lunedì 21 aprile 2014

Ian Anderson - Homo Erraticus (Calliandra Records-Kscope, 2014)


Il 14 Aprile 2014 è uscito il settimo disco solista (il sesto in studio) di Ian Anderson, celebre frontman dei Jethro Tull, di cui tanto si parla in questo blog, intitolato "Homo Erraticus". L'album è uscito in diverse edizioni: quella regolare con solo il CD singolo, la versione "Deluxe" contenente un secondo CD con una versione demo dell'album e interviste ai membri del gruppo più due DVD con mixaggi sorround e documentari sul disco, un'edizione limitata CD + DVD (contenente un riassunto dei due DVD dell'edizione "Deluxe") e, addirittura, una versione uscita in doppio LP. 
Il disco è uscito solo due anni dopo rispetto a "Thick as a Brick 2", un lasso di tempo relativamente breve rispetto agli ultimi standard. La formazione è la stessa del disco precedente: Anderson al flauto, alla chitarra acustica e alla voce solista, Ryan O'Donnell alla seconda voce, Florian Ophale alla chitarra elettrica, David Goodier al basso, John O'Hara alle tastiere e Scott Hammond alla batteria. Questo "Homo Erraticus", tematicamente, è collegato al disco precedente, anche se non si tratta di un suo seguito (per fortuna: realizzare "Thick as a Brick 3" sarebbe stato un rischio eccessivamente grosso, poco credibile e il gioco non sarebbe valso la candela). L'elemento che collega questo disco al precedente è unicamente la presenza di Gerald Bostock (fittizio enfant prodige, ormai cresciuto) che, in questo momento, si imbatte in un manoscritto ad opera di uno scrittore locale (Ernest T. Parritt) intitolato "Homo Britanicus Erraticus", dove si narra la storia della civiltà britannica. Sulla base di questo, un po' come Manzoni costruì "I Promessi Sposi", Anderson/Bostock costruisce tre sezioni, che dividono l'album in tre parti: "Chronicles", "Phropecies" e "Revelations".

Allo stesso modo, questa volta, ci avvaliamo di non uno, ma di ben tre punti di vista, grazie all'aiuto di due amici, colleghi e amanti della buona musica.



Jacopo Muneratti - Good Times Bad Times / Mat2020

Come già detto nell'introduzione, stavolta il tempo di uscita del disco è stato abbastanza breve e, la sua preparazione, molto più rilassata. Con il precedente "Thick as a Brick 2" Anderson si era preso una responsabilità piuttosto alta. Il rischio che si corre facendo un sequel di un'opera maestra è enorme, e lo è ancora di più 40 anni dopo l'uscita del lavoro originale. Il risultato, comunque, aveva dato i suoi frutti: non si trattava di un capolavoro, ma di un disco fatto con molta cura, e supportato da un eccellente tour nel quale teatralità e qualità musicale si amalgamavano ricordando, a tratti, l'epopea dei decenni passati. Il disco, ad ulteriore testimonianza di quanto fosse un prodotto potenzialmente pericoloso, era accreditato a Jethro Tull's Ian Anderson, per avere una rete di sicurezza.

Questa volta, con "Homo Erraticus", il rischio è chiaramente minore, e, infatti, è accreditato semplicemente a Anderson. Purtroppo, minore il rischio, minore il prodotto finale. Sia chiaro, il disco in sé non è assolutamente disprezzabile: ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un lavoro eseguito e prodotto estremamente bene. La voce di Anderson, in sordina da anni, suona abbastanza bene: non come prima della sua infezione alla gola (avvenuta nel 1985), ma calda, poetica e, soprattutto, perfettamente adatta al tipo di musica proposta. Il problema, è che, di fatto, questo "Homo Erraticus" non si discosta in quasi per niente dal disco precedente e il sottile filo che collega i due album non è un pretesto abbastanza grande per giustificare questa cosa. Forse, pretendere che un artista del calibro di Anderson, che ha 46 anni di carriera, e un totale di 29 dischi in studio tra solisti e con i Jethro Tull, rimanga tutt'ora un campione di diversità è un po' utopistico, ma il disco, obbiettivamente, va preso per quello che è. Inoltre, l'album (e qua, forse, tiriamo un sospiro di sollievo), non è per niente un album folk-prog-metal come era stato annunciato da Anderson nelle varie press-release, ma è perfettamente consono allo stile a cui si è avvicinato Anderson negli ultimi anni, con qualche riecheggio al passato. In ogni caso, anche se si trattasse di una mera copia, una copia di un disco molto buono risulterebbe comunque un prodotto molto buono.

Partiamo dai lati positivi: il disco si apre con un rocker frizzante ed energico, "Doggerland", che sicuramente invoglia all'ascolto del resto del disco e, tra gli altri ottimi brani, abbiamo "The Engineer", forse la miglior prova vocale di Anderson in tutto l'album, l'irresistibile e, forse un po' sardonica, marcetta di "The Pax Britannica", l'intricato strumentale "Tripudium ad Bellum" (con una conclusione geniale), la breve ma complessa "New Blood, Old Veins", la maestosa "Meliora Sequamur""The Browning of The Green", che si ricollega parzialmente a "Doggerland". Inoltre, l'atmosfera e le sonorità generali dell'album sono molto azzeccate e i testi, come al solito, oltre ad essere molto intelligenti e ben costruiti, hanno un'assonanza perfetta e la sequenza di sillabe utilizzate suonano molto musicali all'orecchio. Ovviamente, l'album non è esente da difetti: il recitativo "Per Errationes Ad Astra" sembra avere la stessa identica funzione che aveva "Might-have-beens" su "Thick as a Brick 2" e la sua inclusione suona un po' forzata, "Puer Ferox Adventus" non contiene nessun elemento che giustifichi i suoi sette minuti di durata e la conclusiva "Cold Dead Reckoning" è una maniera ben poco ispirata di chiudere l'album. Solo la melodia contenuta nei suoi 30 secondi conclusivi fa svegliare un po' le orecchie, ma finisce troppo in fretta ed è così slegata al resto del brano che sembra che sia stata infilata forzatamente.

In definitiva, si tratta di un prodotto che raggiunge ampiamente la sufficienza, superandola di un bel po', con qualche momento ottimo e qualche altro meno ispirato e, il fatto che un artista del calibro di Ian Anderson, a questo punto della sua carriera, continui a produrre lavori di un certo pregio, non è una cosa da dare assolutamente per scontata. Dal punto di vista tecnico, il disco suona molto competente e professionale. Il gruppo di Ian Anderson è sicuramente preparato e capace, ma forse, un po' poco personale. I vari assolo sono eseguiti con una precisione quasi al millimetro, e le backing tracks scorrono avanti senza problemi, ma non si sente niente che faccia pensare ad un prodotto veramente unico, e questo è sicuramente il vero e proprio scarto col passato dei Jethro Tull. Forse, l'unico membro del gruppo che veramente ha una sua personalità è il secondo cantante Ryan O'Donnell, che ricopre un ruolo che, fino a qualche anno fa, sarebbe stato impensabile e avrebbe, ipoteticamente, causato le ire dei fan. Eppure, è l'unico che porta qualcosa di nuovo e di energico, e, il fatto che riesca a fare così bene un lavoro così rischioso è sicuramente da applaudire. Ad ogni modo, anche se non sono sicuro che questo album possa avvicinare nuovi adepti o che possa far gridare in molti al capolavoro, è certamente molto difficile considerarlo un lavoro mediocre e fa piacere vedere un Ian Anderson ancora carico di energia che non cerca di continuare a sembrare il matto dei vecchi tempi, ma che ha sempre di più l'immagine dell'uomo saggio, scaltro e vissuto, con sempre un asso sotto la manica.


Donald McHeyre - Castle McHeyre / Mat2020

Ian Anderson nel 1972 con "Thick as a Brick", attraverso il suo alter ego, Gerlad Bostock, mostrò uno spaccato satirico delle piccolezze della convenzionale e ben pensante contemporaneità (dell’epoca) inglese attraverso una “musica desiderio” non convenzionale di un unica traccia lunga quanto un album, divisa solo dalle esigenze fisiche di cambiare lato al vinile. In "Thick as a Brick 2", nel 2012, il meta autore diventa protagonista e, attraverso di lui, Ian Anderson ci racconta il cambiamento della società e del pensiero negli anni nel fra tempo intercorsi attraverso i nuovi supporti tecnologici, sviluppati in questi 40 di anni, di rendere davvero un unico brano, questa volta non diviso dai limiti fisici del vinile ma soltanto dai limiti mentali del commercio. In "Homo Erraticus" il supporto scelto è il più “convenzionale” concept album narrativo, diviso in 3 parti/capitoli a loro volta divisi in  brani/paragrafi, musicalmente distinti.  Nelle varie tipologie di arrangiamento usate da Anderson con "Homo Erraticus" siamo in quello che potremo definire "Jethro Tull arrangiamenti stratificati" (che poi è quello più comunemente è stato usato nella loro discografia) diversamente da "Thick as a Brick 2" che rientra nella tipologia “Jethro Tull arrangiamenti lineari” ("Roots to Branches", "A Passion Play" e in buona misura il primo "Thick as a Brick" ne sono gli esempi più rappresentativi).

Il fatto che si utilizzino tecniche compositive e di arrangiamento diverse tra "Homo Erraticus" "Thick as a Brick 2" non può che essere positivo per entrambi gli album e per l’autore stesso. Personalmente continuo a preferire "Thick as a Brick 2" con la sua struttura lineare dovuta all'esigenza di mostrare l’album come un unica composizione (mi piace il risultato finale, prescindendo dalle tecniche usate). "Homo Erraticus" è quindi più un concept "raccolta di brani" con pochissimi temi ricorrenti e forse più varietà nelle composizioni ma anche con più momenti deboli rispetto al predecessore. I momenti deboli possono trovarsi anche in "Thick as a Brick 2" ma questi possono essere giustificati dalle esigenze narrative e dalla struttura di un brano lungo quanto tutto il concept stesso. In sostanza in "Thick as a Brick 2" (ma anche nel primo) i "tempi deboli" possono essere concepiti semplicemente come momenti più deboli di un unico brano che nel suo insieme però, ci aggrada. In "Homo Erraticus", i momenti deboli sono invece singoli brani meno brillanti di altri.

D’altra parte la produzione tecnica del suono è eccellente, superiore anche a "Thick as a Brick 2", rendendo piacevole l’intero ascolto in un sol fiato dell’album la cui musica mostra una Band (.. of Ian Anderson) suonare finalmente come una Band, più amalgamata e sicura delle proprie capacità di quanto aveva dimostrato fino a poco tempo fa, quando quegli stessi  componenti sembravano essere i domestici di casa Anderson arruolati sul campo. O'Donnell in particolare, che già mi aveva fatto ottime impressioni durante il tour di "Thick as a Brick 2", qui è ancora più presente e "vario" nel suo ruolo, permettendosi (o meglio, permettendogli Anderson) di ritagliarsi anche piccoli spazi solisti e non soltanto come "maggiordomo di voce", li dove il "padrone" non ci arriva più.

L'operazione meta testuale, iniziata nel 1972 e proseguita nel 2012 qui continua e si amplia con il personaggio di Ernest T. Parritt (1865-1928) il cui manoscritto intitolato "Homo Erraticus Britannicus" viene scoperto da Bostock ormai anziano in una piccola  biblioteca di provincia. L’analisi sociale si estende a tutta la storia della cultura anglosassone. Nel testo (e qui si giustifica in gran parte il concept "raccolta di brani separati") Parritt racconta che a seguito di una caduta di cavallo dovuta a malaria la sua "coscienza"  viaggia indietro nel tempo ritrovandosi nel corpo di diverse persone. Partendo da un uomo del neolitico e saltando di incarnazione in incarnazione, un fabbro dell'età del ferro, un invasore sassone, un monaco, e altre figure, su su per le epoche fino al Principe Alberto, assiste da testimone diretto ai momenti cruciali della storia della Gran Bretagna, compie Profezie e Rivelazioni sull'epoca attuale (la parte più facile) arrivando fino al 2044 (c'è anche spazio per gli alieni e la SF catastrofista) raccontando tutto nel suo manoscritto nel modo bizzarro ed esagerato tipico del "narratore inaffidabile" come il Barone di Munchhausen o il Colonnello Maxim Arturovitch Pyatnitski di Michael Moorcock, una delle numerose incarnazioni del Campione Eterno, figura metafisica protagonista della gran parte delle opere di Moorcock, la cui concezione può porsi tra le basi per il plot del concept album di Anderson. Il Campione Eterno (John Deker) si reincarna di volta in volta in figure protagoniste dei vari cicli dello scrittore (Elric di Melnibonè, Erekose, Dorian Howkmoon von Koln, per citarne alcuni), nelle varie epoche e nelle varie "Terre" del milione di sfere costituenti il "multiverso". Un buon esempio, insomma, di Homo Erraticus.

Anche se l'idea stessa di viaggio "psico-storico" compiuto da Parritt si può a maggior diritto far risalire direttamente al personaggio protagonista di "Slow Chocolate Autopsy: Incidents from the notorius Career of Norton, Prisoner of London" di Ian Sinclair (con le illustrazioni di Dave McKean) amico di Alan Moore che ha sua volta è amico di Moorcock. Nel romanzo (ma sarebbe più giusto definirlo, raccolta di 12 racconti a carattere storico), l’Homo Erraticus, Andrew Norton è intrappolato nei confini della città di Londra, non ne può uscire ma può spostarsi avanti e indietro nel tempo assistendo e a volte interagendo con gli eventi storici. 

Ian Anderson che legge Moorcok, Sinclair e Moore ? Possibilissimo. Il fatto che Arthur Bostock, il padre di Gerald, sia nato il giorno dopo la morte di Parritt,  può far riflettere in questa direzione.



Chiara Bucolo - Filodiretto Monreale

Dopo varie vicissitudini e ostacoli impervi, finalmente l'Uomo Errante è riuscito ad approdare nelle mie orecchie. Ed è stato di piacevole compagnia, nonostante i samples parevano presentare un disco farraginoso ed un po' pesante (come mi disse un amico: "secondo me, per i samples, hanno detto: adesso prendiamo i momenti peggiori di tutto l'album!"). "Homo Erraticus", sesto lavoro solista del leader dei Jethro Tull Ian Anderson, è inaspettatamente fresco e per niente monotono. Il nostro Ian ha saputo dimostrare,ancora una volta, di saper imboccare sempre strade diverse, anche quando, come in questo caso, non crea niente di nuovo.

L'album, diviso in tre parti - Cronache, Profezie, Rivelazioni - si snoda, si sviluppa e si intreccia tra melodie medievaleggianti ed eteree e momenti più "aggressivi". Connubio che funziona e che già notiamo nel primo brano della prima parte delle Cronache, "Doggerland", dove però l'assolone quasi Metal di Opahle risulta a mio parere forzato ed invadente. Ci pensa subito a ristabilire le cose la delicata e spensierata "Heavy Metals", per la durata di quasi un intermezzo. Una intro di flauto difficile da dimenticare apre "Enter The Uninvited", un po' guastata dai momenti in cui il cantato di Anderson è quasi rappeggiante, ma comunque dalla melodia trascinante. "Puer Ferox Adventus" è intensa, quasi solenne, e ci presenta una chitarra equilibrata nella sua irruenza, e un bellissimo assolo di flauto. In "Meliora Sequamur" ritroviamo quella solennità quasi religiosa, mentre "The Turnpike Inn" possiede alcuni dei momenti più hard del disco. Ancora atmosfere medievali e quasi folk pervadono "The Engineer" e "Pax Britannica" (una delle vette dell'album), che ci mostrano due splendidi assolo del flauto di Anderson. Altra vetta è l' "aerea" "Tripudium Ad Bellum", che introduce la seconda parte del disco, le Profezie. "After These Wars" è dominato da un potente assolo di chitarra, mentre in "New Blood, Old Veins", le tastiere di O'Hara si fondono perfettamente con il flauto di Ian. In "For A Pound", una ripresa della melodia di "Heavy Metals", fa da ingresso nelle Rivelazioni, terza ed ultima parte dell'album. Segue "The Browning Of The Green", altro momento very hard del disco (che però, anche in questi frangenti, non abbandona mai quella vena di leggerezza che caratterizza il suo autore). "Per Errationes Ad Astra" è una sorta di curioso racconto, mentre la chiusa del tutto, "Cold Dead Reckoning", si riallaccia alla melodia di "Enter The Uninvited", uno dei tanti parallelismi del disco.

Disco che non è un capolavoro, ma che ascoltandolo sembra che quest'uomo errante ti ghermisca e ti conduca nei suoi viaggi turbolenti, e tu non sai di certo ribellarti.