domenica 23 novembre 2014

Bryan Ferry - Avonmore (BMG Rights Management, 2014)

Ci sono alcuni gruppi o artisti che sono dei veri e propri fiumi in piena: appena hanno qualcosa di pronto lo pubblicano immediatamente, finché il ferro è caldo. Altri, invece, curano con particolare meticolosità tutti i loro lavori, rallentando il ritmo di pubblicazione, ma tenendo sempre il loro standard di lavoro non meno di un certo livello. Bryan Ferry, conosciuto sia per la sua carriera solista, sia per essere stato il frontman dei leggendari Roxy Music, fa parte della seconda categoria. Quando Ferry inizia una serie di session in studio, generalmente non lo fa per usarne tutto il materiale per un progetto specifico, così come, nel caso in cui lo facesse, non è detto che le cose non possano subire bruschi cambiamenti. Se da una parte, questo potrebbe rendere gli album meno spontanei, dall'altra tendono a risultare molto più ben costruiti e studiati. Il suo quindicesimo album, "Avonmore", edito questo 17 Novembre, non è un'eccezione: sebbene non ci sia stata nessuna parola ufficiale al riguardo, a giudicare dalla lista di musicisti, almeno parte del materiale è stato quantomeno iniziato durante le session del disco di inediti precedente, "Olympia", uscito nel 2010. E, a proposito del cast di questo album, ancora una volta abbiamo la crema della crema: oltre ad alcuni dei più grandi session-man in circolazione (tra i tanti: Marcus Miller, Chris Spedding, Guy Pratt, Andy Newmark, Fonzi Thornton), ci sono altri ospiti illustri (Johnny Marr degli Smiths, Mark Knopfler, FleaHanne Hukkelberg), recenti acquisti che vengono confermati (i giovani Oliver Thompson e Tara Ferry, figlio di Bryan) e nuovi gregari che finalmente hanno l'occasione di apparire in studio (la batterista Cherisse Osei, in tour con Bryan dal 2012). Insomma, gli unici che mancano all'appello sono i suoi compagni di avventura dei Roxy Music, che, invece, comparivano abbondantemente su "Olympia".

Arrivato a questo punto della carriera, Ferry non sta più cercando un nuovo sound, quindi, chi si aspetta un radicale cambiamento rispetto ad "Olympia", è destinato a rimanere deluso. Comunque sia, questo non significa che l'artista Inglese non sia in grado di offrire qualcosa di nuovo anche all'interno del suo genere o che non possa alzarne ulteriormente il grado di qualità. Mentre il precedente risultava, forse, un po' troppo come una collezione di buone canzoni montate senza una cornice ben precisa, "Avonmore" sembra avere una direzione più chiara e ragionata, con ogni brano che suona bene sia singolarmente, sia nel suo contesto. L'unico momento in cui il disco sembra perdere un po' di peso, come sequenza, è proprio alla fine, durante gli ultimi due brani, guarda caso, due cover: "Send in the Clowns" , composta da Stephen Sondheim per il musical "A Little Night Music" e resa celebre da Frank Sinatra e Judy Collins, e "Johnny and Mary" di Robert Palmer. Non è che la qualità di questi due arrangiamenti sia scarsa o altro, ma "Send in the Clowns" avrebbe beneficiato di un'altra posizione nell'album, e "Johnny and Mary" più che il brano finale suona un po' come una bonus track e, in effetti, è la stessa versione, solo leggermente modificata, che era apparsa sul disco "It's Album Time" del DJ Norvegese Todd Terje che si era avvalso della collaborazione di Ferry. Piazzata come finale, risulta come un leggero anticlimax slegato dal resto del disco, cosa sottolineata anche dalla produzione, completamente diversa. I brani originali sono molto meglio: il singolo "Loop De Li" e "One Night Stand" ci riportano direttamente ai tempi d'oro di "Bête Noire", qualitativamente e stilisticamente, con dei refrain che avrebbero potuto uscire solo dalla mente di Ferry. "Driving Me Wild" e "Midnight Train" sono due pezzi più in linea con il Bryan che abbiamo visto su "Olympia": moderni nell'arrangiamento, tipicamente un prodotto dei giorni nostri, eppure non abbastanza calati da correre il rischio di risultare datati tra qualche anno, mentre "A Special Kind of Guy" e "Lost" ci mostrano il crooner a cui molti fan erano abituati, ancora in perfetta forma. Menzione a parte meritano "Soldier of Fortune", composta insieme a Johnny Marr, un brano squisito, dove la melodia vocale si sposa ad un arrangiamento molto azzeccato, e la title-track, scritta a quattro mani col chitarrista Oliver Thompson, uno dei migliori brani usciti in un disco di Bryan Ferry degli ultimi tempi: energica, coinvolgente e allo stesso tempo non stucchevole o scontata.

Gridare al miracolo, ovviamente, sarebbe fuori luogo: "Avonmore" non è il migliore album di Bryan Ferry, e, se dovessero uscirne altri in futuro (impossibile non notare l'assonanza nel titolo tra questo album e "Avalon", l'ultimo dei Roxy Music), non possiamo sperare che, uno di questi, sarà il capolavoro dell'artista Inglese. Tuttavia, lo standard qualitativo è sempre molto alto, e, chi scrive, lo preferisce sicuramente a "Olympia", e non di poco. Bisogna anche aggiungere che Ferry, nonostante ormai abbia ben definito il suo terreno stilistico, è uno dei pochi artisti in grado di mettersi in discussione e di re-inventarsi: la sua voce non è più quella un po' belante dei primi Roxy Music, né il suadente crooner di "Boys and Girls". Eppure, questo nuovo materiale è stato studiato a pennello per la sua timbrica attuale, e il suo cantato suona adatto e fresco come nei dischi già citati. Quindi, sebbene "Avonmore" giochi su piste già battute, lo fa in maniera coerente e non scontata, e si tratta di un prodotto decisamente notevole, difficilmente in grado di scontentare anche i fan di vecchia data. Se dovesse, effettivamente trattarsi dell'album conclusivo della carriera di Ferry (e speriamo di no, visto che sembra avere ancora qualcosa da dire), sarebbe una maniera molto elegante e meritevole di chiudere il sipario. Comunque, a dirla tutta, Bryan Ferry non è un artista poi così prevedibile nemmeno al giorno d'oggi: basti pensare che il disco precedente, intitolato "The Jazz Age", consisteva in una rivisitazione di classici suoi e dei Roxy Music in versioni jazz anni '20, per cui, il pensiero che in futuro possa colpirci con qualcosa di completamente inaspettato non è da cancellare del tutto.





sabato 8 novembre 2014

Pink Floyd - The Endless River (Parlophone / Columbia, 2014)

È incredibile quanto sia difficile cominciare una recensione per un nuovo album dei Pink Floyd; tanto più che, fino a poco tempo fa, complice anche la morte del tastierista Richard Wright nel 2008, l'ipotesi di avere un nuovo lavoro in studio del leggendario gruppo Inglese era completamente impensabile. Prima di parlare del disco in sé, forse è meglio fare qualche considerazione. È innegabile che la richiesta per un nuovo album dei Pink Floyd fosse stata altissima e continuamente crescente dal momento in cui finì il tour del 1995, da cui venne tratto il live album "Pulse", eppure, nonostante tutto, l'annuncio dell'uscita di questo album ha causato tanti plausi quante polemiche. Ovviamente, in primis, quelli che amano definirsi i fan di nicchia si sono subito affrettati ad affermare che, senza Roger Waters, i Pink Floyd non possono esistere. Partendo dal presupposto che giudicare male un disco prima di averlo effettivamente ascoltato non ha senso, è importante ricordarsi che, per quanto la cosa possa essere fastidiosa a dirsi, nessun fan potrà mai stabilire chi siano e chi non siano i Pink Floyd; Waters stesso, dopo essere stato assillato da fan che gli chiedevano se sarebbe stato nel nuovo album ha dovuto specificare, tramite una nota ufficiale su Facebook che "Nick (Mason) e David (Gilmour) costituiscono il gruppo dei Pink Floyd; io non ne faccio più parte. Ho lasciato il gruppo nel 1985, 29 anni fa. Non c'ero nemmeno negli altri due album in studio "A Momentary Lapse of Reason" e "The Division Bell" e non ci sono su "The Endless River" ".  Secondo altri, invece, questo disco sarebbe una speculazione fatta sull'anima di Richard Wright pubblicando un album costituito da scarti e, anche qua, la cosa non è del tutto esatta. "The Endless River" è stato iniziato in contemporanea a "The Division Bell", tanto più che, inizialmente, doveva essere parte dell'album stesso ed è stato gradualmente completato nel corso degli anni, tra un progetto e l'altro, per essere stato finito solo ora. Peraltro, notando la natura del disco, è anche facile capire perché Waters sarebbe stato fuori posto: è pur vero che le acque (se mi perdonate l'orribile gioco di parole) tra lui e i rimanenti membri dei Pink Floyd si sono calmate ma, vista l'impossibilità di aggiungere nuovo materiale al disco, il bassista e compositore sarebbe stato relegato ad un ruolo di secondo livello, così in basso che, appunto, sarebbe stato meglio non avesse partecipato in toto. Un'altra polemica, come al solito, viene data dai detrattori delle cosiddette "reunion"; a parte il fatto che questa non è una reunion al 100%, visto che si tratta, per l'appunto, di un completamento di un progetto dell'epoca, anche se fosse, è abbastanza sciocco pensare che la musica sia per forza scarsa o resa male in questi contesti: basti solo pensare alle spettacolari reunion dei Cream, dei Police, degli UK, dei Van Der Graaf Generator e degli Area, tanto per fare un bel po' di esempi concreti (anche se, per amor di cronaca, è bene specificare che, a parte gli ultimi due casi, non è scaturito nuovo materiale da queste nuove fasi dei gruppi).

Comunque, dopo tutta questa filippica, forse è meglio cominciare a parlare anche della musica contenuta su questo "The Endless River". Il disco è quasi integralmente strumentale, salvo qualche campione parlato e la conclusiva "Louder Than Words", ed è diviso in quattro parti, come se si trattasse di un doppio vinile, evidentemente, dentro le quali, i pezzi sfociano l'uno nell'altro senza soluzione di continuità, come se si trattasse di quattro suite. In realtà, l'album suona meno pesante di come potrebbe apparire dalla descrizione, anche se la descrizione dell'album come "ambient" data da Gilmour e Mason è senza dubbio esagerata, sebbene il disco sia innegabilmente molto suggestivo e atmosferico. In sé, da questo punto di vista, non c'è nulla di eclatante: queste cose, i Pink Floyd, le avevano già fatte negli anni '60 con brani come "Careful With That Axe, Eugene", "A Saucerful of Secrets" e "Quicksilver", tanto per citarne qualcuno. La novità sta nel fatto che, stavolta, si parla di un album intero approcciato in questo modo. La prima cosa che sicuramente salta all'orecchio è che alcune sezioni sono variazioni di classici del gruppo ma, più che un riutilizzo dovuto ad una mancanza di idee, sicuramente si tratta del filo concettuale dell'album: il fiume senza fine, con l'acqua che scorre e ritorna. D'altra parte, nemmeno il titolo in sé è nuovo, visto che proviene da una strofa di "High Hopes", brano conclusivo di "The Division Bell" e, sicuramente, è più adatto del titolo che questo progetto aveva nelle sue fasi iniziali: "The Big Spliff" (ammesso e non concesso che si trattasse dello stesso identico materiale; si vocifera che, tra cose più complete e meno complete, queste session abbiano prodotto all'incirca ben 20 ore (!) di musica).

Il disco si apre con "Things Left Unsaid", che inizia con dei lunghi drone di tastiere e dei sample vocali tratti da alcune interviste al gruppo effettuate nel 1987, che lasciano spazio alla chitarra di Gilmour, a cui poi segue "It's What We Do", un brano che riparte da dove "Shine on You Crazy Diamond" aveva lasciato, risultando un miscuglio tra la terza e la nona parte. La sezione viene chiusa da "Ebb and Flow", una sorta di reprise di "Things Left Unsaid" ma, laddove quel brano risultava inquieto e in tensione, qui la stessa musica viene vista sotto un occhio diverso, più rilassato e pacifico.

La seconda "facciata" del disco è più variegata e complessa. "Sum", anche grazie all'uso del sequencer, ci riporta direttamente ai tempi di "The Wall", sembrando quasi una reprise strumentale della terza parte di "Another Brick in The Wall"; segue "Skins", basata su degli interessanti e creativi pattern ritmici di Nick Mason, sui quali Gilmour improvvisa un interessante e sperimentale assolo di chitarra. "Unsung" non è altro che un breve minuto di transizione, dominato da un sequencer VCS3, a cui segue "Anisina", chiaramente basata sul classico "Us and Them": la parte di basso è praticamente la stessa, e compare il sassofono, suonato da Gilad Atzmon, anche se il pezzo prende innegabilmente vita propria con il malinconico assolo di chitarra finale. Questo pezzo è uno di quelli chiaramente composti dopo il 1994: Wright è assente, ma il piano, suonato da Gilmour, e la composizione chiaramente vogliono rendere un tributo al loro "compagno caduto" che, sebbene stesse un po' in disparte, era un membro essenziale al sound del gruppo e, come se non bastasse, il titolo è una parola Turca che ha il significato di "in memoria di...". Se l'album fosse stato concluso da questo brano, nessuno avrebbe avuto nulla da obbiettare sulla sua efficacia come finale.

La terza sezione del disco, probabilmente, è la migliore di tutte e quattro; forse perché è l'unica che suona come se fosse una vera e propria suite, piuttosto che una serie di brani strumentali che si susseguono pur non essendo correlati tra di loro. "The Lost Art of Conversation"  è un bel modo di aprire questa parte dell'album, con dei meravigliosi interventi melodici di Gilmour e Wright su un tappeto di sintetizzatore; "On Noodle Street" è notevole soprattutto per il pulitissimo e precisissimo basso di Guy Pratt che sembra essere il vero protagonista del pezzo, cosa scandita anche dagli interventi solisti di Gilmour, tenuti volutamente bassi nel mix, mentre "Night Light" dà un senso di continuità all'album, essendo una sorta di reprise di "Things Left Unsaid". "Allons-y" è un brano spezzato in due parti che tronca bruscamente l'atmosfera che si era creata fino ad ora, con un bel rock pompato ed energico, che chiaramente si rifà a "Run Like Hell". Il titolo di "Autumn '68" non è solo evocativo, ma è anche reale: si tratta di un frammento di un'improvvisazione di Richard Wright registrato alla Royal Albert Hall durante un soundcheck prima di un concerto, durante il quale, il tastierista aveva improvvisato sul famoso organo a canne della sala, a cui sono state aggiunte sovraincisioni in modo da poterlo rendere omogeneo al resto del disco; questo è un altro brano aggiunto chiaramente nelle fasi finali del disco: le sovraincisioni non fanno altro che risaltare il playing su organo e le parti di tastiere che si sentono in più non sono state suonate da Wright, ma da Damon Iddins. La seconda parte di "Allons-y" riemerge bruscamente ancora una volta, causando un nuovo sussulto nell'atmosfera, per poi lasciare spazio alla maestosa, ma poco fantasiosamente intitolata, "Talkin' Hawkin'" uno strumentale intenso e meditativo allo stesso tempo, sul quale sentiamo ancora una volta gli stessi sample vocali della voce elettronica del fisico Stephen Hawking che avevamo già sentito in "Keep Talking" su "The Division Bell".

La quarta e ultima parte del disco è aperta da "Calling" e, come le altre parti introduttive è essenzialmente un tappeto di tastiere con altre sovraincisioni, anche se, questa volta il risultato è molto più meccanico e distorto; l'atmosfera tesa continua con "Eyes to Pearls", basata su un giro di chitarra ossessivo, supportato da altrettanto ossessive percussioni di Mason. La successiva "Surfacing", invece, per contrasto, risulta molto pacifica, con una chitarra acustica prominente e dei bei cori. Le campane che abbiamo sentito all'inizio di "High Hopes", forse un po' prevedibilmente, risuonano anche in lontananza nella transizione tra questo pezzo e "Louder Than Words", l'unico cantato del disco. La calda voce di Gilmour sembra riportarci alla realtà e a condurci gentilmente fuori dallo stato etereo in cui eravamo immersi fino a poco prima. Sebbene il pezzo non sia assolutamente un finale di discografia migliore di quanto lo fosse stato "High Hopes", soprattutto per colpa di un ritornello non proprio eccezionale e per un assolo di chitarra molto generico, il brano risulta comunque emotivamente molto forte, anche grazie al testo di Polly Samson, compagna di Gimour e autrice di altri testi su "The Division Bell". Dopo un falso finale ed una coda nella quale una chitarra imita il suono di un sequencer, siamo arrivati veramente alla fine: della discografia e dei Pink Floyd

Complessivamente, "The Endless River" è un buon prodotto, nel quale non si avverte nemmeno la carenza di ispirazione che si sentiva durante alcune parti degli altri album del gruppo di questa formazione. La costruzione delle quattro suite è molto intelligente e le variazioni sui classici del gruppo sono fatti con gusto, quindi, se non altro, chi temeva che questo album fosse una raschiatura del barile, può tirare un sospiro di sollievo. La produzione (affidata a Gilmour e ad altri illustri nomi come Phil Manzanera dei Roxy Music, Martin Glover dei Killing Joke e Andy Jackson) è ottima: nitida, cristallina ma allo stesso tempo molto calorosa perfettamente funzionale alla musica. Ovviamente non è un disco perfetto: completare un album dopo così tanto tempo è sempre un rischio, soprattutto se, tra l'inizio e la fine, uno dei membri chiave del gruppo viene a mancare. Anche per questo motivo, in alcune sezioni, specialmente la prima, il disco suona come se fosse incompiuto o se mancasse qualcosa. Impossibile, comunque, non porsi la domanda che ci si chiede solitamente davanti a progetti del genere: era davvero necessario questo album? Possiamo fare tutte le congetture del mondo, ma la risposta ce la possono dare solo Gilmour e Mason: se nel momento in cui avevano deciso di riprendere in mano "The Big Spliff"  lo hanno fatto pensando a questo lavoro come la chiusura di un cerchio a cui mancava qualcosa, la risposta allora è "sì". Dal canto nostro, tutto ciò che possiamo dirvi è che questo disco è un buon "post-scriptum" alla discografia dei Pink Floyd, ed è un modo dignitoso e intelligente per consapevolmente porre fine a quello che è stato uno dei gruppi più importanti della storia del rock.