martedì 28 luglio 2009

Edo - Booootleg (Autoprodotto, 2009)


Edo, giovane cantautore veneto, arriva nel 2009 a pubblicare un “live” registrato in uno storico locale della sua Padova, una raccolta di otto pezzi (sette inediti e una cover) che precede un album che sarà rilasciato entro la fine dell'anno.
La chitarra acustica di Edo in questi otto brani è l'unico strumento ad accompagnare le parole, spensierati testi dal gusto provinciale e qualche volta macchiati di politica, con venature ironiche a tracciare un quadro generale della vita di un giovane padovano nell'epoca dei social network e del lavoro che non si trova più (Web Generation e Lavoro a Londra, le più divertenti ed “impegnate”, sotto questo punto di vista). C'è spazio per qualche storiella su personaggi realmente esistenti (Tommy R. e La Nana), e su “gangster di inizio novecento” come Jhon Colombo, la canzone con il giro di accordi più originale del disco. I pezzi più “orecchiabili”, che portano all'estremo l'attitudine radio-friendly dell'intero repertorio, sono Nevica sulla Luna e Horror, con ritornelli particolarmente facili da ricordare. Apprezzabile anche la scelta di includere una ben fatta cover di Jeff Buckley, in particolare l'intramontabile So Real.
Musicalmente la produzione di Edo pecca di originalità. Se i testi sono in grado di attrarre potenzialmente il pubblico e si prestano quindi all'ottica “etichetta discografica”, la costruzione dei brani è piuttosto banale e soffre certamente l'assenza di un gruppo che darebbe più grinta e più colore a delle canzoni a loro modo già complete. Anche la tecnica non è ai massimi livelli, e qualche sbavatura sia di chitarra che di voce pesa sul rendimento finale. E se molti critici direbbero che c'è bisogno di meno “provincialismo” per uscire dall'anonimato, è invece proprio questo il vero salvagente di Edo, nell'era di Vasco Brondi e dei cantautori regionali. Definitivamente un buon prodotto, simpatico al punto giusto, in attesa del primo disco.
VOTO: 7+

sabato 25 luglio 2009

Tortoise - Beacons of Ancestorship (Thrill Jockey, 2009)

Beacons of Ancestorship. Un nome che non lascia intuire nulla. Il nome adatto per questo disco. Pazzeschi negli anni '90, scialbi e ripetitivi nel 2000, avevano rischiato di finire nel dimenticatoio. I colpi di reni arrivano sempre a salvarti quando hai toccato il fondo, e anche se ancora non c'erano arrivati questa è più di una risalita. Si osa oltre i livelli già raggiunti e vediamo ora cos'hanno combinato i cinque statunitensi.

Da sempre frullatori viventi di generi musicali, abili a stordire l'ascoltatore con intelligenti miscugli di ambient, post-rock, jazz, elettronica e psichedelia, lasciano dietro le spalle qualche ingrediente per aggiungere nuove caratteristiche al loro prodotto. La traccia d'apertura, High Class Slim Came Floatin' In, è un intellettualistico viaggione di otto minuti che ci si chiede sotto quale droga sia stato composto. Space rock, elettronica partorita dai Kraftwerk, psichedelia sotto una coltre di sintetizzatori pazzi che spazzano con uno stile che è da pochi i tre quarti di canzone che seguono l'allucinata introduzione. L'album continua con Prepare Your Coffin, ritornano le influenze acid jazz nel drumming ma mancano gli stacchi fantasiosi dei lavori precedenti (chi non ha ancora tolto “Millions Now Living Will Never Die” dallo stereo sa di cosa parlo) ed un accostamento a certi Holy Fuck è d'obbligo. Non un difetto, non una novità. Usciti dalla parte “colonna sonora” nella quale rientreremo, ci imbattiamo in Northern Something, energica manciata di secondi tra synth e marce singhiozzate, corta quanto basta per farti apprezzare Gigantes. Tornano gli Holy Fuck, ma insieme ai Battles. Il piatto è più ricco, mentre la canzone continua nei suoi sei minuti si aggiungono strumenti e livelli di suono, pad che spingono l'immaginazione oltre i gocciolii simulati dei primi minuti e la mano tremante del tastierista giusta protagonista. Con una simil-sigla televisiva, Penumbra, di appena un minuto, introducono Yinxianghechengqi, sorpresa del disco. Bellissima cavalcata drum'n'bass ma dal gusto rockettaro, con una batteria ed una chitarra ossessive fino all'inverosimile, condita da un crescendo che raggiunge il suo climax a metà pezzo, prima di precipitare in una grotta costretta al ripetersi di starnuti di kraftwerkiana memoria. The Fall of Seven Diamonds Plus One è una ballata in cui Gilmour alla chitarra sembra accompagnare portoni che sbattono finché arriva il solito synth a spezzare la tensione. E siamo ancora in vena di musica da cinema. Minors è un riempitivo carino, simile a tante altre, ma sempre di buon gusto. I tempi si sono dimezzati e Monument Six One Thousand parte con un loop incessante che viene senza preavviso lacerato da chitarre crudeli lasciando poi spazio all'ingegno di alcuni suoni quasi casuali ma che trovano il loro significato quando il pezzo arriva al suo finale, in cui i toni si fanno misteriosamente più sognanti. Per sfociare in De Chelly. Organo debole e basso superdistorto per lasciar finire un ottimo disco con l'ingannevole Charteroak Foundation. Le chitarre post-rock non c'entrano niente con tutto il resto, ed è proprio questo a renderla interessante. Un ascolto veramente consigliato.

Perdonatomi un track-by-track che so essere stato troppo lungo, accenno alla perfezione dei suoni, non troppo curati come una produzione non-major vuole e come questo genere necessita. Interessanti per tutti quelli che cercano il punto d'incontro tra elettronica e psichedelia che nessun altro gruppo ha saputo incarnare come loro. Ma attenti: se non lo ascoltate fino in fondo e più di qualche volta, non ci capirete molto. La magia dei Tortoise.

VOTO: 8.5

mercoledì 22 luglio 2009

Placebo Live @ Castello Scaligero, Villafranca di Verona (VR)

 
Puntuali come un orologio svizzero salgono sul palco Molko e soci, preceduti dalla new entry, il giovane batterista Steve Forrest, in un breve set acustico chitarra e voce che ha riscosso un discreto successo. Circa diecimila persone (ad occhio e croce) si trovano nel cortile del Castello Scaligero di Villafranca (VR) per l'ennesima tappa dei beniamini inglesi nel Bel Paese.
La band parte bene infilando quattro canzoni dell'ultimo disco, scaldando la folla prima dei successi del passato che tutti attendono. La potenza del primo singolo tratto dall'ultimo disco Battle For The Sun, For What It's Worth, scatena un gran pogo che viene fermato da Molko che minaccia di non suonare se la gente si farà del male. Si ricomincia più concentrati sull'esibizione del gruppo e le bellissime Every Me Every You, Sleeping With Ghosts e Special Needs vengono accompagnate da un coro unanime come previsto. Niente sorprese in scaletta, ma tutti i singoli più famosi, passando per le hit viste per mesi su MTV The Bitter End, Special K e le più recenti Meds (con interessante intro acustico) e Song To Say Goodbye. Particolare nota di merito va a The Never-Ending Why, suonata in maniera molto potente, grazie anche al tocco preciso ma “esplosivo” del nuovo batterista, che rende tutti i brani molto più rock. Anche gli altri componenti se la cavano bene, soprattutto un Molko ancora in forma e una violinista/tastierista che da un tocco in più a certi brani, come ad esempio in Follow The Cops Back Home. A volte inutile il backliner che si alterna a basso e chitarra, per una scelta tecnica non valorizzato a livello di volume nel mix generale. Eccellente l'acustica, anche sotto palco.
Un'ora e mezza passa in fretta ma ne resta il ricordo, anche dopo la “bitter end”: le ragazzine che urlano a Steve e Brian, i tentativi di pogo stroncati dal frontman, i problemi tecnici del bassista/chitarrista Olsdal che rischiano di far saltare il concerto ma soprattutto la musica di questi Placebo, che si conferma una delle band internazionali più importanti, più amate e più dotate in circolazione. 
* foto di Ambra Rebecchi 

 

lunedì 20 luglio 2009

Subsonica Live @ Sherwood Festival 17 Luglio 2009



I cinque torinesi si fermano in quel di Padova con un'ulteriore data di questo breve tour estivo per coronare la nuova edizione dello Sherwood Festival già gremito qualche giorno fa per la performance dei Prodigy.
Diecimila persone circa piombano al parcheggio dello Stadio Euganeo per i Subsonica. Con i canonici 45 minuti di ritardo salgono sul palco, dopo l'intro non suonata Terrestre, dall'omonimo album. Ad aprire il concerto la calda versione "dub" di Piombo, seguita dal classico Il Cielo su Torino che infiamma il pubblico dal quale partono i primi movimenti che poi continueranno instancabili per tutti i 105 minuti di durata. L'energia della band è data soprattutto nei classici, che scatenano come da copione un vero e proprio coro nella folla festante: si tratta di Nuova Ossessione, Disco Labirinto, Tutti i Miei Sbagli e l'amatissima Aurora Sogna, scontati pezzi forti della serata. Fortunatamente in inferiorità numerica i pezzi dell'ultimo disco, il migliore dei quali poteva potenzialmente essere Veleno ma eseguito alla bell'e meglio lascia il trono ad una potente L'Ultima Risposta. Filano lisce nonostante le due pause le quasi due ore di concerto, passando per l'evitabile remix de Il Mio Dj e l'altrettanto superfluo inedito live Fluido The Activator. Nota di merito per la cover di Battiato Up Patriots To Arms e l'esecuzione di Strade, L'Odore e Liberi Tutti, molto apprezzate dal pubblico anche se il loro inserimento in scaletta era prevedibile. Si soffre molto l'assenza dei due migliori pezzi dell'ultimo disco (“Canenero” e “La Glaciazione”) e delle indimenticabili “Abitudine”, “Cose Che Non Ho” e “Corpo A Corpo”, che in molti attendevano speranzosi.
Con una scaletta quindi sufficiente ma nulla di più, a farla da padrone è la tecnica della band, sempre sopra la media, con un'acustica invece scarsa ma relativamente buona rispetto gli standard dello Sherwood Festival. La fase calante che molti accusano aver indebolito il loro ultimo disco sinceramente non si vede dalla carica che trasuda dal live e la gente lo sente, tramutando questi impulsi in energia pura, come in pochi concerti se ne può trovare.
Alla fine un ottimo concerto da parte dei cinque piemontesi, dove trovano spazio anche alcune frasi riguardo il ritorno al nucleare e l'arresto di alcuni studenti per il G8 universitario di qualche tempo fa, due dei quali vicini agli ambienti di Sherwood e rinchiusi a Padova. Non sono certo queste parentesi impegnate a rendere grande una serata che la pioggia prova, inutilmente, a cancellare e che resterà nella memoria di tutti quelli che non avevano mai visto i Subsonica. Per gli altri, semplice routine. 

* foto di Giuseppe Craca
 

domenica 19 luglio 2009

Wilco - Wilco (The Album) (Nonesuch, 2009)


I Wilco arrivano con questo omonimo disco dall'ironico titolo al settimo lavoro, con un gran fardello sulle spalle. Il compito è decidere che strada intraprendere, se esplorare qualcosa di nuovo o adagiarsi sugli allori dei successi passati. Dopo la deviazione leggermente mainstream degli ultimi lavori, questo album si propone di tornare alle origini della band, senza però raggiungerne la vera essenza. Il risultato è comunque buono. Nel dettaglio:

Questo disco è un vero miscuglio di musica d'oltreoceano e d'oltremanica, elaborato in maniera genuina come pochi se ne vedono ancora. Contiene le influenze del pop d'oltreoceano, del rock più commerciale, e di alcuni rami del prog; ci troviamo Neil Young, ad esempio, ma anche Bob Dylan, i Beach Boys, e cambiando continente, i Beatles e i Genesis.

Le prime tre tracce del disco, Deeper Down e One Wing soprattutto, ci fanno subito capire di che pasta sono ancora fatti questi musicisti, e tra il pop complesso e il rock citazionale vecchio stampo arriviamo a Bull Black Nova, bel pezzo che tratta la tematica dell'omicidio in maniera “onirica”, giocando sul contrasto musica/parole e combinando melodie più “divertite” ad altre più introspettive e dai toni scuri. Le sorprese continuano con la distesa You And I (featuring con Feist), una beatlesiana Everlasting Everything e soprattutto You Never Know, altro viaggio nel passato molto riuscito.

Il rock degli Wilco non scherza. Variopinto e multiforme, supportato da una tecnica sopra le righe (da apprezzare particolarmente le chitarre che a volte sembrano rincorrersi, creando un effetto di disorientamento sonoro evidentemente difficile da riprodurre) e da testi a volte divertenti ed altre più intimistici, referenziale quanto basta, e non da ultimo autocompiacente. Gli ingredienti per un bel disco ci sono tutti e il modo di disporli all'interno di questo lavoro non dispiaceranno certo gli amanti di tutte le band citate, anche se mancano le novità per chi ha già assaporato e gradito tutta la loro produzione passata, alla quale sono forse troppo legati.

In ogni caso un disco piuttosto interessante, consigliato ai fan per una conferma e ai nuovi ascoltatori per una sana iniezione di rock “classico” suonato da una band del 2000.

Voto: 7+

giovedì 16 luglio 2009

The Prodigy Live @ Sherwood Festival 15 Luglio 2009


Un'ora. Solo un'ora. Questo è il commento uscito dalle bocche di tutti finito il concerto dei Prodigy. Parto subito dall'unico difetto per poi descrivere appieno le emozioni e la musica di questo breve set dei ragazzi di Braintree.
Un live show dei Prodigy è imperdibile. Più che luci, fulmini rossi e gialli che annebbiano la vista. Più che musica, martellate ed impulsi di potenza assurda che scaraventano i corpi delle migliaia di persone arrivate per i cinque inglesi uno contro l'altro. Discotecari e metallari insieme, con una voglia di divertirsi che poco ci si aspettava dopo tutti questi anni di attività, creano con incitazioni molto frequenti una sinergia con il pubblico che prorompe in un'energica dimostrazione di come i giovani italiani sappiano come comportarsi ai concerti. E tra donne seminude, un pogo lacerante e le orecchie che fischiano, veniamo alla musica.
Sedici i pezzi proposti, aprendo con World's On Fire e Breathe, passando poi per i successi del passato, Firestarter, Smack My Bitch Up e Voodoo People (la migliore in concerto insieme alla recente Run With the Wolves, con il suo pulsare “davegrohliano” che infatti partecipa sul disco proprio in questa traccia), fino ai singoli dell'ultimo disco, Omen e Invaders Must Die. A coinvolgere sono le melodie di synth ed i ritmi serrati del batterista, e se alla fine non si può parlare di maestria o di bravura tecnica, a farla da padroni sono proprio gli elementi “ballabili” che rendono il concerto fisico come pochi.
Alla fine un gran concerto che lascia con lividi e fischi nelle orecchie, proprio come i cinque britannici hanno sempre dimostrato di saper fare in maniera unica. Esperienza indimenticabile e consigliata. 

* foto di Giuseppe Craca
 

domenica 12 luglio 2009

The Mars Volta - Octahedron (Warner Bros., 2009)

Facile ascoltarli. Adesso.

Qualche tempo fa i Mars Volta erano considerati un gruppo per pochi. "Progressive" li, e si, definivano. Cosa ci dice di nuovo questo lavoro? A metà tra la riproposizione di uno stile già cementato dal veloce susseguirsi di dischi di questa iperproduttiva band e la ricerca di nuove vie più "borghesi" ed easy-listening, questo disco è un prodotto dall'alto valore artistico e con sonorità molto diverse tra loro.

Il pezzo d'apertura Since We've Been Wrong estende a 7 minuti di durata il tipico lento tormentone, con un lavoro che potremo definire egregio, e che si presenta come un'ulteriore sperimentazione, in positivo, di quella via intrapresa con altri brani melodici come la vecchia “The Widow”. I soliti Mars Volta sono quelli di Teflon, del singolo Cotopaxi e di Halo of Nembutals . Niente novità, canzoni melodiche ma dotate di riff particolari e l'ottima voce di Cedric Bixler-Zavala che stupisce sempre, anche se la dimensione dell'acuto che dopo lo scioglimento degli At The Drive In sembra averlo ipnotizzato inizia a suonare ripetitiva. Ottimo il songwriting. Forse troppo lunghe ma di notevole interesse le due ballate psichedeliche With Twilight As My Guide e Copernicus, entrambe lunghe più di sette minuti ma molto interessanti. Musica d'atmosfera con un tiro notevole. Parte tale e quale a queste due il pezzo conclusivo Luciforms, per poi gettarsi prima nel solito pezzo alla MV e poi in uno spreco di tecnica finale che comunque si possono permettere, non chiamandosi Dreamtheater (quelli del 2009, si intende).

Ottima la produzione, in linea con i loro lavori precedenti (anche se forse c'è una pulizia leggermente minore a livello di batteria, e questo non è necessariamente un difetto), ed anche la tecnica di questi ragazzi. E non è una novità, sappiamo tutti di cosa sono capaci (compare anche Frusciante degli RHCP anche se la sua presenza è piuttosto marginale per la buona riuscita dei pezzi). Lascia a desiderare la presenza di pochi (otto) pezzi per una durata complessiva di 50 minuti, ma la scelta di fare un album all'anno non poteva certo portare ad altro. Apprezzabile comunque il tentativo di innovarsi, anche se la paura che si stiano spiaggiando su un genere sempre più ripetitivo e sempre meno progressivo è grande.

Ancora un bel disco da questi ragazzi che sicuramente andrà riapprezzato anche in concerto. Ascoltatelo.


Voto: 7-

domenica 5 luglio 2009

Afterhours Live @ Sherwood Festival 4 Luglio 2009



Supportati dal sempre valido Vasco Brondi, che con 5 canzoni aiutato da violoncellista/chitarrista rumorista e Rodrigo d'Erasmo degli Afterhours al violino, riempie una mezz'oretta piuttosto godibile nonostante la pioggia e gli ombrelli tutti aperti che coprono il palco tra gli insulti dei più incazzosi.
L'attesa non è troppa, e Manuel Agnelli sale sul palco da solo. Al piano esegue una Dove si Va da Qui, tratta dall'ultimo disco, piuttosto bene, con l'esplosione finale aiutata dall'ingresso degli altri membri (e un sostituto di Dell'Era ammalato al basso). Non c'è tempo per tanti convenevoli e parte Il Paese E' Reale, il pezzo sanremese, ma l'avevamo già visto in TV, non è uno di quei pezzi che rende particolarmente bene, sebbene un Manuel in forma sembra prendere le note alte senza particolare fatica. Da lì in poi la scaletta prosegue tra alti e bassi toccando numerosi brani del combo melodico Ballate per Piccole Iene/I Milanesi Ammazzano il Sabato (le più riuscite e più coinvolgenti live sono sicuramente Il Sangue di Giuda e Ci Sono Molti Modi, sempre fantastiche), e con veramente pochissime perle dai primi tre lavori. Regalano una bella versione di L'Estate e fanno scoppiare il classico coro del pubblico in Voglio una Pelle Splendida, ma anche in pezzi come Bye Bye Bombay ed E' Solo Febbre. Veramente evitabile la cover di Shipbuilding di Elvis Costello. Concerto tutto sommato completo ma corto rispetto ai loro standard, complice anche la pioggia che non ha lasciato in pace nemmeno i musicisti (e sappiamo che l'umore di Manuel si altera facilmente).
Gli alti e i bassi degli Afterhours c'erano tutti in questo concerto, ma se manca la potenza che negli anni '90 trasudava da ogni nota non manca certo la componente emozionale e sensuale, complici i testi (come Milano Circonvallazione Esterna, Tutto Domani, Sulle Labbra) e l'interpretazione magistrale di un Agnelli tornato in forma dopo il periodo 2006-2007 piuttosto trascurabile per quanto riguarda le performance alla voce. Un pubblico coinvolto sia nei momenti strappalacrime che in quelli più energici di Lasciami Leccare l'Adrenalina non va di certo a casa con l'amaro in bocca, anche se tutti si aspettavano qualche gemma dal primo disco, Germi, che invece è rimasto completamente fuori scaletta. Dal punto di vista tecnico da notare la notevole bravura, anche scenica, del violinista, la sempre potente voce di Manuel e invece il declino continuo di Giorgio Prette non più in forma come ai tempi sebbene dotato di uno stile personale che se cambiato toglierebbe molto agli Afterhours. Un marchio di fabbrica per i suoi ritmi semplici ma dallo stile unico.
Gli Afterhours dopo più di 20 anni di attività sono sempre in forma, ed un concerto vale sempre la pena. Ci si chiede solo se non bisognerebbe rinominarli Manuel Agnelli & gli Afterhours o qualcosa del genere, però restano sempre una delle migliori realtà in Italia. 

* foto di Giuseppe Craca
* video di rdlkino