domenica 25 marzo 2018

Mirco Menna - Il Senno del Pop (Volume!, 2017)

Da Bologna, Mirco Menna si lascia alle spalle la sua personale predilezione per Modugno - sempre nettamente udibile, sia chiaro - per arrivare ad una produzione (quasi) totalmente propria, indicativa di un percorso dove la graduale presa di coscienza dei linguaggi pop lo hanno condotto a produrre un disco di alto spessore pur rimanendo entro i confini del radiofonico. 
Questo "Il Senno del Pop" salta a pié pari tra momenti ballabili e altri più riflessivi, non dimenticando il sacrosanto principio dell'inserimento di un contenuto, esplicitamente o più tra le righe, in ogni caso presente. "Sole Nascente" e la riproposizione di "Chiedo Scusa se Parlo di Maria", già edita, sono i momenti più intensi e intrisi di significato, pregni di una metodicità anche compositiva che fa riflettere. Per essere pop oggi serve obbligatoriamente seguire uno schema o può essere sufficiente trovare il modo di recapitare agevolmente ogni tipo di messaggio? La seconda sembra essere la via prescelta da Mirco, quando sceglie di traslare nell'immediatezza un brano comunque complesso e con un vago deficit di energia nell'arrangiamento, ovvero "Arriverai", dove uno strepitoso Enrico Guerzoni al violoncello (ci sarà nuovamente in "Da Qui A Domani", altro altissimo capitolo di questo lavoro) tiene alta la soglia dell'attenzione anche con i vuoti, ove manca. Non è l'unico caso di ospite che monopolizza l'attenzione poiché accade nuovamente con la tromba ne "Il Descaffalatore", laddove un Maurizio Piancastelli in grande spolvero si intesta gli onori del disco regalando un senso di alienazione costante che impreziosisce anche le parole interagendo con il loro significante. Suona bizzarro ma totalmente finalizzato all'obiettivo foderare il disco di grandi contributi esterni, con una direzione artistica notevole, e i risultati si sentono e non possono essere messi in discussione. 

Principale pregio di questa intelligente uscita dell'emiliano è senza dubbio la sua complicità con il piano dell'orecchiabile, con cui tenta di fondere un'ingente fame di raccontare e di farlo senza seguire alcuna regola. Il risultato è un lavoro che non scoccerà nessuno, ma rischia al contempo di passare inosservato. Certo, ogni musicista si augura che il proprio pubblico cresca in ampiezza e in affezione, ma a volte si sceglie di sguazzare in una sana e vitale qualità che, di suo, non potrà incontrare un'approvazione universale. Questo probabilmente è il caso, un caso da cui non distrarre l'attenzione nel futuro. 

mercoledì 14 marzo 2018

Chiara Giacobbe - Lionheart (Sciopero Records, 2017)

38 anni, alessandrina, formazione musicale accademica: è questo l'identikit di Chiara Giacobbe, violinista e songwriter già al lavoro con, tra gli altri, Trent Miller, Yo Yo Mundi e Antonio "Rigo" Righetti
Scendendo nei meandri di "Lionheart" scopriamo subito il talento spaziale della Giacobbe, armata del suo violino suonato con foga circense in "My Mexico" e di un primordiale spirito autobiografico, mutuato da ascolti certamente di alta scuola cantautorale, che emergono con prepotenza e altrettanta matura sincerità nei brani più posati, come la title track e "I Can't Get Over You". Niente strizzate d'occhio al pop moderno, nessun eccesso di tecnica, ma colorazioni blu e gialle, senza troppa allegria, che esplodono in un tripudio di energia ("Let You Breathe") o imbrogliano l'ascoltatore ("Pet Lion") irretendolo in quel bisogno indotto di un cantato che invece il pezzo, strumentale, non intende soddisfare. E funziona, forse, meglio così. Il resto certamente non risulta all'altezza dei brani citati, pur rimanendo in una cornice qualitativa pienamente sufficiente. Qualcuno individua nelle parole di Chiara un exploit di femminilità, l'urgenza di spiegare al mondo cosa e come sente una donna, messaggi che possono arrivare fin dove la musica non sovrasta le liriche e diventa protagonista. La Chamber Folk Band, infatti, composta da musicisti di alto livello come Daniele Negro, Marco Rovino, Luca Bartolini, Rino Garzia e Andrea Chellini, segue la piemontese in maniera fedele e attenta, dando il giusto lustro alla sua voce e al suo modo di comporre, ma in più di qualche occasione predominano, relegando dietro le quinte il contenuto dei brani per portare l'ascoltatore a quella naturale propensione per il semplice approccio melodico tipica dell'italiano medio che non conosce l'inglese. Tornando ai musici, basso e batteria marciano dritti e possenti, dando al folk, al bluegrass, al blues più cantautorale e di stampo americano un accento più rock, mentre sono eccezionali gli altri strumentisti a tentare di conferire cenni di novità stilistica ad un prodotto tanto ben confezionato e costruito, quanto "vecchio", seppur nel senso meno negativo del termine. 

Un lavoro pregiato, sartoriale, gonfio di un'eleganza antica ma strafottente, perché è anche giusto togliersi lo sfizio di fare la musica che piace, senza porsi il problema di essere giocoforza innovativi.