lunedì 30 agosto 2010

Melissa Auf der Maur e Tape the Radio Live @ Estragon 27 Agosto 2010

Foto del concerto

Setlist:
01. This Would Be Paradise (Intro)
02. The Hunt
03. Lightning Is My Girl
04. Real A Lie
05. Isis Speaks
06. Lead Horse
07. Taste You
08. Out of Our Minds
09. I Need, I Want, I Will
10. Overpower Thee
11. 1,000 Years
12. Followed the Waves
13. Bang Bang (My Baby Shot Me Down) - Cher/Sonny Bono cover
14. Black Sabbath Medley (Steele tribute)


Melissa Auf Der Maur, una delle bassiste più celebri al mondo, si è soffermata in questo piovoso agosto anche per qualche data italiana. Ama il nostro paese, forse davvero viste le innumerevoli volte in cui lo ripete, tentando anche qualche biascicata ruffianata in italiano che il pubblico, visto il personaggio, apprezza moltissimo. 
La serata all'Estragon, inizialmente semivuoto ma poi abbastanza gremito (alcuni diranno di no, ma vista la concomitanza con numerosi eventi grossi come la vicinissima Festa Democratica ci si aspettava ancora meno gente), è andata per il meglio, ad iniziare dall'apertura, affidata ad una band a noi sconosciuta, gli inglesi TapeTheRadio. Il trio britannico ha sparato in alto con trenta minuti di puro rock anglosassone miscelato con indie e new wave, assomigliando ora ai Cure ora ai Joy Division, senza tralasciare mai una certa personalità rock. Si ascolti il singolo "Stay Inside" per capire. Ottima band. 
Prima di vedere sul palco l'ex Hole e Smashing Pumpkins viene però proiettato un filmino di 30 minuti, ideato dalla bassista canadese, presente in esso anche come "attrice". Regia discreta, coinvolgentissima colonna sonora, trama parzialmente incomprensibile, stupisce la quantità di vernice utilizzata per mostrare che gli alberi abbattuti dai tagliaboschi canadesi perdevano sangue. Interessante in ogni caso come preambolo di un live che si dimostrerà breve ma intensissimo. I suoi 75 minuti lasciano tutti senza parole, con molti dei pezzi più noti (i singoli "Followed the Waves" e "Out of Our Minds") eseguiti alla perfezione nella seconda parte del set, e alcuni accenni ad entrambi i dischi, tutti conditi con una certa presenza scenica che da anni le si attribuisce come uno dei maggiori meriti. Il coinvolgimento è anche lasciato ai suoi discorsetti tra un pezzo e l'altro, pronti a strappare sempre qualche effimero sorriso e applausi facili. Musicalmente gli errori si contano sulla punta delle dita, sul palco ci sono dei professionisti e la backing band infatti si dimostra al pari delle aspettative, con un sound molto alternative ma contemporaneamente grezzo e pesante al punto giusto, che ricorda in alcuni punti le band post-metal o sperimentali, per scendere in altri momenti al rock commerciale che comunque non costituirà mai il punto di riferimento principale della musica di Melissa.
Interessante la perfetta interpretazione di "Bang Bang", di Sonny Bono, poi cantata da Cher negli anni '60, cantata in maniera magistrale e seguita da un tributo ai Black Sabbath che ha contribuito a concludere la serata al meglio.
La Auf der Maur verrà ancora in Italia e vi consigliamo di andarla a vedere se vi interessa un concerto potente, carico, coinvolgente, con molta energia positiva, a suo modo simpatico, e anche, diciamolo, se volete vedere una delle donne più affascinanti degli ultimi 20 anni di storia del rock. Gran serata. 


Questo video è tratto dal concerto tenutosi il giorno prima al Magnolia di Milano.

giovedì 26 agosto 2010

Iron Maiden - The Final Frontier (EMI/UME, 2010)


Tracklist:
1. Satellite 15...The Final Frontier
2. El Dorado
3. Mother of Mercy
4. Coming Home
5. The Alchemist
6. Isle of Avalon
7. Starblind
8. The Talisman
9. The Man Who Would Be King
10. When The Wild Wind Blows

Quindicesima uscita in studio. Un numero notevole, e i risultati lasciano, in questo senso, più che soddisfatti. Sarà che, almeno il sottoscritto, aveva bassissime aspettative (colpa dei primi leak su YouTube), ma lo stupore nell'ascoltare The Final Frontier, in particolare alla terza riproduzione, è notevole. Forse per l'innegabile capacità di reinventarsi sempre, pur restando circoscritti in certi canoni e ben ancorati a certi elementi, non diventando mai né statici né insipidi.
Neppure la carica è venuta a mancare, nonostante l'età media della band. Gli alfieri dell'heavy metal britannico non smettono di proporre i loro soliti cliché in maniera funzionale e, a loro modo, geniale, non dimenticandosi colpi di scena, cambi di tempo e quelle armonizzazioni che da quando hanno tre chitarre non vengono mai lasciate da parte. E, soprattutto in questo lavoro, è un bene.
Nicko McBrain è sempre in forma, e dopo un inarrestabile miglioramento che l'ha visto crescere a dismisura (a livello tecnico più che di composizione), negli anni '90 e soprattutto negli anni zero, si è assestato su di una linea clamorosamente buona, in particolar modo se andiamo a raffrontare la sua data di nascita con le sue reali capacità. Il tocco è sempre lo stesso e continua (e continuerà per sempre) ad essere il vero marchio di fabbrica dietro le pelli degli Iron Maiden, con buona pace del povero Clive Burr, che rimane validissimo. 
Parlando delle tracce sicuramente funzionano quelle più standard, che sono tornate a somigliare ai dischi di anni '90 e 2000, come "The Talisman", "The Man Who Would Be King" e "The Alchemist", simili in tutto e per tutto alla stragrande maggioranza dei brani di "Brave New World", di gran lunga il miglior album degli Iron Maiden degli ultimi vent'anni (ed infatti tutti i suoi brani offrono un ottimo modello, come dimostrano quelli dell'ultimo loro sforzo per EMI e UME). Per i tentativi di innovazione si rimane, in realtà, abbastanza delusi, poiché i brani risultano spesse volte fuoriluogo, come il pezzo d'apertura (e primo singolo), la title-track, che non trova mai un vero motivo di esistere in nessuna delle sue parti. Troppo sterile, per niente fresca, per niente Maiden.
Infine, leggendo i credits delle canzoni, si nota che Harris inizia a dare più spazio nella creazione dei brani anche agli altri e, soprattutto per quanto riguarda i brani composti da Smith, questo è un aspetto positivo.

Cosa non va, invece?

Sicuramente le linee vocali di Bruce Dickinson. Un continuo sforzo assolutamente esagerato di raggiungere le note che ha sempre saputo prendere con spiazzante precisione ma che ormai sono fuori dal suo campo d'azione. Forse rendersi conto che gli anni passano per tutti avrebbe aiutato le sorti di questo disco. Inoltre alcune melodie lasciano alquanto a desiderare, salvando sporadici momenti come la bellissima "When The Wild Wind Blows", imprescindibile anche per l'emotività che lascia trasparire.
Un altro aspetto abbastanza negativo di "The Final Frontier" è la piattezza degli assoli, onnipresenti ma troppo scialbi e contorti per risultare plausibili e piacevoli. Sono passati gli anni '80 (e anche Fear of The Dark) e la mano di questi ragazzoni hanno perso quel tocco che anche a livello compositivo e solistico li ha resi storici. E' evidente in brani come il primo estratto "El Dorado", piuttosto spento, anche se si può comprendere come agli hardcore fans sicuramente piacerà, nonostante l'eccessiva durata (pecca anche di altri brani).
Un'altra debolezza dell'album potrebbe essere individuata nei testi, fatti di liriche epico-mielose, cronache di guerra, infarcite del solito lessico che vede la parola death inserita alla bell'e meglio ogni due per tre. L'importante è che, da un punto di vista melodico, funzionino. E in questo senso si può dire che la coppia di writers Harris-Dickinson riesce ancora a lasciare il segno.
Fiacca anche la produzione, per la prima volta dopo tanto tempo un po' pompata, con un sound iperlavorato, smussato all'inverosimile. Lo si sente in alcuni tratti per quanto riguarda chitarre e batteria, con dei suoni quasi irreali, seguendo una strategia completamente diversa da quella della presa diretta, utilizzata nei dischi precedenti.


Facendo un overall, complessivamente l'album funziona. Va ascoltato qualche volta in più per rendersi conto che il sound del disco precedente, sebbene per certi aspetti avesse portato una ventata di fresco in casa Maiden, non era quello che li porterà avanti, e a confermalo ci pensa proprio The Final Frontier, soprattutto con la forma sempre perfetta della sezione ritmica che vede McBrain e Steve Harris sostenere ogni singolo episodio del disco con una precisione e un tocco da panico. Sinceramente, senza di loro, gli Iron Maiden si sarebbero già dovuti fermare da tempo.
Ottimi soprattutto i brani della seconda metà del disco, con un pressante afflusso di nuove idee che, fuse con i cliché della storia maideniana, formano pezzi memorabili, pronti a ridefinire gli assetti che conosciamo e a distorcere la storia dell'heavy metal come solo loro potevano ancora fare nel 2010. E l'introduzione, controversa, compromettente, a suo modo divergente da tutta la carriera del sestetto britannico, lo dimostra. Può non essere gradita, per i suoi pattern piuttosto banali e ripetuti ad oltranza, ma è evidente come nello "schema generale" del progetto Maiden ci sia la volontà di seguire una pista sempre più epica, ed in questo senso un intro simile non può che funzionare nel minor modo possibile.

Sforzo notevole, considerato tutto, apprezzabile non solo per i fan, ma non vi consiglierei mai di ascoltare questo come "album simbolo" della storica band. Per questo, ci sono gli anni '80 (o Brave New World).

Voto: 7.5

martedì 24 agosto 2010

GTBT Incontra la Scena Italiana #5 - Stanislao Moulinsky

Emanuele Brizzante intervista per GTBT la formazione toscana. Costantino Lazzeri, frontman, risponde a qualche piccante domanda sulla loro attività. E non solo, scoprite tutto leggendo...
Qui la recensione del loro ultimo lavoro.
-INTERVISTA- 

Stanislao Moulinsky, un nome celebre, per alcuni. Spiegate chi è anche agli "ignoranti" (senza offesa, ndr) e il perché della scelta
Stanislao Moulinsky era il "cattivo" di un fumetto degli anni 70', Nick Carter. La sua più grande dote era quella di sapersi travestire dalle cose più impensabili, come un treno od un dirigibile etc.. Da questo abbiamo deciso di chiamare così il nostro gruppo, perchè sviluppiamo idee di continuo e non vogliamo fossilizzarci su uno stile musicale ma esplorare le varie sfaccettature della musica.

Come nasce un pezzo della vostra formazione? Quanto è importante per voi il testo all'interno di un brano?
Di solito i pezzi nascono a casa mia, dove inizio a suonare con la chitarra e a cercare delle melodie con la voce. Una volta trovato qualcosa che mi aggradi inizio a scrivere il testo, che per me è importantissimo, infatti cerco di non andare nel banale e buttare sul foglio tutto ciò che ho dentro. Poi propongo il pezzo in sala prove e sviluppiamo la parte musicale.

Il titolo è abbastanza enigmatico o, diciamo meglio, interrogativo. E' questo che intendevate o c'è dell'altro? Perché l'avete scelto?
Y in realtà è un titolo che è stato frainteso da molti, non ha niente a che fare con why o con chissà cosa, è solo un tributo a Lorenzo, figlio del nostro chitarrista, che essendo un maschio ha come geni sessuali XY ed è la Y a differenziarlo da una femmina che invece ha XX . Molto semplice direi....

La scena fiorentina ultimamente sforna gruppi uno dietro l'altro ma solo pochi poi riescono ad imporsi in una vera e propria scena italiana dove la concorrenza è sempre più spietata. Voi come la vedete e come vi muovete in un ambiente come questo?
Noi ci muoviamo in tutte le direzioni, live, internet, stampa, tutto quello che possiamo fare per arrivare a qualcuno di nuovo. Purtroppo l'ambiente della musica è in crisi ed è molto difficile trovare qualcuno che scommetta sulle novità. Ma la fortuna aiuta gli audaci...

Il vostro sound ricorda molto quello di rock band italiane già molto affermate, come Negrita, Timoria, Litfiba. Vi riconoscete in questi accostamenti? Quali sono le vostre reali influenze?
Posso dirti che quando avevo 12/13 anni consumavo i dischi dei Timoria ma non ne ho mai cercato spunti. Per quanto riguarda i Negrita, forse quelli di un tempo adesso hanno preso una strada molo diversa dai loro esordi. I Litfiba invece sono un gruppo che è storico per la scena fiorentna, come i Diaframma, ma sinceramente non credo ci abbiano influenzato. I nostri gusti all'interno del gruppo sono molto differenti, si va dal jazz al metal, per passare dal funky al rock anni 70. Però tutti siamo unanimi nell'ascoltare Afterhours e Marta sui Tubi (e fate bene, ndr), gruppi che spessissimo andiamo a vedere dal vivo. Ultimamente sono stato colpito positivamente da Brunori SAS, artista prodotto da un mio amico, e dagli Amor Fou.

Mi incuriosisce molto la scelta di titoli come "Frustrato e Distratto" e "Inutile Acrobata". C'è molta disillusione, o forse illusione, un conflitto interiore, o qualcosa del genere. Di cosa volete parlare in brani come questi?
Come ti dicevo prima i testi sono molto introspettivi e pieni di sensazioni, i titoli non seguono una vera logica sono più una specie di associazioni libere, lascio che sia il flusso della mente a decidere.

Cosa c'è nel futuro della vostra band? Dopo un disco come questo, ricevuto molto bene anche dalla critica, ci sarà sicuramente una grossa attività promozionale no?
Al momento abbiamo finito da poco il tour promozionale, adesso abbiamo alcune cose in ballo, come l'apertura di un concerto al Metarock 2010 di Pisa a settembre e la pre-produzione di nuovi pezzi, in pratica abbiamo già materiale per un altro album, vedremo.....

Un saluto e grazie mille per esservi prestati a Good Times Bad Times per questa megaintervista. Ciao! 
Grazie a voi e un abbraccio dagli Stanislao Moulinsky! 

lunedì 23 agosto 2010

John See A Day - John See A Day (Autoproduzione, 2010)


Tracklist:
1. We Go Slow To The Fucking Hell
2. Boogie Man
3. El Vuelo The Fuego
4. Colpo De Man
5. El Giovanelo Capo Del Batelo
6. Henverland
7. John See A Day
8. SS 309 Romea
9. Deghe In Tre

John See A Day, formazione chioggiotta, direttamente dalla provincia di Venezia. Dopo questa veloce ed asettica enumerazione anagrafica, passiamo velocemente a parlare della musica, evitando inutili preamboli.
Cosa troviamo nel self-titled di questi ragazzi usciti da Clodia Maior? Nove pezzi, qualche ospite (Ettore Boscolo, al contrabbasso), tanta grinta, per un rock di stampo americano (o australiano?), vigorosamente incastonato dentro le facili mura dell'hard rock più classico, impreziosito però da qualche simpatico arrangiamento di sassofono, affidato al membro della band soprannominato Mr. Moonroad. Stringendo, il sax è l'unico elemento che contribuisce a rafforzare il fronte "originale" di questo disco, di per sé ancorato a linguaggi e stilemi di matrice eighties (e seventies) che già le maggiori band, con intere stirpi di seguaci, hanno già percorso in ogni direzione. Aggiornarlo non è cosa facile, è risaputo, e anche se i John See A Day probabilmente non avevano pretese di questo genere vale la pena ribadire che non si tratta di un disco innovativo, o chissà che.

Quali sono allora i meriti di questa autoproduzione, affidata a Tiziano Boscolo, interno del quintetto clodiense? Superato l'iniziale impatto con una produzione di notevole pulizia, si può passare ad analizzare il contenuto di ogni singolo brano. Tendenzialmente in ogni pezzo si assiste alla creazione di un microambiente hard rock di quello orecchiabile, radiofonico nei riff di chitarra e anche in quella forgia ritmica che spesso si concretizza ed espande in ritmi più rock'n'roll. E se sfugge qualche tentennante e rannuvolata citazione nel finale di "El Vuelo The Fuego", con il suo testo ispanico, si possono apprezzare maggiormente i testi in dialetto veneto, che da sempre solleticano l'immaginario degli indigeni da quando i Pitura Freska sono diventati la band storica che sono. Senza ricalcarne né le tematiche né le scelte stilistiche, producono qualche lirica simpatica, con quell'accento che tanto ci si diverte a canzonare fuori dal Veneto, che piacerà sia ai lagunari che ai più distanti provinciali delle altre comunità regionali. E' il caso di "Colpo de Man" e l'inno pop prettamente chioggiotto "El Giovanelo Capo Del Batelo" (qui la scelta dell'accento è meno comprensibile all'esterno della zona della band), già abbastanza diffusa grazie ad internet negli ultimi mesi, un funkettone leggerissimo che trova il suo massimo interesse proprio nelle parole. Lo stesso succederà nel tributo ai "309 morti" della celebre statale Romea, nell'ottava traccia. Dal punto di vista di tecnico i ragazzi se la cavano, e propongono, soprattutto alla batteria, canzoni da apprezzare anche sotto quel punto di vista.
Sondando con attenzione l'intero lavoro si scopre facilmente che gli ingredienti principali sono pochi, ma miscelati e rielaborati con una certa consapevolezza compositiva che gli si può certamente attribuire come una nota di merito. Il problema è che a volte sembra di assistere a vere e proprie cover "venetizzate", senza l'ombra di tentativi di innovazione che lascino davvero il segno. Se non c'era nessuna pretesa del genere negli intenti dei ragazzi allora questo disco funziona davvero, veloce, simpatico, connesso alla realtà. Altrimenti, cercate altrove.

Voto: 6.5

martedì 17 agosto 2010

King Crimson - Red (E.P. Records, 1974)


Red è l'album della maturazione Crimsoniana. E' il primo album dai tempi di Island (1971) che riutilizza musicisti esterni come session man che variano in ogni traccia. E' il lavoro in cui si notano tutte (o la maggior parte ) delle caratteristiche principali che influenzano i Re Cremisi. E alla fine dell'ascolto di questo album viene veramente da dire che sono dei "Re".


Il tutto inizia con la title track che diventerà successivamente un simbolo live del gruppo, proposta e riproposta molte volte e sempre con un effetto devastante. Il riff carica e il suono è reso più potente dalle diverse tonalità e dalla sovraincisione che il gruppo ha eseguito in studio (sembra ci siano più chitarre ma è lo stesso Fripp a suonare) . Da qui emerge la prima caratteristica del gruppo, il brano completamente strumentale che si era imposto decisamente nel precedente album Larks' Tongues In Aspic (1973) e le sue rispettive title track. Non manca nel pezzo centrale la collaborazione di musicisti esterni con il violino di David Cross, elemento musicale in alcuni gruppi come i Kansas quasi dominante. Primo brano completato e l'effetto è quello di un inizio alquanto spumeggiante. Il secondo pezzo è il primo cantato, Fallen Angel; lì emerge la voce di John Wetton che sembra calzante a pennello, lui che di lì a poco diventerà il frontman per alcuni anni degli Uriah Heep (da notare la sua voce come sia simile a quella del passato Greg Lake e del futuro Adrian Belew). L'oboe di Robin Miller e la cornetta Mark Charig rendo le strofe così sinuose e quasi celestiali per poi arrivare ai tratti più duri e marcati dove da protagonista la fanno Robert Fripp con la sua chitarra e Ian McDonald (non suonava con i King Crimson da In The Court Of The Crimson King (1969)) con il suo sassofono "pazzo" che verrà preso come esempio da altri gruppi come gli Zu in Italia. Dopo il pezzo "dolce" si passa a una canzone dai tratti più hard fino ad arrivare alla classica sperimentazione-psichedelia che fa di loro dei maestri. One More Rednightmare ha un riff iniziale coinvolgente dove si esprime in tutta la sua bravura e fantasia anche Bill Bruford, e stiamo parlando di un batterista che ha fatto la storia anche con gli Yes. E' il brano dove ancor di più si percepisce la padronanza del Sax di McDonald. Peccato che si interrompa cosi bruscamente per la fine del nastro. Probabilmente chi ha ascoltato ques'album per la prima volta prima di arrivare alla canzone successiva, ha pensato che mancava un elemento tipico dei King Crimson, quello della completa improvvisazione. Questo è Providence, una canzone completamente improvvisata in live e rielaborata in studio come loro stile dove ognuno dà sfogo alla propria fantasia. Manca un ultimo tocco per rendere l'album eccezionale. Una pietra miliare del Progressive. Starless è l'ultima canzone dell'album, un brano epico per una fine epica. In questo pezzo Fripp si diletta nell'utilizzo del Mellotron, strumento classico del Prog, che carratterizza la prima parte della traccia. Se si ascolta la canzone attentamente si nota come il pezzo quasi vada in progressione, dal dolce al più marcato ma comunque lineare nella sua struttura. Nella parte centrale il tutto è caratterizzato da accordi ripetuti che accompagnano le percussioni di Bruford che aumentano di ritmo mano a mano per poi avere un brusco cambio di velocità all'ultimo. Ed è proprio quando si finisce di ascoltare questa canzone che si può definire l'album una pietra miliare. Un estremo capolavoro Progressive. Uno di quelli che andava ad arricchire la collezione visti quanti all'epoca se ne producevano.


Dopo Red i King Crimson si sciolsero per qualche anno, tornando con una formazione del tutto diversa solo nel 1981 in cui cambiò lo stile ma il tipo di approccio alla musica rimase sempre quello che li ha contraddistinti come uno dei gruppi più innovativi mai esistiti e lasciarono i loro fan con la bava alla bocca ma soprattutto con stile come fanno le vere leggende. L'album viene classificato dalla rivista Q Magazine come 19esimo album più duro della storia ma di citazioni nelle classifiche di Rolling Stone manco a parlarne. Si dice che questo lavoro sia uno di quelli che ha influenzato in maniera netta Kurt Cobain e i Nirvana. Come per le grandi opere d'arte spesso viene citato nel panorama musicale e si ha l'impressione che verrà citato sempre.


Voto: 9+

lunedì 16 agosto 2010

Ligabue - Arrivederci Mostro! (Warner Bros Records, 2010)


Tracklist:
1. Quando Canterai la Tua Canzone
2. La Linea Sottile
3. Nel Tempo
4. Ci Sei Sempre Stata
5. La Verità E' Una Scelta
6. Caro Il Mio Francesco
7. Atto di Fede
8. Un Colpo All'Anima
9. Il Peso Della Valigia
10. Taca Banda
11. Quando Mi Vieni a Prendere? (Dendermonde 23/01/2009)
12. Il Meglio Deve Ancora Venire
13. Un Colpo All'Anima (acusica) - ITunes Bonus Track

Definire Ligabue portabandiera della musica rock italiana è ormai diventata una moda, così come la sua musica, omologata e banale, lontana dai fasti rock che all'inizio potevano almeno dire qualcosa a quella platea (piuttosto numerosa) che, dopo il primo buon decennio del Vasco nazionale, stava ancora emozionandosi con chi voleva importare in Italia AC/DC, primi U2, Bruce Springsteen e quant'altro. 
"Arrivederci Mostro!", per molti un appuntamento da segnare sul calendario, uscito a vent'anni esatti dal bel disco di debutto dell'artista emiliano, rappresenta invece cos'è Ligabue nel 2010, cioè un rocker spompo, stanco, senza originalità e superato dai tempi che pretende rappresentare. Un peccato per una persona in realtà intelligente, simpatica, sicuramente sopra la media delle "rockstar" del suo calibro, ma è facile comprendere come fare della musica di qualità quando c'è chi comprerebbe il tuo disco gridando al miracolo anche se fosse una composizione casuale di flatulenze e rumori di fondo registrati in una campagna argentina, beh, risulti effettivamente difficile. Cosa non fanno i soldi?
L'apertura dell'album è affidata ad un brano pop molto easy-listening, chiave di lettura per l'intero lavoro, con una struttura assolutamente prevedibile, rivisitazione di una carriera sempre in discesa dal punto di vista della qualità artistica, svelando in realtà la novità di Ligabue, che rappresenta in realtà un effettivo declino, anche nella concreta scomparsa dei ritornelli orecchiabili, in virtù di un abbassamento di tonalità evidentissimo nelle linee vocali del correggese, che lasciano spazio ad aperture di chitarra ottime ma sopravvalutate da tutti. Il brano si intitola "Quando Canterai la Tua Canzone", ed è molto simile a "Il Mio Pensiero", hit di un paio d'anni fa, al secondo brano in tracklist "La Linea Sottile" e al primo estratto "Un Colpo All'Anima", singolo fresco ma sottotono. 
Un tentativo di rinnovarsi, piuttosto passionale e solo parzialmente riuscito, si effettua con i brani più rock, aggiornati nel sound comunque irreversibilmente legato (a livello sia di chitarra che di ritmiche) al sound di Bono Vox e compagnia bella. E' il caso di "Nel Tempo", che porta alla luce anche uno sbilenco sforzo di utilizzare un linguaggio diverso (cosa che non si nota negli altri brani, in realtà), citando anche numerosi nomi ritenuti importanti dal cantante (Falcone, Borsellino, Moro, Berlinguer, ecc.). Brano che funziona, non come "Ci Sei Sempre Stata", arrangiato perfettamente ma con una linea vocale che può risultare, ai più, indigesta. E' chiaro che qualcosa non va, e l'uguaglianza dei vari pezzi non solo tra di loro ma anche nei riguardi della vecchia produzione del Liga, è palese. "La Verità E' Una Scelta" sembra un plagio dei Nomadi di "C'è Un Re" e forse per questo è uno dei brani meglio riusciti, con un testo vagamente impegnato ed interessante sotto il punto di vista semantico quanto metrico, indirettamente teso a tributare band come appunto la vecchia formazione dei tempi d'oro di Daolio. Peccato per il ritornello abbastanza melenso. E poi c'è "Caro Il Mio Francesco", canzone/lettera all'amico Francesco Guccini, già collaboratore con "Ho Ancora la Forza", qualche anno fa, che ricalca la vecchia "L'Avvelenata", citandola esplicitamente sia con il titolo che con frasi da essa tratte, per criticare l'ipocrisia e alcuni comportamenti dello star system o della gente nei confronti delle celebrità. Un brano poetico, impegnativo da digerire, con una presa melodica quasi drammatica, che cede solo in alcuni momenti, risultando alla fine il momento più ispirato, nonostante la scarsa originalità anche dell'arrangiamento, dell'intero disco. Resta inteso che sentire Ligabue incazzarsi con la gente dicendo che "rispondere agli insulti è solo bassa promozione", può risultare un happening risibile: nonostante questo ci si può credere. 
Impegnativo invece il tema scelto per "Quando Mi Vieni a Prendere?", che parla dell'omicidio di due bambini e una maestra avvenuto nel 2009 a Dendermonde ad opera di uno squilibrato vestito da Pierrot. Arrangiamento meno insapore del solito, ma un'interpretazione, di nuovo, sopra la media per gli standard dell'artista. Strappalacrime, una volta letta la cronaca nera di quel giorno.
Gli altri brani sono tutti troppo banali per essere descritti in maniera completa, e infatti "Atto di Fede", il migliore della seconda parte del disco, è talmente identico a tutti i brani degli ultimi lavori di Luciano che non ha bisogno di nessuna spiegazione. Può piacere, così come "Il Peso della Valigia", insipida e vuota, ma apprezzabile per l'interpretazione e una scelta di linee vocali che ricalca il cammino classico con una certa trasparenza di emozioni che non sempre Ligabue lascia piovere sull'ombrello dei fan tanto facilmente. Soprattutto quando spinge sulla voce. 
Cosa si salva quindi nel decimo disco di Ligabue? La dedica a Guccini, l'aggiornamento di alcuni tratti del sound e del lessico, un'interpretazione ottima nei momenti più distesi e drammatici, una produzione ottima affidata al bravo Rustici e gli arrangiamenti fantastici dei sessionmen che lo seguono. Per il resto, non è cambiato assolutamente nulla da Nome e Cognome, album debole, fragile, sofferente in tutti i punti necessari per definirlo un "vero e proprio album rock". Essenziale per i fans, inutile per tutti gli altri, ma poteva andare molto peggio. 

Voto: 6-

domenica 15 agosto 2010

Fish and Clips #7: Fatboy Slim (parte 2)

Continua la descrizione della brillante carriera da star dei video (seppur non sia praticamente mai apparso di persona) di Cook, che vede però ad un certo punto un consistente declino nella qualità e nelle idee. E' una cosa umana, soprattutto arrivati gli -anta e finite anche, in maniera piuttosto evidente, le principali fonti d'ispirazione (o, nel suo caso, di sampling) per la musica. Ma qualcosa, sia nella musica che nei video, si salva eccome.
Ripartendo da "Weapon of Choice", il singolo immediatamente successivo a raggiungere rinomanza internazionale è "Ya Mama", brano trascinante e movimentato con un videoclip altrettanto trascinante e movimentato, diretto dal celeberrimo collettivo Traktor, già (all'epoca) collaboratore di artisti come Madonna e Basement Jaxx. Nel video una cassetta del brano che fa immotivatamente (ed incontrollatamente) scatenare chiunque la ascolti. Sotto di tutto ciò, ma prima del resto, l'embed.





Ora che l'avete rivista ve la ricorderete, molti la chiamano "Push The Tempo". Fin troppo famosa no? Da qui in poi la strada è abbastanza in discesa, ma alcune canzoni rimangono comunque abbastanza "radiofoniche" da aver venduto abbastanza, lasciando comunque alle spalle una scia di successi che definire notevole sarebbe riduttivo. 
Superato qualche singolo privo di video o con video dallo scarso interesse ("Retox", "Drop the Hate", ecc.) si arriva a "Slash Dot Dash", brano fulminante, e fulminato, con un ritornello azzeccatissimo e una struttura che però poco dopo rivela la sua fragilità, come quella del video, ben realizzato, ma sottotono. Eccolo. E dopo di lui arriva uno dei migliori video degli ultimi dieci anni, sempre all'interno della produzione del buon Cook, con una città popolata solo da adorabili gattini a fare da sfondo a "The Joker", pezzo più lento della media dei suoi brani, ma tutto sommato godibile. Embed.





E poi è l'ora di "Don't Let The Man Get You Down", con un "razzista a cui piace pescare" di nome Don come protagonista del video, filmato con lo stile di una pubblicità in bianco e nero degli anni '60. Qua. E qua invece c'è "That Old Pair of Jeans", il cui video è stato affidato al celebre giocoliere Chris Bliss. "Juggle to Music Like Chris Bliss" è invece il nome del contest su MySpace che Fatboy Slim ha indetto per stimolare la gente a caricare video in cui imitavano il protagonista del videoclip. Cercateli, alcuni sono divertenti. 
E se vi piace il domino, il video di "Champion Sound", inedito tratto dal Greatest Hits, fa al caso vostro:





Il finale vi dice qualcosa?
Finale perfetto per un video, con l'apparizione del protagonista quasi sempre assente che finalmente si degna di fare un cameo. Ecco, si degna di farlo anche per la fine di questo post, col suo faccione simpatico. Alla prossima.



sabato 14 agosto 2010

Fotoreport #9: Zen Circus SPECIAL - parte 2

Le foto sono di Monelle Chiti. Il link del FlickR si trova a destra.
Queste foto sono state scattate al Rock Island di Bottanuco (BG), durante la giornata del 3 Luglio 2010. 


Su GTBT si parla di Zen Circus anche qui:
concerto a Udine
concerto a Ferrara
foto del concerto a Ferrara
recensione di "Andate Tutti Affanculo"

venerdì 13 agosto 2010

Fish and Clips #7: Fatboy Slim (parte 1)

Quentin Leo Cook, quarantasettenne, in arte Fatboy Slim, ha sfornato alcuni dei video più fighi mai usciti. Sarà che all'epoca in cui è uscito dall'anonimato i videoclip erano ancora finanziati a centinaia di migliaia di dollari dalle case discografiche prima di diventare le macchiette inutili che sono adesso, sarà che lui ha fatto dei grandi dischi e non c'è ragione di pensare che non avesse anche delle bellissime idee da convogliare in un video, ma alcune perle meritano di essere elencate in questa terribile rubrica.
Nella storia dei suoi videoclip ci sono alcune cose che si possono saltare, come le varie versioni di "Everybody Needs a 303", di cui vale la pena solo guardare la copertina del remix. 



Lasciando stare che sembra un incrocio tra una pornostar e gli omuncoli del pianeta strano di Avatar. Si arriva al primo singolone, "The Rockafeller Skank", con l'ottimo video che qui trovate. Divertente e neanche troppo costoso, all'epoca si guadagnò grande popolarità "con poco" (basta pensare alla scena del chewing gum). Trash, a suo modo, ma geniale, come il video "esplosivo" di "Gangster Trippin'", coinvolgente, fresco, e piuttosto dannoso per i cervelli deboli. Basta pensare che ogni volta che lo vedo mi viene voglia di far saltare in aria tutta la mobilia del primo luogo chiuso dove vado. Qui.
Per "Praise You", girato dal celebre Spike Jonze che appare anche nel video medesimo, si è usata la mirabolante tecnica "guerrilla", o diciamo con termini impropri, candid. Il video è stato girato ad un cinema a Westwood, in California, tra lo stupore dei passanti, ed è costato poco più di 800 dollari. Qui sotto.


Il video più celebre, non solo per la qualità dell'animazione che rappresenta l'evoluzione da cellula a uomo di un "americano medio", come si apprenderà dal finale, stucchevole nella realizzazione e assolutamente godibile in tutti i suoi 3 minuti. Qui sotto anch'esso. Gran canzone, per chi non lo sapesse creata grazie a un sample di "Ashes, The Rain & I" di James Gang, che sarebbe questa. Riconoscete qualche somiglianza? Io si.  


"Sunset (Bird of Prey)", bella canzone ma non certo la sua migliore, ha un video spettacolare. Ripreso a sud di Cambridge dalla Flight Logistics di Borehamwood, mostra...beh, guardate cosa mostra. Interessante notare che il pilota è statunitense e l'aereo britannico. Inoltre verso la fine compare la parola MK-ULTRA, che fa riferimento a questo progetto segreto della CIA, ormai neanche più tanto segreto. Ne hanno parlato anche i Muse nell'omonima canzone, qui eseguita live a Torino nel 2009. E questo è il video di "Sunset".
Uno dei video più belli a livello di immagini è quello di "Demons", incluso solo nel DVD del singolo. "Demons" è una canzone eseguita da Macy Gray che non rappresenta certo uno dei più grandi successi né del DJ inglese né della cantante, ma come vi dicevo, il video è molto interessante, soprattutto per le tecniche con le quali è stato filmato. A voi il giudizio.
Se vi piacciono ballerini e uomini volanti non potrete invece non apprezzare il grandissimo (e famosissimo) video di "Weapon of Choice", nella versione CD preceduta dall'altra parte del singolo, "Star 69", ma nella sua parte visiva abbandonata a sé stessa. Spike Jonze mette a segno l'ennesimo video di successo grazie all'attore (ed abile danzatore, si scopre) Christopher Walken. Embed, downstairs.



I maledetti odiano l'embed per cui potrebbero disattivarlo. Al limite, avvisateci.
Si continua nella "parte 2", domani. Saluti. 


mercoledì 11 agosto 2010

Fotoreport #9: Zen Circus SPECIAL - parte 1

Le foto sono di Monelle Chiti. Il link del FlickR si trova a destra.

Queste foto sono tratte dal live al MIAMI, festival organizzato da Rockit e tenutosi la prima settimana di giugno all'idroscalo di Milano. Gli ZEN CIRCUS hanno suonato il 5 Giugno:

martedì 10 agosto 2010

Fotoreport #8: Port-Royal Live @ What Is Rock, Portomaggiore (FE) 07.08.2010

Il What Is Rock Festival è uno dei maggiori festival della provincia di Ferrara. Il calendario dell'ultima edizione è stato folgorante, e lo trovate qui sotto nella locandina ufficiale. Avete tempo fino al 15 per andare a divertirvi a Portomaggiore!




Se cliccate si può ingrandire, altrimenti trovate comunque la lista delle band che hanno suonato sull'evento Facebook che potete rintracciare qui.
Eleonora Verri ha fotografato per noi i Frigidaire Tango (eccoli) e oggi i Port-Royal, dei quali trovate in fondo anche tutte le prossime date (all'estero, peraltro). Meglio di così!




Il loro tour internazionale toccherà queste città:
15.09 MOSCA, Russia
16.09 SAN PIETROBURGO, Russia
17.09 RYAZAN, Russia
18.09 SAMARA, Russia
15.10 LONDRA, Gran Bretagna
19.10 BIRMINGHAM, Gran Bretagna
21.10 YORK, Gran Bretagna
24.10 ABERDEEN, Gran Bretagna
25.10 EDINBURGO, Gran Bretagna
29.10 LONDRA, Gran Bretagna

lunedì 9 agosto 2010

Fotoreport #7: Frigidaire Tango live @ What Is Rock Festival, Portomaggiore (FE) 04.08.2010

Il fotoreport è a cura di Eleonora Verri.
Trovate la recensione dell'ultimo disco dei Frigidaire Tango, qui 



domenica 8 agosto 2010

Stars In Coma - And The Cloud Withdrew From The Sky (Kingem, 2010)


Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
Tracklist:
1. In My Prison

2. Arcane Abstractions
3. Macro-Emotions
4. The Overlords
5. Those Soft Clouds
6. NYE
7. Am J Hermetical
8. Intentions of Show
9. Vibrant Dreams
10. Hardly a Memory Remains
11. Golden Sight, Golden View
12. My Hidden Fears

Recensione:
Stars In Coma è un progetto svedese capeggiato dall'artista André Brorsson, che ha deciso di esplorare in maniera propria le vie dell'(electro)indie pop à-la-Animal Collective, per tentare di dare, forse, una svolta a questo genere ultimamente battuto a destra e a manca in maniera, possiamo dirlo, anche esagerata.

E' evidente che questo disco ha le carte giuste per giocarsi una sfida ad armi pari contro i big del genere, ma senza citare tanti nomi addentriamoci nelle tracce. Il disco si apre con una ballad puramente indie (come il resto del disco del resto) di ottima fattura, con delle melodie di archi sintetizzati e basso veramente azzeccate. Catchy, a dir poco. Un cliché che si ripete più o meno in ogni canzone, ma è in "Arcane Abstractions", "The Overlords" e "Vibrant Dreams" che si apprezzano maggiormente l'orecchiabilità e l'ottima composizione delle linee principali, che regalano a tutto il lavoro un'intensa atmosfera radiofonica ma comunque abbastanza informale, vicina per certi versi agli ultimi lavori di OK Go e MGMT, ai già citati Animal Collective ma anche ad Arcade Fire, Atlas Sound e Grizzly Bear. Nominarne altri non servirebbe. "Hardly A Memory Remains" fa parte di quel gruppo, abbastanza nutrito, di brani che si accompagnerebbe volentieri ad un viaggio in macchina, pur avendo nel complesso un sound abbastanza "discotecaro", che però strizza l'occhiolino al panorama british (o anche americano?) nonostante la Scandinavia coi suoi suoni sia comunque vagamente udibile, a fare capolino dietro le linee vocali del protagonista di questo interessantissimo progetto. Se c'è qualcosa che si può rimproverare in questo ottimo And The Cloud Withdrew From The Sky forse è proprio la mancanza di caratterizzazione della musica, che si accosta troppo ai sentieri già percorsi e ripercorsi da decine di artisti (non solo quelli soprariportati) in tutto il mondo, anche se bisogna ammettere che il modo in cui alcuni spunti melodici vengono inseriti a metà strada tra electro-pop, alternative (il momento massimo nella distortissima "NYE"), elettronica, disco di stampo eighties e dance di pura matrice nordica, saprebbe stupire chiunque, anche chi ha sempre avversato questo tipo di musica.
La produzione, notevole, lungi dall'essere superficiale in tutti i punti che le competono, si assesta in un livello comunque medio-alto, senza toccare i picchi delle major che, bisogna dirlo, in certi generi rischiano anche di affossare eventuali frangenti di qualità. Ed in questo caso, dove sicuramente si può immaginare un suono migliore come portatore di un abbassamento della qualità generale del prodotto, questa scelta, voluta o meno, è la ciliegina sulla torta. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Ottimo. 

Ps. Pollice alzato anche per l'artwork disegnato da Zonda e Carlsson


Voto: 8+

sabato 7 agosto 2010

Fotoreport #6: Marta Sui Tubi (Secret Concert) live @ Contrapò, Ferrara 28.07.2010

Le foto sono di Eleonora Verri. Il concerto si è tenuto come secret concert al Contrapò di Ferrara.

venerdì 6 agosto 2010

Fotoreport #5: Alborosie live @ Villa delle Rose, Lanciano (CH) 31.07.2010

Il fotoreport è a cura di Martina di Toro.
Alborosie è un cantautore salentino trasferitosi in Jamaica per approfondire la cultura rastafariana. Se ne torna con un gran repertorio di musica tipicamente reggae che porta in giro per l'Italia insieme ai Jamafrica Crew, sua band di supporto. Ha preso parte alla serata anche un ospite direttamente dai Maga Dog.

giovedì 5 agosto 2010

Frontier(s) - There Will Be No Miracles Here (Arctic Rodeo Recordings, 2010)


Tracklist:
1. Little Wolves

2. Von Veneer
3. Sea of Galilee
4. Abul Abbas
5. Bones
6. Marching Line
7. Poor Souls
8. Young Lives
9. You Are Secrets
10. Dirty Pets

La Arctic Rodeo Recordings continua a fare centro. Dopo ottimi dischi come quelli di Far e Walter Schreifels, in questo 2010 infila un'altra vittoria con il bellissimo rock work dei Frontier(s), formazione americana uscita direttamente dal Kentucky e che basa il suo alternative garage-oriented su di un'impostazione prettamente statunitense, come la voce del frontman Chris Higdon e le pesanti linee di basso di Bryan Todd attestano pienamente.
La produzione di questo disco è abbastanza casereccia, forse per una scelta personale. Facendo finta che sia successo per caso, giusto per dare un approcco più critico alla recensione, si può parlare di un tipo di sound abbastanza "band emergente", filtrato però dalle mani di musicisti con esperienza che riescono infatti ad infilare anche buone dimostrazioni di tecnica e composizione, lasciando a marcire in un angolo i pochi errori (soprattutto di batteria) che sono rimasti evidenti anche nel mix finale. Ma chi se ne frega, no?
Per quel che riguarda i brani, There Will Be No Miracles Here è abbastanza lineare. Pochi elementi di differenziazione tra un pezzo e l'altro, nonostante una gamma di riff piuttosto varia, dove però il suono sempre molto graffiante, pieno e quasi "turgido" delle chitarre di Higdon e Wieder funge da ottimo elemento di coesione, riportando tutto sullo stesso piano. Ce lo insegna la prima traccia, "Little Wolves", insieme soprattutto a "Sea of Galilee", tra i brani più rappresentativi. Nel disco anche qualche ritornello dalla forte verve radiofonica, come quello di "Abul Abbas", pezzo abbastanza vicino a quella brio indie americana che ha partorito già band del versante southern come i Kings of Leon o i meno barocchi Death Cab for Cutie (non che abbiano molto in comune, in realtà, ma la vivacità rock di molti brani fanno pensare a entrambi). Il sound si fa più cupo, quasi in orbita stoner, in "Poor Souls" e "Marching Line", pur mantenendo un comparto ritmico sempre abbastanza light, non tanto nel suono, che esce sempre piuttosto "punchy", ma nel tipo di incastri ritmici che l'accoppiata basso-batteria si impegna a creare in situazioni come l'apertura di "Young Lives", dotata di una corposa introduzione affidata alle due parti "martellanti" dell'ensemble.
I Frontier(s) realizzano tutto sommato un disco d'impronta molto standard, un rockettino senza pretese e che trova solido cemento nella scena americana, che negli ultimi anni ha avuto peraltro un'evoluzione notevole su scala mainstream internazionale. Qualche perfezionamento a livello di precisione e non mancheranno di stuzzicare anche i palati più esigenti. Per un futuro migliore nel "rock base", ecco a voi i Frontier(s). 

Voto: 7.5

mercoledì 4 agosto 2010

Agosto di fuoco (pt 2)

(continua da)
16.08.2010 Buzzcocks - Brescia
17.08.2010 Iron Maiden - Codroipo (UD)
17.08.2010 Nina Zilli - Fratta Polesine (RO)
18.08.2010 Agnostic Front - San Giuseppe di Comacchio (FE)
19.08.2010 Sick Tamburo - Brescia
21.08.2010 Sick Tamburo - Meolo (VE)

24.08.2010 NOFX - Brescia
25.08.2010 Tre Allegri Ragazzi Morti - Brescia
26.08.2010 Perturbazione - Bologna
27.08.2010 Melissa Auf Der Maur - Bologna

28.08.2010 Il Teatro degli Orrori - Marano Vicentino (VI)
28.08.2010 Silver Rocket - Adria (RO)
28.08.2010 Sir Oliver Skardy - Porto Tolle (RO)
31.08.2010 Hole - Padova

martedì 3 agosto 2010

Fotoreport #4: Perturbazione live @ Carroponte, Sesto San Giovanni (MI) 28.07.2010

Reportage fotografico a cura di Monelle Chiti (trovate il suo link personale nel menu "le foto sono di..." qui a destra)

lunedì 2 agosto 2010

Evasione dal mondo della musica

Ogni tanto bisogna ammettere il fallimento delle cose che ti stanno più a cuore. La musica, un'arte che nessuno di "importante" considera tale, un insieme di diverse componenti che una volta unite sanno convogliare sentimenti, emozioni, storie, e chissà cos'altro a persone che quasi solo in questi casi si dimostrano tanto ricettive. Un insieme di diverse componenti che si stanno sgretolando, ed è innegabile.
Sono passati gli anni in cui tutti i generi avevano una loro fetta di pubblico, caratteristiche proprie, àmbiti propri, locali propri. La globalizzazione ha colpito anche questo. Il punk non è più punk, il grunge, il metal, il pop non sono più quello che dichiaravano di essere, o di voler essere del rap non parliamone. Tutto è fruibile da tutti, tutto è pop. Se Fare il Cantante, unico pezzo che reputo accettabile della band italiana Le Strisce, è un modo perfetto di dipingere la vita dell'artista italiano, lontano da quando il musicista viveva in maniera molto bohemienne, tra droga, sesso e il proverbiale rock'n'roll (ci si ricorda sempre e solo degli eccessi dei soliti noti, Sex Pistols, Rolling Stones, ma tutti gli altri dove li lasciamo? Janis Joplin? Jimi Hendrix? John Bohnam?), sempre più omologato e adagiato sul lusso che diventa appannaggio di pochi. L'industria mangia tutto, dal basso e dall'alto. La mafia musicale, quella degli agenti, del booking, dei promoter, dei talent scout, del talent show, della TV mainstream, dei discografici, delle riviste à-la-Rolling Stone, decide per tutti, anche per chi detiene diritti di guadagno e di immagine che ormai non significano più niente. Ad organizzare, gestire, decidere, ci pensano loro. Spesso decidono anche cosa devono vestire gli artisti, o cosa devono dire sul palco, le setlist dei concerti, le date d'uscita dei dischi. Un rinvio di una data d'uscita che sul calendario della major ha un significato economico, magari opposto a quello del povero artista che della musica non ci campa più, al contrario di quello che l'immaginario collettivo vuole essere "giusto" per un musicista, sempre dipinto come un riccone, sprecone, pronto a mostrarsi in giro agghindato come un pazzo e con la sua Lamborghini gialla, magari con qualche neon di sotto. Non siamo nell'America dei rapper, ma il rap (o meglio l'hip hop) da una chiave di lettura molto importante anche qui. In Italia tra i prodotti più anomali della mafia musicale nel genere del rap ci sono Mondo Marcio, Marracash, Nesli e soprattutto suo fratello, il buon Fabri Fibra. Dico "buon" perché prima di arrivare al successo era un rapper di grande nomea nel circuito underground prima marchigiano e poi milanese, ma dopo essersi venduto all'Universal ha pensato bene di correre ai ripari, passando dal suo linguaggio violento, dissacrante, irrispettoso di tutto e tutti, a un linguaggio graffiante ma omologato, parlando di star system, veline, personaggi dello spettacolo diffamati solo perché ormai "è di moda" (per non far mai tramontare la moda del dissing, forse), denunciando a volte lo stesso sistema che ha accettato integralmente per guadagnare qualche euro di più. Il fatto che anche i prodotti stessi di questa grande organizzazione criminale ne parlino senza uscirne è la più grande sconfitta della musica italiana ed internazionale, dove ci si compromette per i soldi. E non si tratta di "vendersi", come accusano alcuni detrattori del settore, per fare una soundtrack o un featuring, ma di "svendersi", un termine ben diverso per la spiegazione del quale vi rimandiamo al buon Zanichelli 2011, che dovrebbe essere in uscita. 
Un'altro segno evidente del declino è il tracollo del compromesso. Una volta fare musica politicizzata significava guadagnarsi una forbice di pubblico abbastanza specializzata ma fedele, perché impegnandoti in cause che loro condividevano, esplicitando e musicando punti di vista in cui loro si riconoscevano, avresti reso un'arte, che pertanto tende, per sua natura, ad essere più decorativa che contenutisticamente valida, veramente utile a raccontare qualcosa, a cambiare qualcosa. In questo senso aveva uno scopo quasi missionario, ma non fraintendetemi. L'impegno sociale della musica che è passato dai sessantottini, alla storia nera dell'Italia (chi ha guardato indietro agli anni del fascismo, al terrorismo rosso e nero degli anni settanta ed ottanta, all'Anonima Sequestri, alla mafia, ecc.) alle condizioni esasperanti della politica italiana (e non solo) odierna, si vede oggi esaurito in piccole canzonette simil-rivoluzionarie, solo perché è di moda etichettarsi tale così come essere emo, gabber, rapper, skater, fascista, comunista, o tutto il resto. Incredibile, ma vero. Dove ancora una volta i veri portavoce della cultura, gli artisti e gli organizzatori di eventi in associazioni, locali, festival, sono sempre quelli, le facce note dell'Italia di sinistra che però si vende all'economia facile del risparmio, dove ad ogni concerto rischi di essere schiaccato sotto al palco montato male per tagliare le spese. Dove la crisi si è portata via anche la nostra fottutissima musica.

Se fare musica significa questo, forse erano meglio i tempi in cui per divertirsi le band lanciavano i televisori degli alberghi sulle macchine di passaggio mettendo tutto sul conto delle case discografiche. Insieme alle spese per l'eroina. Bei tempi quelli, vero Metallica?

domenica 1 agosto 2010

Menuagia Mora - Coulrofobia (autoproduzione, 2010)


Tracklist:
1. Avido
2. Confini
3. Cuore e Carne
4. Dissento
5. Giorni di Giada

6. Poli-ticos

Recensione:

Coulrofobia, un disco del progetto Menuagia Mora, merita un po' di introduzione, della quale, per i detrattori dei preamboli, mi scuso. Menuagia Mora è un progetto di "pop violento", com'è già stato definito altrove, veneziano, registrato nello studio Nigrelli's e masterizzato dal celebre Max Trisotto, già collaboratore di band venete come Riaffiora, Pitura Freska, Jennifer Gentle, Francesco Cerchiaro e Wora Wora Washington e poi di artisti più rinomati del calibro di Estra, Beatrice Antolini, Marta Sui Tubi, Non Voglio Che Clara e tanti altri. Aggiungiamo che nell'album sono contenute narrazioni riguardanti il magistrato ucciso dalla mafia nel 1992 Giovanni Falcone (vere e proprie citazioni di frasi da lui pronunciate all'epoca degli "omicidi eccellenti") e che ogni copia venduta manda direttamente un euro ad Emergency e il gioco è fatto.
Un progetto tanto ambizioso, già per i nomi che vi ruotano attorno, ma che ha comunque basse pretese per quanto riguarda il tipo di cerchia nella quale desidera inserirsi (lo si capisce anche dall'incartamento e dalla presentazione un po' low-budget di copertina e stampa del disco, motivabile anche come basse disponibilità economiche che comunque non si possono certo imputare agli autori come una colpa, sia chiaro). Contiene un pop altamente contaminato di cantautorale, su molti versanti vicino al rock italiano "tipo", quello di Litfiba e Timoria. Corre quindi su binari più classici, e non poteva che essere altrimenti visto il tenore di testi, spesso energetiche invettive o testi abbastanza politicizzati, sebbene sia doveroso specificare che le tematiche sociali sono vagamente intrise di una svolazzante e tersa atmosfera intimista, che rifugge nel realismo per narrare momenti di vita di tutti i giorni, quasi come si fosse tornati al "verismo" verghiano che mai si è espanso troppo nei rivoli della musica italiana (o forse un po' nella disillusione di De Andrè l'avrà fatto?). Ruvide reminiscenze grunge (in "Dissento"), qualche gesto funk di puro condimento e sensazionali impennate di chitarra, che purtroppo non rasentano mai l'originalità che meriterebbero; siamo sinceri, il senso del disco è un altro e i testi molto intensi di Andrea Sarzo-Herschelmann e Ali Marella assumono una dimensione diversa trasferendola anche alla musica che perde così il suo significato di puro contorno per tingersi di toni più accesi e vividi. Forse sarebbe meglio dire vivaci, o variopinti. Si, perchè c'è di tutto in un disco così, in alcuni momento melodico come la canzonetta all'italiana richiede, in altri quasi melodrammatico però sempre sul filo del rock, con distorsioni tese a graffiare, taglienti e scheggiate, con una lieve smussatura che tocca solo la parte ritmica, a lasciare il sound sempre abbastanza sporco e, per l'appunto, rock. Forse addirittura punk, nell'anima perlomeno.
Ottimi testi, buona tecnica, interessante produzione. Insomma un lavoro che merita sotto vari aspetti e che non lascerà a bocca asciutta praticamente nessuno che non si aspetti troppo da un progetto che ha la "minutaglia" (la "menuagia" in veneto, come ricordano gli stessi artisti nello space, è un tipo di pesce, o di pesciolini, piuttosto costosi che si usano nella frittura, ma "menuagia mora" in realtà fa direttamente riferimento ai soldati che si presentavano senza divisa, risultando irriconoscibili) già nel suo nome. La voce caratteristica, stabile e piena di Ali non vi deluderà, promesso.


Voto: 7.5