lunedì 6 ottobre 2008

Metallica - Death Magnetic (Universal, 2008)

Parlare di un album come questo è molto difficile; fiumi di parole sono stati spesi da ogni media prima e dopo l'uscita di questa nuova "fatica" della band di Los Angeles, e probabilmente tra le centinaia di recensioni già fatte ne troverete qualcuna di simile a questa, perchè ho visto le opinioni più diverse riguardo questo disco, alcune molto motivate, altre più generiche e discutibili.

Innanzitutto l'album è stato preceduto da una pubblicità pazzesca per dimensioni e per puntigliosità, che non ha fatto altro che creare un'esposizione esagerata con il rischio di sopravvalutare il risultato prima ancora di averne una più remota idea (come già successe con il precedente scempio, St. Anger). La produzione di Rick Rubin, il quale lavora da anni con artisti del calibro di Slayer, Rage Against The Machine, System Of A Down, Linkin Park (e la lista continuerebbe...), è stavolta (per lui), ancora una volta (per i quattro), discutibile. Il mix dei suoni non regge il confronto con tutti gli album dei Metallica precedenti St. Anger, in quanto troppo pregno di alti, con un'esaltazione esasperata del rullante e della grancassa di Lars, l'affossamento in alcuni punti delle chitarre, troppo poco grezze per suonare aggressive come dovrebbero (e vorrebbero) e una sensazione di "sovraproduzione" che emerge un po' dappertutto, soprattutto dalla voce (che raggiunge note che il vecchio James si sogna da anni) e dalla batteria. In sintesi, un album estremamente "prodotto" (nel senso negativo del termine) e con un mix di suoni che più che potenziare il risultato, tende a deviarlo dal suo percorso originario, quello che i 'Tallica avevano chiamato "un ritorno alle origini". Come ben si può immaginare, dell'aggressività e del furore degli anni '80 non c'è traccia.

Parliamo ora delle canzoni. Troviamo quindi alcune sorprese e alcuni buchi nell'acqua; le 10 canzoni contenute in Death Magnetic hanno tutte due cose in comune: la mancanza di originalità e l'orecchiabilità. Nonostante questo è evidente uno sforzo piuttosto possente di produrre qualcosa di diverso rispetto a tutto ciò che i quattro hanno partorito dal Black Album in poi, salvo poi finire nella più bassa e vistosa scopiazzatura di alcuni dei pezzi che li hanno resi celebri. Le due canzoni più veloci, che come da copione aprono e chiudono l'album ("That Was Just Your Life" e "My Apocalypse") devono quasi tutto alle vecchie e sempreverdi "Battery" e "Damage Inc"., dalle quali in alcuni frangenti prendono liberamente anche alcuni riff. I due pezzi sono entrambi molto trascinanti, anche se il primo batte di gran lunga il secondo per originalità e struttura. Il pezzo, nonostante la lunghezza, è travolgente, e non annoia, risultando, tra l'altro, la canzone più interessante dell'intero disco. My Apocalypse è invece una semplice macchietta-sfogo alla fine del CD per fingere di essere ancora "quelli che pestano", salvo poi presentare alcune evidenti pecche come una ripetitività al limite dell'assurdo e un Lars che si distrugge le articolazioni pur di eseguire un tempo che non sa più fare. Rimane comunque un pezzo passabile. Le altre canzoni risentono tutte della troppa lunghezza (la più corta dura 5:01 ed è proprio My Apocalypse) anche se i 6 minuti e 26 di Broken, Beat And Scarred, pezzo molto buono anche se sembra uscito da una raccolta di pezzi scartati da St. Anger, scorrono via piacevolmente. La durata è un artificio che i Metallica non sanno più gestire, producendo infatti canzoni che scadono nel ripetitivo e molto più frequentemente nell'ambiguo, con continui cambi e passaggi che non portano da nessuna parte. E' proprio questo a rendere insufficienti canzoni potenzialmente belle come All Nightmare Long, Cyanide e The Judas Kiss, distrutte da una sovrabbondanza di riff e di durata che distraggono dall'unica cosa veramente "azzeccata" di questi pezzi: i rispettivi ritornelli, tutti molto orecchiabili e originali. I due pezzi melodici, primo singolo e probabile secondo, sono molto interessanti, anche se più che mai banali: The Day That Never Comes, primo estratto (condito da un video assolutamente incolore), è una canzone puramente commerciale, ma tutto sommato godibile, che spiazza con il suo finale frenetico e con la cantabilità del ritornello. Peccato per l'arpeggio quasi identico a quello della storica "Fade To Black". The Unforgiven III, criticatissima ancora prima di uscire, è un brano piuttosto insapore, sia per la struttura che per le melodie, anche se all'orecchio di molti risulterà la canzone più bella dell'album (parlo degli innumerevoli "fans" di Nothing Else Matters et similia). Lascio volutamente alla fine il pezzo strumentale che sinceramente non mi ha convinto, Suicide And Redemption: molti attribuiscono la scarnezza del brano all'assenza di Burton, che ha forgiato grandi pezzi come "Orion" e "The Call Of Ktulu" (indimenticabili cavalcate epiche del periodo migliore dei Metallica), ma parlerei più di un'assenza di innovazione e di creatività. Il pezzo è scorrevole per i primi 4 minuti dopodiché perde di drammaticità ed epicità, risultando una semplice canzone strumentale che sarebbe salvata solo da un cantato azzeccato che difficilmente potremo sentire dall'Hetfield quarantacinquenne di Death Magnetic.

Il difetto principale della parte "suonata" di questo album è sicuramente la batteria. Lars Ulrich ha perso smalto, lucidità, capacità, fantasia, groove, stile. Tutto ciò di cui un batterista ha bisogno; non troviamo nessuno spunto creativo nelle linee di batteria (e per fortuna che doveva essere la prosecuzione del fastoso "...And Justice For All"), e soprattutto avvertiamo esplicitamente la mancanza della doppia cassa proprio lì dove sarebbe più azzeccata, salvo poi udirla in piccoli siparietti clamorosamente evitabili. In 3 parole: il nuovo Lars. Per il resto, troviamo un Hetfield "voce bianca" che ha avuto bisogno di tonnellate di effetti per sembrare intonato, sempre più tamarro ma abbastanza originale, buono anche alla chitarra; un Trujillo incredibilmente sottovalutato, e un Hammett rinverdito, graffiante e, come sempre, dipendente dal wah-wah. Laddove i riff risultano taglienti e potenti al punto giusto, gli assoli sembrano scarichi e mal calati nel contesto delle canzoni. A poco serve l'arrangiamento di archi e piano all'inizio di The Unforgiven III, salvo citarne gli usi migliori che abbiamo sentito nel bellissimo live S&M del 1998.

Cosa possiamo dire alla fine: questo disco mette ancora il quartetto losangelino sotto i riflettori, e ancora una volta sono le luci della controversia ad abbagliarli. Bello per alcune cose, pessimo per altre. Potente per alcuni aspetti, scarno per altri. Il mio voto è un sei di fiducia ad un album che risulta comunque ascoltabile, sebbene molto difficile da metabolizzare. In sintesi, pesante ma salvabile. La carica magnetica dei Metallica è proprio morta...

Voto: 6-

mercoledì 27 agosto 2008

King Crimson - Starless and Bible Black (Island, 1974)


Quinto album dei King Crimson, Starless and Bible Black è il secondo disco, dopo Lark's Tongue in Aspic del '73, a testimoniare le gesta della terza formazione del gruppo, con John Wetton (basso e voce), Bill Bruford (batteria e percussioni) e David Cross (violino, viola) ed ovviamente Robert Fripp (chitarre e mellotron), abbandonati però dal percussionista Jamie Muir. La band prosegue l'ardito discorso sull'improvvisazione cominciato nell'album precedente, e per renderlo ulteriormente spontaneo registra la maggior parte delle tracce dal vivo, arrichendole poi in studio con eventuali parti vocali o minimali aggiunte. Non ostante questo, SABB appare subito come un lavoro più accessibile del suo predecessore (e del suo successore, il difficile Red), particolarmente in dote di un lato dell'album, il primo, caratterizzato da brani più brevi ed assimilabili, in contrapposizione con il secondo lato, costituito da due lunghe ed estreme improvvisazioni strumentali.

Anzitutto, va detto l'esperimento risulterebbe solo in parte riuscito. Alcuni dei brani sono praticamente inesistenti: We'll let you know, registrata a Glasgow, vegeta per quasi quattro minuti di suoni singhiozzanti e percussioni incalzanti (Bruford dimostra, in ogni caso, di aver imparato la lezione del dimissionario Muir) accumulando una tensione che non esplonde mai; il pezzo pare non pervenire a nulla. The Mincer, proveniente da un concerto a Zurigo, è arricchita in studio da una breve parte vocale che poco serve a risollevare le sorti del brano, tenuto insieme da un accompagnamento statico su cui Fripp passeggia senza troppi risultati con i propri effetti chitarristici. La stessa Starless and Bible Black , parte di una data al Concertgebouw di Amsterdam e prima delle due composizioni del secondo lato, incorpora tutti i difetti delle tracce precedentemente citate e li proietta per nove minuti e dodici secondi; ancora una volta si tratta di qualcosa che avrebbe potuto essere adatta alla sede concertistica (ed infatti da dei live vengono queste tracce!) ma fissata su disco perde quasi del tutto significato, anche perchè non si tratta esattamente di un'improvvisazione riuscitissima.

Per fortuna quelli finora nominati sono gli unici casi "irrecuperabili". Vi sono altre due tracce improvvisate, provenienti sempre dagli spettacoli al Concertgebouw, che si trovano totalmente su di un altro pianeta.
Il caso più eclatante è Trio, così intitolata per l'assenza volontaria di Bruford, che non voleva "macchiare" la delicata alchimia del brano; Fripp posa la chitarra per dedicarsi al Mellotron, che s'intreccia in maniera splendida con il violino di Cross (curioso l'intreccio tra archi sintetici ed archi reali), Wetton li segue al basso e dà un'unità alla composizione. E' uno degli strumentali più toccanti e delicati mai eseguiti dal gruppo, e rivela un'intesa perfetta e magica; risulta quasi difficile pensare che il pezzo non sia stato davvero scritto prima di essere suonato.
Fracture (seconda parte del lato 2) pur rimanendo un po' "volatile" come brano trionfa dove Starless and Bible Black aveva fallito, ed è in gran parte merito del chitarrismo frenetico ed anomalo di Fripp, qui impegnato in una delle sue prove più tecnicamente elevate.

A nobilitare il disco vi sono poi le tre canzoni "convenzionali" (per quanto possa esserlo un pezzo dei King Crimson) del disco, che si fregiano di ottime parti musicali affiancate ai notevoli testi di Richard Palmer James, paroliere e chitarrista (fu tra i fondatori originari dei Supertramp) che su questo disco riesce a non far rimpiangere Pete Sinfield.
The Great Deceiver è un'altra occasione per le acrobazie ed i glissando in accordo di Fripp, per una canzone atipica nel tempo e nello sviluppo (si sentano gli stacchi improvvisi, la strofa retta dal solo basso...), impreziosita da un'irriverente lirica sul consumismo, costruita con grande attenzione nel ritmo e nella rima.
Lament parte come una nenia per accordi di chitarra reiterati e mellotron, per poi sfociare in atmosfere più serrate con altri tipici ruvidi suoni Frippiani e giochi percussivi, concludendosi in una frenetica coda in unisono. Il testo è una satira sulla fama, che ben si abbina ad un personaggio particolare come Fripp. Piccola nota: entrambe le canzoni appena descritte sono le uniche del disco ad essere state registrate interamente in studio.
The Night Watch costituisce assieme a Trio il vertice dell'album, la gemma melodica in mezzo a selve di suoni senza compromessi, come Exiles su Lark's Tongue in Aspic e Fallen Angel su Red. Resa immortale da uno splendido testo di Palmer, ispirato al dipinto La Ronde de Nuit di Rembrandt, la canzone si sviluppa in un'atmosfera dolce e soffusa, impreziosita dall'eccezionale lavoro di cesellatura di Fripp, con armonici e fraseggi dilatati. L'assolo a metà del brano (che potrebbe ricordare i coevi esperimenti di Steve Hackett dei Genesis, strumentista che annovera Fripp tra le sue principali influenze) è un piccolo gioiello, uno di quegli intermezzi squisiti come il chitarrista assai raramente ne eseguirà ancora negli anni successivi, concentrandosi unicamente su esperimenti sonori e tecnici.

Tirando le somme, SABB appare come un disco sicuramente non privo di difetti, ma ben controbilanciato da ottimi momenti e segnale di una grande coraggio e volontà di sperimentare da parte degli autori. Lo possiamo considerare come un buon lavoro, sebbene non il migliore del gruppo.

Voto: 8

mercoledì 20 agosto 2008

Ministri - La Piazza EP (Black Out/Universal, 2008)

Nel 2008 in Italia non è uscito solo l'album di Vasco Rossi, ma anche le realtà underground della musica alt-rock italiana si sono fatte sentire. Le Luci Della Centrale Elettrica, gli Amari, i Canadians, l'Eterea Postbong Band, ed infine i Ministri. Queste band stanno da tempo ravvivando il panorama “indie” italiano soprattutto con i loro concerti. Ma veniamo al dunque...questi Ministri. L'EP di recente pubblicazione è un prodotto di ottima fattura. La produzione, non eccelsa ma comunque sopra la media, rende giustizia ad una band che ha ancora molta strada da fare e molto da dire. 4 brani per una durata media di 3 minuti a pezzo, tutti politicamente impegnati anche se non eccessivamente, forse per smorzare un po' i toni dopo il primo album, molto più aggressivo a livello di liriche. E' un album comunicativo, sia come parole che come musica. Vediamolo meglio:

Il trio di “ussari” ci sbalordisce subito con un bel pezzo, l'omonimo La Piazza, che sa un po' di Afterhours dei tempi di Germi, con la voce di Alberto dei Verdena. Ma non è semplicemente con un paragone che si può descrivere questo bel pezzo rock, lento rispetto ai due che seguono, ma molto intenso e con un ritornello molto orecchiabile. Il secondo pezzo, il singolo, Diritto Al Tetto, con un testo che, a detta di Dragogna ed Auteliano intervistati per un giornale, è una denuncia neanche tanto velata contro alcuni provvedimenti della polizia milanese, che avrebbe condannato un senzatetto agli arresti domiciliari su una panchina per poi arrestarlo mentre si era allontanato a defecare. E' cronaca anche questa. Musicalmente la canzone è quasi punk, aggressiva al punto giusto e mai pesante, considerata la durata modesta che lo rende un singolo perfetto. La vera traccia di fuoco è Fari Spenti, con un ritornello bellissimo. Non si allontana da Diritto al Tetto come tiro, anche questa veloce e pesta, ma presenta un testo riflessivo, profondo e molto critico, senza mai diventare politico né avventato negli attacchi diretti che sferra. L'EP si chiude con un pezzo che odora di riempitivo, seppur proseguendo il filone critico nei loro testi e quello aggressivo nella musica, anche se nella seconda strofa notiamo un calo di intensità nelle parole di Dragogna. Molto bello il ritornello di questa Meglio Se Non Lo Sai, orecchiabilissimo soprattutto grazie al tiro pop della linea vocale (ascoltatelo e ditemi se non ricorda Max Pezzali negli 883, ma quelli dei tempi migliori).

Alla fine non c'è molto da aggiungere. I Ministri sono una realtà forte, conosciuta, rispettata. Hanno molto da dire vista anche la giovane età, e considerato che l'energia non gli manca c'è solo da sperare che sappiamo “amministrare” il loro futuro. Ci salveranno?

Voto: 8-

Scars On Broadway - Scars On Broadway (Interscope, 2008)


Dopo molti mesi di attesa è uscito finalmente anche l'ultimo lavoro di Daron Malakian e John Dolmayan, rispettivamente chitarrista/seconda voce e batterista dei System Of A Down, attualmente in “pausa indefinita”. Prodotto da Rick Rubin (che ha già lavorato con Linkin Park, Weezer, Slayer, Rage Against The Machine e decine di gruppi mainstream), questo album non delude le aspettative di molti fans dei SOAD, anche se ha saputo dividere sia la critica che il pubblico.

L'album risulta praticamente l'unione di ciò che hanno fatto i SOAD inventando un genere come tutti ben sappiamo, con uno spruzzo di alternative rock all'americana (quello che parte dai Weezer, contaminato dal grunge, ma che riesce a prendere qualche spunto anche da altri generi come il punk e l'hard rock). A questo riguardo possiamo dire che nell'album si sentono atmosfere nuove ed alcune cose già viste e riviste. I pezzi più interessanti dell'album sono sicuramente quelli meno simili a quanto già sentito con i System Of A Down, anche se l'utilizzo ovvio della voce di Daron porta nuova linfa a un genere che è stato forgiato per la voce di Serj Tankian, anche lui impegnato in alcuni progetti da solista. Ed ecco che l'album inizia con una bellissima Serious, pezzo velocissimo senza un attimo di pausa che ci introduce subito nella potenza e nella pazzia di Daron, che sia come esecutore che come compositore riesce ogni volta ad esternare tutta la sua rabbia. Gli altri pezzi veloci come World Long Gone, Stoner Hate e Exploding/Reloading non dicono nulla di nuovo, anche se sostanzialmente rappresentano il continuato del lavoro da compositore che Daron svolgeva nei SOAD. Bei pezzi, trascinanti anche considerata la breve durata (14 canzoni su 15 durano meno di 210 secondi). Belle Funny e Kill Each Other/Live Forever, due pezzi che iniziano come pezzi puramente da SOAD (inevitabile il continuo paragone) ma che poi trovano qualche spunto creativo nei rispettivi ritornelli e nei passaggi di batteria di John. Le canzoni più lente risultano invece molto apprezzabili, soprattutto Insane, 3005, Whoring Streets e 3005, di cui le prime due sono le più belle. Tutte e 4 hanno una struttura simile (eccezion fatta per la terza citata, Whoring Streets) che ricalca molto da vicino quello che sentivamo nel quartetto armeno in pezzi come "Aerials", "Holy Mountains" e "Lost In Hollywood", ma risultano scorrevoli, piacevoli e mai noiose. I due pezzi più belli dell'album in quanto ad originalità sono sicuramente Enemy e Babylon, il primo per l'originalità dei riff e della struttura (nella quale spunta anche un vecchio giro già cantato da Daron nei concerti del 2001 con i System), la seconda per l'orecchiabilità di tutta la canzone. Anonima ma curata è invece Cute Machines, un pezzo più che discreto che non stona all'interno di questo pezzo ma che forse meritava una lunghezza maggiore per poter comunicare di più. Entrambi pezzi molto ben costruiti, ma una nota di merito particolare va anche ad Enemy, possibile secondo singolo dell'album. Canzoni discrete ma molto banali nella struttura sono il singolo, They Say, praticamente basato interamente su un riff e due giri di batteria, e Chemicals, secondo estratto ad apparire su MySpace prima della release del disco, un pezzo con una base elettronica nella quale fa breccia poi un ritornello potentissimo. Carina, ma troppo scontata, ed è forse la canzone in cui la voce di Daron pecca di più.

Fatto questo essenziale track by track in cui tutti i pezzi risultano sopra la sufficienza, parlerei un attimo dei testi, forse pecca dell'album, al contrario della produzione, che è eccellente (Rubin e Malakian ci sanno fare, e questo già lo sapevamo). Le liriche di Daron sono molto banali, spesso basate su poche frasi a canzone, e lasciano spesso spazio a “fuck” gratuiti che sanno molto di giovane ribelle, e che non sono per niente azzeccati in alcuni dei pezzi. Punto negativo anche per la copertina, visto che il padre di Daron è un artista (Vartan Malakian) ed ha già prodotto copertine artisticamente molto interessanti per i SOAD non lo vedevo come una brutta alternativa a questo obbrobrio visivo.

Che dire...l'assenza di Serj Tankian in questo album si sente, soprattutto perchè le qualità canore di Daron non si avvicinano neanche minimamente a quelle dell'ormai quarantenne cantante dei SOAD, ma se dobbiamo guardare con occhio critico ciò che questo album voleva essere, forse questo è un punto a favore, poiché avremo in quel caso avuto un ennesimo album dei SOAD (forse ciò che avrebbero gradito i fan), invece abbiamo avuto un lavoro nella media, ben prodotto, fresco, compatto ed innovativo. Pollice (cicatrizzato) alzato.

Voto: 7,5

martedì 19 agosto 2008

AAVV - Maiden Heaven: A Tribute To Iron Maiden (Kerrang, 2008)

Sarò sincero, non sapevo come recensire questo album in quanto si presenta in una forma un po' inconsueta per una recensione, però alla fine ho optato per un track by track molto semplice e veloce. Ma diciamo prima cos'è questo album. L'ennesima compilation tributo? Si, in effetti è proprio questo. Allora cos'ha di particolare? Beh, molti dei migliori gruppi metal degli ultimi tempi e alcuni elementi storici della scena che reinterpretano a loro modo i classici degli Iron Maiden. Alla fine basta per dargli almeno un ascolto, no? E magari ci scappa anche la sorpresa.

Ecco la tracklist:
1. Black Tide - Prowler
2. Metallica - Remember Tomorrow
3. Avenged Sevenfold - Flash Of The Blade
4. Glamour Of The Kill - 2 Minutes To Midnight
5. Coheed and Cambria - The Trooper
6. Devildriver - Wasted Years
7. Sign - Run To The Hills
8. Dream Theater - To Tame A Land
9. Madina Lake - Caught Somewhere In Time
10. Gallows - Wrathchild
11. Fightstar - Fear Of The Dark
12. Machine Head - Hallowed Be Thy Name
13. Trivium - Iron Maiden
14. Year Long Disaster - Running Free
15. Ghostlines - Brave New World

Seguirò più o meno l'ordine, dando più risalto a quelle che secondo me sono le cover più azzeccate della compilation. La tracklist si apre con una bellissima Prowler interpretata a dovere dai Black Tide, rivelazione proprio di questi ultimi tempi. Gabriel Garcia, classe 1993, ci dimostra gia adesso cosa potrà fare con la sua voce, ben impostata e mai fredda, nel corso degli anni, interpretando perfettamente i difficili versi di Paul DiAnno. Promossi anche i Metallica, band ormai sempre più controversa e criticata. La voce chiaramente modificata di Hetfield sostiene comunque un pezzo coverizzato a dovere, nonostante vedessi meglio altri pezzi per una cover dei 'Tallica. La ballata Remember Tomorrow è qui trasformata dai quattro nel loro tipico pezzo hard rock della nuova era (diciamo come Fuel e The Unforgiven II), ma con dei bei suoni (niente a che vedere con St. Anger). Unica nota di demerito la piattezza di Lars Ulrich, che non si avvicina neanche minimamente agli ottimi Clive Burr (esecutore originale) e Nicko McBrain. Carina, anche se non particolarmente, la cover di Flash Of The Blade eseguita dagli Avenged Sevenfold, prima band finora ad aver preferito mantenere il pezzo praticamente identico, se non nei suoni di chitarra. Una cover mediocre ma che non stona nel contesto della compilation. Discreta anche se con un arrangiamento piuttosto superficiale la cover dei Glamour Of The Kill, che si cimentano con 2 Minutes To Midnight, grande pezzo dal quarto album dei Maiden, Powerslave. Niente da aggiungere. Una cover passabile. Bel lavoro invece per i Coheed And Cambria, band che sia in passato che recentemente ha mostrato i denti, con album graffianti e freschi. La cover di The Trooper è eseguita in modo magistrale dal punto di vista della tecnica (anche se Nicko McBrain rimane una spanna sopra tutti i batteristi che hanno suonato in questo disco, sarà forse l'effetto di sentire le sue canzoni suonate da altri, ma il groove dei pezzi di Nicko in molte di queste cover, compresa quella dei C.A.C., è fortemente assente), e la voce di Claudio Sanchez si adatta perfettamente allo stile della canzone. Non proprio azzeccate le due cover successive, Wasted Years fatta dai Devildriver e Run To The Hills rivista dai Sign. Entrambe le canzoni sono state riarrangiate alla bell'e meglio, con un riguardo particolare ai riff di chitarra, che sono stati resi sì piu taglienti, ma che risultano ciononostante meno incisivi. Inoltre, se Zolberg dei Sign riesce ad imitare piuttosto bene il timbro di Bruce, Dez Fafara si chiude invece in uno screaming fuori contesto, che finisce subito per annoiare. Seguono To Tame A Land e Caught Somewhere In Time, eseguite rispettivamente dai DreamTheater e dai Madina Lake. Ovviamente le canzoni sono state eseguite in modo perfetto, rispettando ogni parte, anche se il suono un po' troppo metallico che ormai contraddistingue gli ultimi album dei Dreamtheater qui un po' sembra stonare. Caught Somewhere In Time è forse la canzone che più si allontana dalla versione originale, risultando originale soprattutto negli arrangiamenti e nella voce di Nathan. L'hardcore punk dei Gallows trasforma invece una Wrathchild che ormai siamo abituati a sentire da anni nei concerti dei Maiden. Niente da dire se non che il tiro più punk che i cinque musicisti inglesi hanno conferito alla canzone risulta perlomeno innovativo, e piacevole all'ascolto (nonostante l'assenza del famoso urlo nella parte centrale). Dall'hardcore punk dei Gallows al post-hardcore dei Fightstar, che registrano una Fear Of The Dark molto fresca e pungente. La voce profonda di Charles Robert Simpson rende la canzone più appetibile. Dal punto di vista della tecnica niente da dire, se non che la canzone è stata eseguita molto bene, con qualche riff più "pestato" che, visto chi ha suonato il pezzo in questa compilation, ci stava. I grandi Machine Head eseguono magistralmente Hallowed Be Thy Name, forse il pezzo che potevano suonare meglio tra tutti quelli scelti per questa compilation. La voce e i musicisti si calano perfettamente nell'atmosfera Maiden, anche se chiaramente hanno preferito mantenere le loro sonorità. Unica nota dolente il suono della chitarra, in alcuni punti missata in modo imperfetto. Belle anche le parti urlate, che non rovinano assolutamente la canzone. Ottima Iron Maiden, eseguita dai Trivium, incredibilmente carichi (avevamo gia sentito un'ottima cover di Master Of Puppets nel cd di tributo ai Metallica), riarrangiata completamente in un pezzo speed/thrash dove la voce grattata ci sta tutta. Un'ottima rivisitazione. Running Free, rivisitata dagli Year Long Disaster, band resa celebre grazie a un tour mondiale con band di spicco come Motorhead, Foo Fighters e Velvet Revolver, è il pezzo eseguito in modo più simile, soprattutto per i suoni, anche se chiaramente non ci si deve aspettare nulla, vista la sostanziale differenza di genere. L'album si conclude con Brave New World, unico brano recente della compilation, suonata dai Ghostlines, band inglese che spazia tra l'alternative e l'elettronica. Il brano alla fine è più che discreto, anche se profondamente diverso dall'originale, con un loop a fare da batteria e il tema sostituito da un piano.
Cosi si conclude una compilation molto buona, nella quale non si può tenere di certo conto dell'originalità, ma della quale possiamo solo parlare bene vista la competenza dei gruppi interpellati. Tutti i pezzi sono eseguiti bene, e nessuno sembra sforzarsi per eseguire la cover corrispondente (eccezione fatta per i DevilDriver, come detto sopra). Per questo motivo consiglio l'ascolto a tutti i fan dei Maiden, anche se so che i più affezionati non apprezzeranno i riarrangiamenti troppo radicali come quello dei Ghostlines e quello dei Trivium, ma che invece appaiono come particolari note di merito in una compilation che altrimenti sarebbe stata pura ostentazione di tecnica. Per il resto...up the irons!

Voto: 7.5

lunedì 18 agosto 2008

Captain Beefheart and The Magic Band - Shiny Beast (Bat Chain Puller) (Warner Bros, 1978)

Ogni volta che mi trovo ad ascoltare Captain Beefheart mi stupisco di quanto fosse avanti nei tempi quell'uomo. L'uscita di questo disco è stato un vero e proprio recupero e ritorno all'attività. Gli ultimi 4 anni per Beefheart non erano stati proprio i migliori. Infatti la casa discografica, pensò che Don Vliet (il vero nome di Capitan Beefheart) fosse un artista poco commerciale (e non a torto!) e volle tentare di trasformarlo in tale. Il primo di tali album ("Unconditionally Guaranteed"), ci fece conoscere una versione del Capitano differente dal solito: mieloso, sdolcinato, quasi irriconoscibile (con la sola eccezione di "Upon The My-O-My").

Beefheart lo stesso anno tentò di mischiare il suo amato blues alla musica mainstream con un secondo album, "Bluejeans & Moonbeams". Questo lavoro al contrario del precedente era piuttosto buono, ma il Capitano non si riconosceva per niente, e lui stesso fu molto deluso da tale lavoro, tanto da non organizzare nemmeno un tour. Oltrettutto a complicare la vita del Capitano si aggiunsero dei problemi contrattuali, che praticamente lo bloccarono.

Captain Beefheart, al che si rappacifico con l'amico Frank Zappa (con il quale aveva avuto qualche diverbio anni prima), il quale tentò di tirarlo fuori dai guai portandoselo in tour. Per questo specifico tour Zappa scrisse alcune composizioni per lui, e Vliet ne portò di nuove. Il risultato venne pubblicato sul live album "Bongo Fury", ed è qualcosa di straordinario, sentire due vecchi amici suonare e divertirsi, entrambi con la stessa passione per la musica e per le armonie atonali. Nel 1976 Captain Beefheart iniziò le registrazioni per un nuovo album ("Bat Chain Puller") prodotto appunto da Zappa, ma i problemi contrattuali saltarono fuori di nuovo. La Virgin infatti bloccò la produzione dell'album (che resta tutt'oggi inedito) e limitò la stampa di "Bongo Fury" solo per l'America. Il Capitano a tal punto si arrese, e per due anni scomparve.

Finché nel 1978 non decise di alzare la testa, riformare la sua Magic Band con nuovi musicisti (tra cui il fenomenale Walt Fowler al trombone), recuperare qualche pezzo di "Bat Chain Puller" (dovendo però ri-registrarlo per problemi contrattuali) e comporne qualche nuovo. Il risultato è questo album, una vera e propria manna dal cielo, acclamatissimo dai fan e dalla critica, i quali videro l'attesa rinascita artistica di Vliet, nella quale pochi ormai speravano.

"Shiny Beast (Bat Chain Puller)" trionfa laddove "Unconditionally Guaranteed" fallisce. La musica qua è relativamente accessibile per lo stile di Vliet, ma allo stesso tempo non perde lo stile tipico del Capitano. L'apertura di "The Floppy Boot Stomp" mostra subito di cosa parlo. Bizzarro? Certamente! Trascinante? Anche!
La seguente "Tropical Hot Dog Night" è ancora meglio, soprattutto per il testo.
Che dire poi delle acrobazie strumentali di "Suction Prints" e "Ice Rose"? (Quest'ultima poi con il beneficio di Arthur Tripp alla marimba, uno degli ex-batteristi di Captain Beefheart).
"Candle Mambo" sembra una reprise revisionata e migliorata della title-track di "Bluejeans and Moonbeams", mentre "Love Lies" è un brano d'amore, ma diverso da quelli incolori di "Unconditionally Guaranteed": lento, letargico, trascinato e cantato con una splendida voce roca. Mentre "You Know You're A Man" si rifà un po' al punk, ovviamente visto dal punto di vista del Capitano.
"Harry Irene" è un brano assolutamente unico, molto jazzato, in stile un po' ballata Francese. Qualcosa di assolutamente originale e che allo stesso tempo non ci si aspetta per niente da Beefheart, che però allo stesso tempo risente molto della personalità del suo autore.
Comunque a mio parere il momento più alto del disco lo si raggiunge con "Owed t'Alex" (inizialmente intitolata "Carson City"), che addiritura contiene una sezione centrale che anticipa qualche sonorità tipica degli anni 90.

Direi che se volete avvincinarvi al lavoro di Captain Beefheart, questo album è sicuramente il più indicato, assieme al seguente "Doc At The Radar Station", che seguì egregiamente le orme del predecessore.

Un'ultima cosa su Captain Beefheart. Cercando in internet, ho trovato qualche recensione che parlava di lui come di un Frank Zappa dei poveri. Zappa è l'artista che adoro sopra ogni altro, ma credo che facendo un tale paragone si dimostra di non conoscere né la musica di Zappa né tantomeno quella di Vliet. Entrambi sono (erano, Zappa ci ha lasciati nel 1993, e Vliet ha smesso di suonare da circa il 1981, per dedicarsi alla pittura) dei geni, entrambi sono due artisti estremamente bizzarri e difficili da capire, ma in maniera diversa.
Zappa non avrebbe mai potuto fare un disco come "Safe As Milk" o "Lick Your Decals Off, Baby", così come Captain Beefheart non avrebbe mai potuto fare "Joe's Garage" o "You Are What You Is".

Voto: 10

domenica 11 maggio 2008

UK - Danger Money (E.G., 1979)

Il supergruppo "UK" si era formato appena un anno prima. La formazione per il primo disco era qualcosa di straordinario: John Wetton (basso, voce), Allan Holdsworth (chitarra), Eddie Jobson (tastiere, violino) e Bill Bruford (batteria).
Dopo il tour successivo alla incisione del primo disco, Bruford abbandona per proseguire la sua carriera solista, portando con se Holdsworth.
Wetton e Jobson decidono di non prendere un chitarrista e assoldano l'americano Terry Bozzio, una scelta fantastica.
Questa nuova line-up a tre registra il suo secondo (e ultimo) album in studio. Le traccie contenute in questo album, se vogliamo, sono più semplici rispetto ai lavori contenuti nel loro primo lavoro, ma non per questo risultano inferiori.
Anzi, a mio avviso questo disco è ancora meglio di "UK", e Bozzio è un batterista spettacolare.
La title-track apre il disco, e dopo un maestoso intro di batteria e sintetizzatore inizia il brano vero e proprio: un rock con ritmo irregolare e una splendida linea vocale. "Rendevous 6.02" uscì anche come 45 giri, ed è una splendida ballata, dominata dal sognante piano di Jobson.
"The Only Thing She Needs" ci ricorda le composizioni del primo album (infatti fu scritta durante il tour del medesimo), e ci offre una bellissima performance batteristica di Bozzio.
"Caesar's Palace Blues" è un tour de force di Jobson al violino, che riesce a sostituire egregiamente la chitarra, e "Nothing To Lose" è una cavalcata che rievoca perfettamente le immagini del testo ("I got to run for my life...").
Siamo arrivati alla sesta e ultima traccia, un capolavoro. Un brano di 12 minuti e 20 secondi. Un brano che se fosse stato scritto nei primi anni 70 sarebbe stato ricordato come un capolavoro del progressive. Sto parlando della bellissima, evocativa "Carrying No Cross": la storia di un soldato che si perde in un accampamento nemico e si rende conto di quanto sia inutile la guerra.
L'apertura è affidata ad un intro di sintetizzatori che termina bruscamente, per lasciare spazio ad una triste (ma non lagnosa) parte vocale. Tutto questo finisce dopo qualche minuto, e inizia un intricata parte centrale, che dimostra che gruppi come Dream Theater o Tool, per quanto bravi siano, non hanno inventato nulla di nuovo. Il brano infine termina con una reprise della parte vocale.
Un disco veramente eccellente, da avere!

Dopo di "Danger Money", la band pubblicò un ottimo live album registrato in Giappone, intitolato "Night After Night", nel quale erano presenti anche due inediti. Dopo qualche mese di tournée, gli UK pubblicarono un 45 giri (entrambi i brani inediti su CD): il lato A conteneva una versione ri-registrata di "In The Dead Of Night" e il lato B un brano di Wetton, intitolato "When Will You Realize".
Quest'ultimo brano era un po' troppo catchy per gli standard del gruppo e gli UK decisero di prendersi una pausa riflessiva. Purtroppo però ognuno prese una strada differente (Wetton formò gli Asia, Bozzio entrò nei Missing Persons e Jobson si aggregò ai Jethro Tull) e il progetto UK finì lì.
Nel 1997 si parlava di "Legacy", un album reunion che avrebbe dovuto avere tutti i membri degli UK (Bruford, Wetton, Bozzio, Jobson, Holdsworth) nonché musicisti come Jeff Beck e Tony Levin come ospiti, ma non se ne fece più nulla.
Attualmente Jobson sta registrando un nuovo progetto (intitolato "UKZ") che dovrebbe perseguire la strada originale degli UK, anche se lui è l'unico membro rimasto.

Voto: 8.5

mercoledì 7 maggio 2008

The Raconteurs - Consolers Of The Lonely (Warner Bros., 2008)

Seconda prova in studio per i Raconteurs di Jack White (leader dei White Stripes) e Brendan Benson (ex Greenhornes). Dopo un primo album veramente rock'n'roll, con pezzi rock da hit parade come "Steady As She Goes" e "Hands", così come canzoni più studiate e più classiche del calibro di "Intimate Secretary", i the Raconteurs si ripresentano, forti del successo del primo lavoro e con alle spalle un nutrito numero di fan (in parte lo stesso degli Stripes) e un bel gruzzoletto grazie ai singoli ed alla tournee. Quello stesso gruzzoletto gli permette ora di registrare un album per niente superficiale a livello di suoni, con una produzione eccellente, con le sonorità tipiche del rock americano (in qualche frangente possiamo accostare i suoni ai lavori dei White Stripes, dei Foo Fighters e anche dei Juliette Lewis and The Licks, anche se c'è ovviamente una differenza stilistica notevole).

Caliamoci nell'album: mi permetto di bollarlo subito come una conferma del feeling che unisce il gruppo a livello compositivo, un feeling che permette una commistione di indie, blues, garage e alternative rock di stampo americano riuscita come poche. E' solo quel feeling può produrre ottimi pezzi come il singolo "Salute Your Solution" e la title-track in apertura "Consoler Of The Lonely", che eleggo futuro probabile estratto e forse il pezzo più bello dell'album per il lavoro sui suoni, i riff aciduli ma catchy, il cantato che rassomiglia molto a quello dei White Stripes ed un velato spirito blues. Il singolo non va molto distante da quelle canzoni stile "Hands" con i quali ci hanno abituato i The Raconteurs del primo album ed è veramente notevole il lavoro alla chitarra, con riff costruiti in modo da seguire la voce e da creare melodie che non faticano per niente a rimanere in testa. Lavoro riuscito. Dopo un’apertura ottima troviamo "Old Enough", che sembra un pezzo dei Beatles messo nel frullatore assieme a qualche disco di folk e country americana, anche se il cantato ci riporta subito con i piedi per terra. Stiamo ascoltando un album dei Raconteurs. Apprezzo particolarmente la struttura di "The Switch And The Spur", un pezzo studiato ma forse uno dei meno incisivi, insieme a "Top Yourself ". Trascinato e trascinante (gioco di parole voluto, eheh) è invece "Hold Up", il quale però non si classifica tra i migliori. “Five On The Five” e “Many Shades Of Black” sono pezzi carini ma nulla più. “Attention” è un bel pezzo rock’n’roll con influenze punk, ricorda un po’ i nostrani Tre Allegri Ragazzi Morti, anche se chiaramente il gruppo di Toffolo ha un indole più adolescenziale rispetto ai quattro americani, più maturi. L’impianto blues di “Rich Kid Blues” (il nome non l’hanno scelto a caso a quanto pare) rende la canzone per nulla ingenua, un pezzo godibile fino all’ultimo secondo e che fila liscio tra gli scorci melodici di voce e gli arpeggi di chitarra alternati a momenti blueseggianti intensificati dal suono granuloso, quasi grunge della chitarra distorta. “These Stones Will Shout” è un pezzo compatto, che si presenta come un crescendo molto disteso, oltre 2 minuti di voce accompagnata solo da chitarra acustica e basso che va via aggiungendo spessore prima di partire con la batteria fino alla fine del brano, creando un effetto di inseguimento che sinceramente trovo meritevole.

I due pezzi più calmi, "Pull This Blanket Off" e "You Don't Understand Me" riprendono il pop americano di tanti cantautori e sono alla fine orecchiabili ma niente più. Nel complesso sufficienti.

Conclude l’album la semi-ballata “Carolina Drama”, con un inizio che mi dispiace ricondurre ancora una volta ai White Stripes già citati, ma il paragone è innegabile. Lo stile di White non è molto labile. Nel complesso anche questa canzone si presenta come una canzoncina ballabile, un lento cantabile che però sembra non prendere mai il volo. La calma voluta che lo domina sembra distendere troppo la canzone, che alla fine risulta ridondante nonostante la sua struttura lineare e semplice.

Ora facciamo un piccolo passo indietro. Il track by track dimostra che i pezzi veramente buoni sono pochi, ma nulla lascia intendere che tra i quattordici brani che compongono questo album ce ne sia qualcuno di insufficiente. I pezzi nel complesso sono tutti godibili e ben oltre la sufficienza. Unica nota dolente, l’originalità: l’album non si discosta più di tanto dal primo se non per una produzione migliore e alla fine ritroviamo lo stesso contenuto già incontrato in “Broken Boy Soldiers”, con ben poche novità e pezzi degni di nota, che sono sicuramente quelli più carichi: parlo di “Salute Your Solution”, “Consoler Of The Lonely” e “Attention”. Senza togliere nulla a degli artisti che sanno di certo suonare i loro strumenti, reputo quest’album un lavoro riuscito, sicuramente oltre la sufficienza, ma al di sotto delle aspettative e delle loro possibilità. White, Benson, Lawrence e Keeler sanno il fatto loro e sono in grado comporre pezzi con i fiocchi, ma forse una piccola smania di successo ha divorato la loro vena compositiva (sta succedendo lo stesso con gli Stripes di White, e i giochi di parole in questa recensione non finiscono…), timida ma prorompente, che ha comunque prodotto un album da ascoltare in macchina o in casa per rilassarsi o per ascoltare un po’ di rock americano del 2008. Nulla di eccezionale, ma neanche da buttare.

Consigliato l’acquisto a chi già apprezzava questa band, agli altri consiglio il primo album. Mi aspetto che ci “raccontino” qualcosa di più esclusivo nei prossimi anni.

Voto: 6,5

giovedì 27 marzo 2008

Linea 77 - Horror Vacui (Universal, 2008)

Il nuovo album dei Linea 77, ormai uscito da un paio di mesi, è da ancora prima dell'uscita al centro di opinioni divergenti. Qualcuno lo reputa un capolavoro, qualcun'altro una caduta di stile, altri una novità senza precedenti, altri ancora un fallimento totale. Io mi discosto da ognuna di queste per nulla moderate "convinzioni" di recensori che forse si lasciano troppo abbandonare all'album come prodotto pubblicizzato, ed è chiaro che le trappole della pubblicità ingannano tutti. Altrimenti che pubblicità sarebbe...
I Linea 77 sono noti ormai da tempo sulla scena rock nazionale ed internazionale, una band fresca, potente, d'impatto, ottima nei live per la carica che trasmette al pubblico e il coinvolgimento prettamente fisico che ne deriva. Non sudare ad un loro concerto è pressochè impossibile. Ci hanno abituato ad album dalle sonorità calde, con riff taglienti, ispirati dalla band che più li ha influenzati, i Rage Against The Machine, ma poi col tempo abbandonatisi alle influenze di gruppi più commerciali come i Papa Roach, i Korn e i sempre validi System Of A Down. Dopo questo volutamente lunghissimo preambolo, passiamo a parlare dell'album.


L'album è sicuramente inferiore alla loro produzione di punta: Numb. Numb presentava pezzi innovativi, orecchiabili al punto giusto e contemporaneamente perfetti per scatenare la gente sia sotto al palco che davanti alle casse dello stereo. "Third Moon", "Fantasma" e "66" ne sono tre esempi più che evidenti (per citare le 3 più conosciute). In questo album alcune canzoni presentano una soluzione di continuità con ciò che é la produzione Linea 77 finora rilasciata. Mi riferisco al singolo "Il Mostro" e al pezzo d'apertura "The Sharp Sound of Blades". Due pezzi in puro stile Linea 77: il singolo è stato bollato da alcuni come troppo commerciale, in realtà il paragone con i due precedenti singoli di punta "Fantasma" ed "Evoluzione" è inevitabile. I tre pezzi hanno un tiro ed una struttura pressochè simile e questo, se da un lato non rende giustizia a una band che si autoproclama innovativa, di certo non genera delusione. "The Sharp Sound Of Blades" è molto trascinante, tirato, ma forse troppo uguale a buona parte dei brani in inglese degli album precedenti. Due bei pezzi sono "Overload" e "Touch 2.0": la seconda è solo una riedizione di un vecchio brano, registrata perfettamente e adatta al tiro leggermente più commerciale dell'ultimo album (anche grazie a Tiziano Ferro che molti reputano una comparsa interessante per la band; chiariremo che non lo è); "Overload" è, se vogliamo, un pezzo maturo, che erige un ponte tra il frivolo crossover dei Linea 77 e quei Dufresne che stanno emergendo negli ultimi tempi. Una ventata di fresco in questo genere ormai in fase di stagnazione e che ha bisogno di spunti creativi. "Penelope" è un pezzo che potrebbe funzionare benissimo come singolo, ma per niente trascinante, e presenta passaggi cattivi alternati a sprazzi di melodia pop italiana veramente adeguatissima agli Articolo 31 di Italiano Medio. Costante che ritroviamo nel pezzo "La Nuova Musica Italiana", pezzo che toglie insieme a "Mi Vida" ogni dubbio sulla capacità della band di produrre singoli commerciali di immenso impatto (la seconda citata è la migliore del disco). "My Magic Skeleton" e "Grotesque" sono due pezzi alquanto anonimi, ma in ogni caso godibili, ed è per questo che possono essere eletti pezzi rappresentativi di un album segnato in lungo e in largo dall'alternanza di riff taglianti a ritornelli da canticchiare sotto la doccia, con urla che nascondono solo la struttura pop celata neanche tanto bene di alcuni brani. Ho lasciato infine i due pezzi in italiano "Sempre Meglio" e "Sogni Risplendono", due pezzi che sinceramente ritengo apprezzabili. Il songwriting in queste due tracce è notevole, coerente con lo stile Linea 77 che ritroviamo in "Available for Propaganda" e "Numb", nonostante l'aria commerciale che la band lascia trasparire un po' dovunque. "Sempre Meglio" è adatta anche come singolo ma è supportata da un riff trascinante che sicuramente farà strage ai concerti, così come il riff d'apertura di "Sogni Risplendono", canzone che vede la partecipazione di Tiziano Ferro, grande nota dolente dell'album. Da molti bollata come un gesto di grande coraggio, l'inclusione di Ferro è invece secondo me una grandissima operazione commerciale che vedrà il pezzo pubblicato come singolo e sparato in mille salse su MTV (il passaggio a Universal si sentirà parecchio). Peccato perchè tolto il ritornello veramente osceno cantato da Tiziano la canzone è molto bella.


Giunti al momento di tirare le somme cosa possiamo dire? Beh di certo i Linea 77 che conoscevamo sono presenti anche qui, il tasto che più duole è di certo quello dell'originalità. La band non è più la band di novellini cazzari che conoscevamo e ci si aspetta una maturazione che col tempo porti Nitto e soci ad esplorare nuovi orizzonti. Le novità sono invece poche e vengono subissate con trovate commerciali sicuramente poco apprezzabili. Efficaci come sempre invece gli incastri delle due voci, così come i riff di chitarra, incisivi come non mai. La tecnica del gruppo rimane la stessa, ben conciliata con la potenza che divampa da ogni nota. L'unico membro del gruppo che ne esce ridimensionato è il batterista Tozzo, che da prova in tracce come "Il Mostro" e "The Sharp Sound Of Blades" di una tecnica non indifferente per un batterista del suo genere. Brad Wilk docet.


Parlando dell'ultimo aspetto, la produzione (e quindi i suoni) diciamo che è l'unica caratteristica di questo album sulla quale è impossibile muovere critiche. Il produttore Toby Wright, che ha lavorato anche con Slayer, Korn e Alice In Chains, ha contribuito a dare una scorza particolarmente dura a questo lavoro, un lavoro graffiante, tagliente, caratterizzato da suoni ben distinti e mai freddi, pieni e compatti. La produzione è quindi di certo eccellente, nota che solleva l'album di almeno mezzo punto.


Consigliato ai fan dei Linea 77 ma a chi vuole ascoltarsi del crossover italiano fatto bene consigliamo i lavori precedenti. Che la linea si sia spezzata?


VOTO: 6.5

"Good Times Bad Times" Hits The Road

Salve a tutti dallo staff del nuovo sito di recensioni Good Times Bad Times; siamo JacoZappa e Brizz e con noi (ri)scoprirete vecchi e nuovi dischi rock del panorama italiano ed internazionale, visti con occhio critico e recensiti a tutto tondo. Non troverete opinioni di parte bensì concrete analisi musicali di ciò che trovate secondo per secondo negli album che vedete recensiti!

I due recensori tentano di conciliare due ere diverse del rock, quella moderna e quella classica, quella dei grandi gruppi. Ovviamente non possiamo recensire solo dischi "consigliati" ed è compito di ogni buon recensore saper stroncare gli album "fallimento". Come già citato, JacoZappa si occuperà di farvi scoprire i dischi del passato, le varie gemme pubblicate nel corso degli anni, dai più grandi gruppi. Da Frank Zappa ai Gentle Giant, dai Queen ai Jethro Tull, mentre Brizz avrà premura di farvi scoprire i lavori pubblicati da gruppi odierni come Elio e Le Storie Tese, Afterhours, Linea 77. Ovviamente ci sono sempre le eccezioni che confermano la regola: i due ruoli ogni tanto possono scambiarsi, e non sempre vedrete recensiti dischi validi.

Questo è in sintesi Good Times Bad Times e se volete saperne di più...cliccatelo ancora nei prossimi giorni. Le prime recensioni saranno in arrivo presto!

Vorremmo inoltre aggiungere che da questo blog non potete scaricare niente: né samples, né tantomeno album interi. Ci teniamo a precisare questo perché questo blog potrebbe essere scambiato per una fonte di album in sharing. Non è così!

Un saluto da JacoZappa e Brizz!