La nuova band lombarda dei Casablanca è tutt'altro che una sorpresa se si analizzano i componenti. Max Zanotti, Filippo Dellinferno, Giovanni Pinizzotto e Stefano Facchi sono nomi che nell'underground tutti conoscono, e anche se sarebbe facile imbottire di citazioni dei loro passati lavori questa recensione noi non lo faremo.
Questo progetto compatta in maniera discretamente omogenea il rock anni settanta, ottanta e novanta, fonte di ispirazione di innumerevoli formazioni italiane anche recenti, ma risulta in realtà originale la maniera con cui si cerca di forzare verso il pop quella grinta punk primordiale e rozza, con la voce inconfondibile di Zanotti che riporta alla mente - ma neanche tanto - i primi splendidi lavori dei Deasonika. Schitarrate in bilico tra hard rock e grunge, ma anche alternative rock di più recente fattura, linee vocali svolazzanti ma senza barocchismi, ritmiche serrate e marziali, sprazzi di elettronica new wave con uno sguardo sfuggevole al ventunesimo secolo. Questo è "Casablanca" dal punto di vista musicale, ma la vera cifra stilistica sono invece i testi. Tradimenti, inganni, rapporti personali conflittuali, l'oscurità delle dipendenze, che possono essere anche verso sé stessi e ciò che si ama. E' tramite le parole e le metriche con cui i testi sono messi in musica che si riesce a comunicare esperienze di vita ma anche di non vita, in sospensione tra quello che si vorrebbe avere e quello che già si è perduto. "Non So Mai Dirti Che..." è il momento italiano per eccellenza, anni '90 senza strizzare l'occhio a nessuno dei soliti (Marlene Kuntz, Afterhours, che sono però ampiamente richiamati in "La Percezione di un Addio"), anche perché le sonorità dei Casablanca contemplano mirabilmente il rock americano. Il singolo "Gelido" ne è un chiaro esempio, con quei delay sbarazzini che paiono un'involuzione mainstream di alcuni riff dei Jesus Lizard, artefatto ma abbastanza sofisticato ed energico da diventare necessario preambolo di un album che medierà sempre, per tutte le undici tracce, tra veemenza e dolcezza. "Il Cielo delle Sei" per pochi secondi ricorda Francesco Renga (il ritornello ovviamente), ma tutto il resto è un'esplosione di colori caldi e rabbia repressa che funziona molto bene.
Chi scrive recensioni vorrebbe sempre sentire qualcosa di originale, e chi compone musica pensa a sua volta di essere unico e inimitabile. E se invece per ottenere un bel disco bastasse non pensare a queste cazzate? Un ottimo lavoro, fresco, ma soprattutto spontaneo.