venerdì 27 aprile 2018

Yes - Fly From Here - Return Trip (Yes '97 LLC, 2018)

Cosa avrebbero detto i vari gruppi punk usciti a fine anni 70 se avessero saputo che la seconda decade del XXI secolo sarebbe stata dedicata soprattutto alle celebrazioni del cinquantennale (mezzo secolo!) dalla nascita di molti di quei complessi che loro stessi quarant'anni fa consideravano dei "dinosauri"? Comunque la si pensi a riguardo, va detto che spesso è un miracolo che alcuni di questi siano riusciti a durare così tanto tempo. Gli Yes sono sicuramente l'esempio maggiore: una band che ha scritto alcune delle pagine più belle della storia del rock ma che, allo stesso tempo, è stata una grande ed enorme famiglia disfunzionale composta da vari cugini, zii e parenti che non si sopportano tra di loro e che, a rotazione, passano da prendersi a pugnalate alle spalle a ricongiungersi e, dopo qualche anno, ricominciare a prendersi a pugnalate. 

Le vicende che ruotano intorno alla realizzazione del loro ventesimo album in studio "Fly From Here", pubblicato nel Giugno 2011, riassumono piuttosto bene le politiche interne del gruppo. Nel 2008, Jon Anderson, lo storico cantante del gruppo e, secondo non pochi, uno dei marchi di fabbrica del sound degli Yes ebbe diversi problemi respiratori alla vigilia di un tour, il primo dopo quattro anni di inattività, rischiando la vita e venendo costretto a prendersi almeno sei mesi di pausa. Assolutamente non intenzionati ad annullare un tour per una bazzecola del genere, i suoi illustri colleghi Steve Howe (chitarra), Chris Squire (basso), Alan White (batteria) e Oliver Wakeman (tastiere), figlio del grande Rick Wakeman, il tastierista più famoso degli Yes, decisero di procedere comunque reclutando un cantante che potesse ricoprire meglio possibile il ruolo del frontman e che, per giunta, conoscesse pure bene il repertorio. Quale miglior metodo di ricerca se non all'interno delle cover band? La scelta cadde sul Canadese Benoît David, un giovanotto dalla timbrica vocale molto simile a quella di Anderson che da anni militava nella cover band Close to the Edge. Durante questo periodo, decisero che David sarebbe stato in tutto e per tutto il sostituto di Anderson, al quale venne dato il benservito a mezzo stampa dopo anni di onorata carriera. Come comprensibile, la cosa ebbe effetti negativi (l'ira di Jon Anderson si accomunò a quella di molti fan della prima ora che rifiutavano a priori qualsiasi versione degli Yes non lo comprendesse) ma anche positivi: la presenza di un cantante che da anni faceva parte di una cover band aveva consentito al gruppo di inserire alcuni pezzi rari e poco suonati dal vivo in scaletta e l'assenza di Jon Anderson finalmente dava carta bianca agli Yes di eseguire dal vivo dopo 29 anni i brani tratti da "Drama", il loro decimo album in studio pubblicato nell'Agosto 1980, passato alla storia per essere stato l'unico prima di allora a non contenere Anderson come cantante, col tempo diventato un disco di culto presso i fan più accaniti. Al termine del tour, gli Yes, rinvigoriti, decisero di andare in studio di registrazione per la prima volta in dieci anni, e di chiamare come produttore Trevor Horn: colui che aveva preso il posto di Anderson per "Drama" e che, poco dopo, si era ritirato dal suo ruolo di cantante per intraprendere una validissima carriera nel mondo della produzione. Horn era intenzionato a riprendere in mano alcuni brani che erano stati composti per un mai realizzato sequel di "Drama". Questo, ovviamente, significava una sola cosa: alle tastiere doveva esserci Geoff Downes, co-autore di quei pezzi e membro della line-up di "Drama", oltre che, assieme a Horn, parte del duo new wave The Buggles, autori della celeberrima "Video Killed the Radio Star". Così, dopo alcune session preliminari, il povero Oliver Wakeman venne cacciato, Downes, che suonava negli Asia assieme ad Howe, tornò al suo posto dopo 31 anni e l'album che ne risultò, "Fly from Here" diventò un quasi sequel di "Drama" con un cantante diverso. Il prodotto finale, nonostante tutto, riuscì piuttosto bene e potete leggere una recensione risalente a pochi giorni dalla sua uscita proprio su questo blog, ad opera dell'ottimo Donald McHeyre.

Siamo nel 2018 e sono passati solo sette anni da allora ma all'interno della famiglia Yes sono cambiate moltissime cose. Per uno stranissimo fatto del destino, anche Benoît David subito dopo il tour di "Fly From Here" si beccò una malattia respiratoria, con le stesse identiche conseguenze: venne licenziato a mezzo stampa e sostituito da un ancora più giovane cantante, Jon Davison, che tutt'ora milita nella formazione, perlomeno fino a quando non rimarrà indisposto anche lui. Questa line-up, nel 2014, ha inciso un album intitolato "Heaven & Earth" che, a differenza di "Fly From Here", è stato accolto molto negativamente, trattandosi, effettivamente, di un disco molto piatto, stereotipato e con ben pochi momenti ispirati. Nel 2015, inoltre, avvenne la tragedia più grande della storia degli Yes: la morte di Chris Squire, vera e propria mente creativa del gruppo, parte essenziale del sound e l'unico membro ad esserci stato fin dal primo album. Da allora, l'organico (chiamatelo come volete, ma, per favore, non Yes) va avanti capitanato da uno Steve Howe sempre più famelico di tour e, come se non bastasse, a causa di problemi di salute, è stato messo in secondo piano anche il batterista Alan White che, oggi, suona soltanto nei bis del concerto. Nel frattempo, Jon Anderson, Rick Wakeman e l'ex chitarrista del gruppo Trevor Rabin, dichiarandosi più o meno esplicitamente rivali del gruppo capitanato da Howe, hanno cominciato un tour insieme proponendo la loro versione degli Yes e, da fine 2016, hanno legalmente diritto di farlo: questo significa che, al momento, ci sono in circolazione due gruppi che vogliono portare avanti il nome. Considerando tutti questi trascorsi e tutto questo poco rispetto nei confronti dei membri presenti e passati, la recente decisione di pubblicare una nuova versione di  "Fly From Here" ricantata da Trevor Horn cosa che, essenzialmente, cancella il povero Benoît David dal canone degli Yes, come se fosse stato un semplice errore di percorso, non dovrebbe stupire più di tanto.

Eppure, contrariamente a tutto il resto, questa operazione porta anche degli aspetti positivi. Per prima cosa, come già annunciato, Horn, seppur brevemente, è stato l'unico altro cantante oltre a Jon Anderson a fare parte di un periodo classico degli Yes e, in questo album, ben sette brani riportano la sua firma: non si tratta certo dell'ultimo arrivato o di qualcuno che non aveva alcun diritto di far parte della musica qua contenuta. Le differenze tra questa nuova edizione e l'originale non si limitano al semplice inserimento della voce di Trevor Horn: l'album è stato totalmente remixato e, in alcuni casi, addirittura prodotto da capo, il brano "Hour of Need", inizialmente della durata di tre minuti, viene qua esteso quasi a sette, la scaletta contiene una canzone aggiuntiva ("Don't Take No For An Answer") incisa durante le session originali del disco ma lasciata fuori dall'album e, oltre a Horn,  anche Geoff Downes e Steve Howe hanno aggiunto nuove parti e modificato quelle pre-esistenti. Nel loro caso, viene da chiedersi se questa cosa abbia qualche significato più profondo ed extra musicale dato che da allora entrambi, nel 2013 e nel 2017 rispettivamente, hanno dovuto fare i conti con la tragedia più grande che possa colpire un genitore: la morte di uno dei propri figli. Tornando all'album, in generale non si può certo dire che questa nuova edizione trasformi il materiale originale in maniera così radicale: il disco in sé rimane un prodotto di fattura pregevole ma, complessivamente, non eccellente. Eppure, ascoltandolo, non si può fare a meno di notare che questa ripresentazione è, molto probabilmente, come sarebbe dovuto essere l'album fin dall'inizio: finalmente, l'atteso sequel di "Drama" esiste al 100% ed è un prodotto fresco, ispirato, ben fatto e di piacevole ascolto. Esemplificativa di tutto ciò è sicuramente la suite che dà il titolo al disco: si tratta di una composizione dalla struttura tipicamente progressive ma il cui contenuto strizza l'occhio ad un pop adulto e maturo, rendendo il risultato finale molto piacevole e, sicuramente, da ascoltare più di una volta. Ottima anche l'idea di estendere "Hour of Need" da tre a sette minuti,  grazie ad una intera sezione strumentale eliminata nella versione originale, trasformando quello che prima era un semplice brano gradevole in uno dei pezzi migliori del disco. Tra gli altri brani degni di nota possiamo citare anche "Life on a Film Set" che ricattura in maniera molto convincente le atmosfere di "Drama" con melodie, arrangiamenti e strutture memorabili. Inoltre, per quanto ormai sia diventato un rito, la consueta finestra per sola chitarra acustica di Steve Howe ("Solitaire") risulta comunque ottima e, inutile dirlo, magistralmente eseguita. Per quanto riguarda l'inedita "Don't Take No For An Answer", cantata da Steve Howe, si tratta più che altro di un brano che serve come prova del fatto che avere una buona voce per i controcanti non significhi per forza essere portati per il ruolo di cantante solista. Parlando invece della voce di Horn: ovviamente è più matura dai tempi di "Drama" e dei due album dei Buggles ma, data l'avversione del cantante/produttore verso le performance dal vivo, non si è consumata più di tanto e il cantato suona convincente ed espressivo, anche se in un paio di punti la timbrica è un po' innaturale, forse per colpa di filtri di studio applicati in maniera troppo pesante. Certo, non tutte le scelte di produzione hanno convinto i fan: ad esempio, c'è chi non ha apprezzato la modifica delle transizioni tra i movimenti della suite principale, soprattutto per quanto riguarda l'accorciamento della durata totale di due di loro ("We Can Fly" e "Sad Night at the Airfield"). In definitiva, ascoltando questo "Fly From Here - Return Trip" slegato dal suo contesto, si ha l'impressione di un gruppo maturo e in grado, nonostante tutto, di presentare prodotti che siano coerenti con il resto della discografia che, pur non essendo magistrali, riescono ad accontentare perfettamente sia i fan novelli che quelli di vecchia data. Di nuovo, sarebbe stato meglio presentare il disco così nel 2011 anche se, all'epoca non era possibile: come già accennato, Trevor Horn non ama molto esibirsi dal vivo, anche per colpa dello sfortunato tour che seguì la pubblicazione di "Drama" e, inoltre, all'epoca Benoît David sarebbe dovuto diventare la voce definitiva degli Yes e, quindi, serviva un album in studio che consacrasse il suo ruolo. 

Per quanto riguarda il futuro degli Yes, sembra che il gruppo potenzialmente possa durare più dei membri che lo compongono. Secondo chi scrive, la cosa migliore sarebbe sotterrare l'ascia di guerra e fare un tour finale che ricordi un po' quello di "Union" nei primi anni 90, inglobando Anderson, Wakeman, Rabin, Howe, White, Downes, qualcuno che possa sostituire White nei momenti più fragili e Billy Sherwood, colui che dal 2016 sostituisce l'insostituibile Chris Squire, per cercare di arrestare un po' il volo in picchiata verso il basso che il gruppo ha preso negli ultimi 4 anni e chiudere con più dignità possibile. Di fatto, però, sembra che le cose siano destinate a procedere come stanno andando ultimamente: a quanto pare, Steve Howe, di recente ha dichiarato la volontà di fare uscire un nuovo album a nome Yes che includerebbe anche alcuni scarti di "Heaven & Earth" e quindi comunque conterebbe almeno in parte della presenza di Squire. Una pubblicazione del genere aumenterebbe di sicuro la sensazione che gli Yes ormai, più che un complesso musicale, siano in tutto e per tutto una corporation interessata solo a far spendere soldi ai fan che sono ancora troppo affezionati al nome per abbandonarli. Detto questo, come dimostra questo "Fly From Here - Return Trip", la cosa comunque non direbbe molto sulla possibile qualità del nuovo disco. Chi vivrà, vedrà.

Yes "Drama"/"Fly from Here - Return Trip" line-up (2011):
Alan White, Steve Howe, Trevor Horn, Chris Squire, Geoff Downes

mercoledì 25 aprile 2018

Refilla - Due (autoproduzione, 2018)

Il primo aspetto ad attirare l'attenzione di questo "Due" è il packaging. Il disco si presenta in una penna USB con una confezione che ricorda quella di un medicinale, con addirittura il bugiardino, ed è un'operazione che funziona particolarmente quando si inizia ad ascoltarlo. I Refilla debuttano nel panorama indie italiano con le parole giuste, la promessa di non essere banali (c'è davvero!), una cultura musicale profondamente radicata nel genere e una capacità strumentale notevole, seppur ancora da arrotondare. Quando ci si rinchiude nel rock italiano ci sono sentori di Ministri, Fast Animals and Slow Kids, Marlene Kuntz, Punkreas, Teatro degli Orrori, ma fortunatamente si guarda anche altrove, e sono i richiami cinematografici sparsi un po' ovunque a dare un tono originale al contenuto. Trainspotting, Pulp Fiction, Apocalypse Now, Paura e Delirio a Las Vegas e molto altro, con l'aggiunta di riflessioni pseudo-profonde sulla felicità dell'uomo, data da cose caduche, sfuggevoli e destinate alla disgregazione. L'album non farà propriamente ragionare in maniera analitica su come viviamo, per quello servirebbe probabilmente una scrittura più puntuale, ma funziona perfettamente associato alla musica. Blues ("Failure Blvd"), psichedelia ("Era Meglio Prima"), electro-punk ("Ali di Pietra") e infine rock più classico ("Partire a Settembre", con venature cantautorali, e "Vita in Viaggio"), tutto ciò per una tavolozza di colori molto ampia che dimostra anche la capacità di variare senza eccedere nell'eterogeneità. I ragazzi suonano bene e sulle capacità tecniche non è nemmeno necessario spendere righe di recensione, basta premere play.

Fare questo genere nel duemiladiciotto è contemporaneamente in linea con le mode del momento, ma è anche una sfida, rischiando di sbagliare timing e di andare a rimpinguare la già iper-nutrita collezione di dischi fotocopia che riempiono gli scaffali dei negozi e il catalogo di Spotify e Apple Music. I Refilla hanno capito come farlo, e al debutto lo fanno bene, certo lasciando nell'ascoltatore la speranza che dal prossimo lavoro scaturisca una maggior originalità. Buono. 

domenica 8 aprile 2018

Manu - Distanza 0 (Manu Production, 2017)

Emanuele Gallo e la sua Manu Production irrompono sul mercato con "Distanza 0", un lavoro vago, di difficile interpretazione, per la sua propensione a sfuggire alle definizioni più ovvie pur avendo una base rhythm'n'blues modaiola che può ricordare sia boyband in voga ormai vent'anni fa (N' Sync, Backstreet Boys, Westlife) che i vari fuoriusciti, Justin Timberlake e Ronan Keating, per citarne due. In realtà, trasuda anche di italianità ma sono i linguaggi eccessivamente pop a prendere il ruolo di protagonisti, riversati in brani che come il singolo e title-track fanno dell'orecchiabiltà il loro unico punto di forza. Il discorso vero è il senso di anacronistico, di già sentito, su cui non si può passare sopra ogni anno per centinaia di dischi. Se anche gli arrangiamenti dei brani più delicati, come "Sempre per Sempre" e "Sarai la Sola", sono di gran classe, ritorniamo sempre al palo con "Flashback", una versione underground - nel senso che la celebrità ancora non è arrivata - dei più pessimi Benji & Fede
Quando si sconfina nell'elettronica, vedi "L'Ultimo Rintocco", sentiamo Emanuele dove vorremmo realmente sentirlo, cavalcare synth e ritmiche dispari con quel piglio pop che suona alla perfezione. Altro momento alto è "Un Piccolo Bacio", che forse meritava una spinta maggiore dal punto di vista ritmico, una ballad di grande livello che ricorda il migliore Baglioni, e soprattutto, se analizzata nell'ambito del radiofonico, può certo risaltare e farsi notare.
La cura nei testi c'è, così come l'interpretazione. L'uso delle parole non è magistrale, ma è raffinato al punto giusto, rimanendo dentro la cornice del pop senza scadere nel banale e senza nemmeno addentrarsi nel barocco. 

Intendiamoci, qui tutto è curatissimo, dai testi all'esecuzione, passando per songwriting, missaggio, mastering, concezione, confezione. Ascoltare Baglioni, Venditti, Mengoni e poi tuffarsi nella scena italiana con queste capacità è senz'altro degno di nota, ma anche inutile. I contenuti, infatti, sono quello che sono, forse solo all'orecchio del sottoscritto, ma certo è che non c'è più alcuna necessità di musica di questo tipo.