarsi dalla critica anche qualche stroncatura. Dando fiducia alla band è possibile considerarlo frutto semplice di una fase di passaggio che si spera possa condurre a un quarto disco (o ad un EP, visto che sono tornati di moda) teso ad esplorare territori davvero "nuovi", con buona pace del cadavere di Ian Curtis e di tutti i suoi cloni (ironia della sorte, visto che non ci sono leggende su una non-morte come accade invece per Elvis, Jackson e Lennon). Perchè dopo "The Back Room" e "An End Has a Start" credere che non possano dare di più mi è davvero difficile.

Voto: 6+

lunedì 2 novembre 2009

Institute - Distort yourself (Interscope, 2005)


La prima domanda che mi sono posto quando ho preso in mano questo CD dallo scaffale è stata “ma chi sono questi Institute?”. Da temerario ascoltatore ho acquistato il disco senza conoscere la band e pensando di scoprire chissà quale nuova formazione, (se i dischi costassero meno acquisterei più spesso a scatola chiusa) capendo poi in seguito di trovarci dentro personaggi conosciutissimi.
La band nasce e muore nel giro di un paio d'anni ed è il progetto post-Bush di Gavin Rossdale, forse conosciuto dai più come il marito di Gwen Stefani.
La formazione ufficiale (Wikipedia docet) ha come componenti, insieme a Rossdale, Chris Traynor (Helmet), Cache Tolman (Rival School) e Charlie Walker (Split Lip); quest'ultimo arrivato a dividere lo sgabello nientemeno che con Josh Freese. Nel libretto sono inoltre accreditati altri musicisti che hanno partecipato alle sessioni in studio.
È strano scrivere di una band dalla vita così breve: mi attendevo un secondo album dato che questi signori hanno pure accompagnato gli U2 nel tour di Vertigo e visto che questo Distort yourself è davvero un bel lavoro. Probabilmente il frontman ha preferito sciogliere il gruppo per lavorare al suo album solista uscito poi nel 2008.

Ma ora parliamo dei brani di questo album!
L'apertura è affidata al singolone Bullet-Proof Skin, che comincia con la chitarra in primo piano caratterizzata da un reverb pesante e che poi sfocia in un riff sincopato semplice ma d'effetto: distortone a manetta (non grossissimo, ma più “personale” e meno scontato). Il ritornello è accattivante e non cade nel banale e gli inserti di chitarra del bridge preparano al botto mentre il basso del refrain è semplice ma spinge come si deve.
Il secondo pezzo (When animals attack) è anch'esso costituito da un riff sincopato di basso (che ogni tanto mi torna in mente e mi metto a suonarlo), chitarra ritmica gonfia e drumming poco invasivo. Diciamo che da come il lavoro comincia pare che la scelta del produttore sia stata di puntare molto sulle chitarre lasciando alla ritmica un ruolo “da mediano”, ovvero di fare una solida base senza concedersi troppo alle luci o fare i fenomeni. Anche su Come on Over il basso è presente e lineare ed aiuta ad ingrossare la ritmica del riff della strofa (manco a dirlo sincopato) per poi farsi quasi da parte nel ritornello da rock ballad. La voce di Mr. Rossdale è ben presente e le linee sono di immediata assimilazione (se vi trovate a cantare i questi brani sotto la doccia non è un caso insomma), anche se è scomparso un certo pathos che ricordavo nelle cose dei Bush ("Glycerine" ad esempio).
Information Age si apre di colpo con il suo riff composto da due chitarre contrapposte che nel ritornello aprono con un distorto più soft lasciando spazio a scenari quasi pop. Echi di wah si sentono qua e là e pure l'uso di giochi stereo sulle chitarre rende il brano interessante. Il testo è di estrema attualità: tv, successo facile e veloce ascesa.
La traccia 5 è Wasteland: credo che il signor Tolman in questo disco si sia divertito molto col suo basso! Questo è un brano a mio parere molto riuscito, grazie alla creazione di pieni e vuoti tra strofa e ritornello ma anche grazie ad un refrain davvero riuscito, grosso al punto giusto e dove c'è un Rossdale in gran forma. Il pezzo successivo comincia con la sola batteria, ma nel giro di un paio di secondi si aggiungono basso e chitarra per un'apertura ad effetto; il tutto si placa quando comincia il cantato, accompagnato quasi esclusivamente dal basso. Il ritornello di questa Boom Bx è caratterizzato da chitarre grosse e feedback a creare una melodia tanto semplice quanto riuscita!
È ora il momento di Seventh Wave, con il riff principale sincopato e appannaggio della chitarra ritmica. Il bridge porta anche stavolta ad una bella apertura, sempre rock ma dove la voce piazza una linea che più pop non si può. Questo è uno dei brani di questo lavoro dove chi siede dietro i tamburi dà l'impressione di divertirsi per davvero: il pattern dei bridge non è per nulla scontato ed è di quelli che ad un primo ascolto ti danno l'impressione che il batterista non stia facendo nulla di speciale: come si diceva prima il lavoro “da mediano”.
Un titolo, un programma. The Heat of your Love fa pensare ad una canzone mielosa e piena di rime cuore-amore ma: primo i distorsori fumano, secondo il beat è veloce ed in più non trovo il testo nel booklet! Più che amore questo è sesso secondo me.
L'apertura di Ambulances è molto malinconica. L'arpeggio di chitarra da spazio al duetto voce-basso e l'amalgama è di quelle che ti danno i brividi. Il tutto mi fa pensare alla dedica scritta nell'ultima pagina del libretto: to Winston Rossdale 1988-2004...
Pare una drum machine quella all'inizio di Secrets and Lies, brano dalla strofa caratterizzata da un riff di chitarra doppiato dal basso e con un ritornello dove torna il distorto cui ci ha abituato Traynor in questo cd e che accompagna l'ascoltatore per gran parte del lavoro. Molto bello l'inserto quasi industrial a tre quarti del pezzo che richiama la (presunta) drum machine iniziale.
Il lavoro procede con Mountains. Anche qui la strofa è territorio per la coppia voce-basso con chitarre che abbelliscono il tutto per poi (vien da dire “al solito”) ingrossarsi nel ritornello. Diciamo che chi è abituato ad ascoltare cose con strutture complicate fatte di specials, assoli ad ogni piè sospinto o cose del genere qui casca male.
Titolo quantomeno bizzarro quello del penultimo brano (Save the Robots) dove la strofa è tenuta su da un basso leggermente distorto e dove le chitarre, a dire il vero più acide che nel resto del disco, alzano la voce solo nel refrain. Anche qui l'aria è un po malinconica e a me (forse per questo suono di chitarra) ha ricordato i Radiohead. Qui si sente forse l'unico solo di chitarra del'intero lavoro, anche se più che solo è un bridge musicale.
Anche per The Buzz of my System non trovo il testo all'interno del booklet, ma forse è soltanto perchè è una bonus track. Qui la chitarra che ci si trova di fronte all'inizio è filtrata attraverso tali effetti che pare registrata su un vinile lasciato a marcire da qualche parte per decenni. Non temete, quando il pezzo comincia per davvero c'è sempre il buono e sano distorto ad attendervi...

Che dire di questo Distort youself se non che è un disco di pregevole fattura e composto di brani immediati ma non banali? Si potrebbe aggiungere che le scelte operate sui suoni (soprattutto di chitarra) non sono poi così scontate: se è vero che le chitarre portanti utilizzano praticamente un solo distorto, c'è da dire che intorno ad esse c'è un intero panorama di abbellimenti, feedbacks e piccoli riff veramente ben studiati. Oltretutto nell'intero lavoro non c'è sentore di eccessive sovrincisioni ed il risultato è che suona molto naturale. Non ho altro da aggiungere se non “salviamo I robots”!!!

Voto: 6.5