venerdì 25 settembre 2009

The Butterfly Effect - First Conversation of Kings (Superball Music, 2008)


Il terzo lavoro di questa band australiana esce con un anno di ritardo rispetto alla data di rilascio nella terra dei canguri. Il motivo? Non chiedetelo a me. Questo prodotto è di notevole interesse per quei cultori di un genere che da noi spopola solo a periodi, quell'alt rock stile Dashboard Confessional che si lancia contaminare da grunge e post-grunge, da qualcosa di prog melodico alla Dreamtheater dei bei tempi (Awake, Images and Words) e da accenni di hard rock spruzzati a piccole dosi qui e là lungo i suoi quarantadue minuti.

Nel dettaglio è un disco interessante, valido nella non ripetitività dei contenuti, composto da undici brani di uno certo spessore soprattutto per l'aspetto compositivo e la varietà nella proposta. Partendo con la traccia d'apertura Worlds on Fire abbiamo l'impressione di trovare l'ennesimo gruppo alt-rock d'oltreoceano, ma bastano pochi secondi per capire che gli spunti sono molto più ricercati e la canzone finisce per diventare un papabile singolo, nostalgico brano che qualche “romantico” utilizzerà come colonna sonora dei suoi life moments stile film americano. Il tutto coronato dalla sezione centrale di fiati jazz che spezzano la canzone dalla seconda parte in cui sale di tono, finendo con un crescendo che la porta ad un esplosione che, strano a dirsi, mi ricorda le poche ballad dei Blind Guardian. Sette minuti spesi bene. L'alt-rock pseudocommerciale che citavamo nell'introduzione è piuttosto evidente in Final Conversation e 7 Days, due pezzi dalla normale struttura strofa-ritornello-strofa-ritornello che comunque non mancano di interesse per qualche riff semplice ma ad effetto. Potremo dire la stessa identica cosa di The Way, arricchito però di qualche inserto di chitarra più “hard”, qualcosa che alcuni ascoltatori attenti ricollegheranno a certe produzioni degli anni ottanta. Molto interessante Window and the Watcher, probabilmente il pezzo più radio-friendly del disco, con un ritornello che tutti ricorderanno al primo ascolto e riff graffianti che potremo considerare ereditati dai Papa Roach o da tutta quella scena nu-metal/alternative-rock che è andata tanto di moda da metà anni novanta fino ad adesso. Niente di nuovo, ma nel complesso un pezzo che non stona. Le influenze grunge presenti nel brano appena citato sono evidenti anche in In These Hands, che però si forgia di riff veloci propinati a suon di plettrate che mi ricordano un Matthew Bellamy in grande forma nei brani più potenti dei primi due lavori del trio inglese. Seguono una diversa formula, cioè quella dell'apertura melodica con finale potente in crescendo la seconda traccia, Room Without a View e Sum of 1, due brani carini ma non essenziali per questo disco.

Dopo questo track-by-track è evidente che l'album è piuttosto completo, non manca di momenti tristi e statici, né di esplosioni composte di riff taglienti hard-rock style che molti fan del genere apprezzeranno in particolar modo. La sensazione che si ha ascoltando questo disco è di un gruppo ancora alla ricerca di un genere preciso ma che vuole sperimentare più strade, riuscendoci sebbene diventando inconsciamente portavoce di una serie infinita di band (comprese quelle emergenti che probabilmente mai vedremo sui grandi palchi) che parte dall'alternative rock per poi cercare un'affermazione migliore senza riuscirci. Non per questo l'album perde di interesse, anzi lo consiglio a tutti i fan del rock alternativo che ascoltiamo nei Papa Roach o nei Weezer, spruzzato di venature malinconiche alla Stone Temple Pilots, del post-grunge commerciale dei 3 Doors Down e del grunge più classico dei primi Pearl Jam. Una band fresca che se trovasse la giusta via potrebbe davvero diventare famosa anche qui in Europa, e non solo in madrepatria.

Voto: 7

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