sabato 31 ottobre 2009

Chopigula - Sunshine Over the Circus EP (Shadow Paradigm, 2009)



Dimensional indie. Dicono loro. Elettronica da laptop impazzito dietro agli smanettamenti di due ragazzi che hanno scoperto qualche programma scaricato senza pagare da abbuffare di plugin e generatori di synth vari, sembra una definizione più appropriata. Non necessariamente una brutta cosa. Mentre i titoli si, sono una brutta cosa.
Nascono dall'incontro online di un indiano, Shade Slicer, e un americano, Scott Charaund, accomunati dalla passione per la musica. Un paio di mixtape scambiati per divertirsi e nasce questo progetto, ambizioso ma con risultati, volendo essere sinceri, appena sotto la linea del discreto.
L'electrobeat superfiltrata dei Chopigula suona un po' dub un po' dance, e i campionamenti, seppur senza l'originalità autoproclamata, sono senz'altro di qualità. Lo sentiamo in Together Too e in Texno, i pezzi più lunghi dell'EP, costruiti in maniera che i meno attenti definirebbero ispirata ma che in realtà suona molto “random”. Tra qualche anno qualcuno griderà al miracolo. Brani più radio-friendly (ma neanche troppo) come Daffodil Deeds e Womb invece stanno più vicini a certa elettronica che i fan del genere sicuramente avranno ascoltato (gli Orb, insieme a un retrogusto molto poco marcato di Depeche Mode nelle linee sintetizzate di basso). Si estraniano un attimo dalla disorganicità quasi caotica che regna nel disco con Redrown, il pezzo più interessante di questo lavoro, pur non risultando niente di troppo innovativo. Mai autodefinirsi tali, si rischia la figuraccia.
I Chopigula sono quindi, in breve, l'ennesimo gruppo elettronico circondato dagli entusiasmi della rete che seguono sempre progetti che vengono solo così notati da personalità importanti. Quando li remixerà un Fatboy Slim qualunque, li sentiremo anche su MTV Brand New. Per ora, se vi interessa un'accozzaglia di suoni campionati e sintetizzatori dal sapore retrò (pur senza esserlo), con un po' di elettronica seria, in mezzo a mille pattern diversi che insieme possono suonare qualche volta bene qualche volta (molto)meno, potete pure procurarveli. Essenzialmente, c'è poco di nuovo. 

Voto: 5-

giovedì 29 ottobre 2009

Spread - Anche I Cinghiali Hanno La Testa (Autoproduzione, 2009)




Gli Spread vengono da Bergamo, città fiorente per quanto riguarda la musica alternative (non solo per i bergamaschi più famosi, cioè i Verdena). No, questo non è un indizio per capire cosa fanno. I ragazzi escono con un disco dal nome ironico, con brani dai titoli ironici, e spiattellano un rock classico che sa di stoner e di Soundgarden, e poi ancora di stoner e di Soundgarden. Per capire la ripetizione, continuate a leggere.
Ho appena nominato lo storico quartetto di Seattle e devo quindi parlare di Cova L'Arabia, dove il cantato è veramente identico a quello di Chris Cornell (tanto di cappello a Roby, singer della band), così come il riff di fondo della strofa, che tanto ricorda alcuni brani del fortunato Badmotorfinger. Nel suo essere una riedizione moderna di qualcosa di già sentito, è comunque un brano orecchiabile, tra le altre cose quello che si digerisce con più facilità tra i dieci brani che compongono questo CD. Candida e Flambé, che sono obbligato a citare insieme, perché entrambe fanno il verso ai Marlene Kuntz soprattutto per le linee vocali (e la prima anche per le strutture degli arpeggi). E' superiore per qualità la seconda, un rilassato concentrato di tanti stereotipi da ballad, con qualche “risatina” centrale aggiunta insieme a qualche gridolino, di cui chiedere il significato è forse superfluo. Nel rock ci sta tutto.
L'anima stoner che li ricollega più all'eredità dei Kyuss che ai Kyuss stessi (quindi ai Queens of the Stone Age) ci spara in faccia Faccia di Bronzo; giro di batteria quasi identico a “No One Knows” (nei crediti non figura Dave Grohl), riffone da Josh Homme. Si insomma, non parliamo di plagio, ma la mano santa dei QOTSA non manca. Le coincidenze esistono ancora. E poi i Queens of the Stone Age pensano bene di cenare assieme ai Soundgarden, di nuovo, ed ecco Together Come, in verità un potente brano che definirei più “da concerto” che altro. E poi Tum L'Aspirapolvere, sempre sullo stesso tiro, e la gutturale Spremute di Cazzo, della quale merita il testo, di memorabile e sacrilega ironia.
Per essere un insieme di elementi presi pari pari da altri dischi l'album è comunque piuttosto ascoltabile, lo si digerisce con facilità e lascia intuire all'ascoltatore che i lombardi possono avere qualche buona cartuccia per il futuro (soprattutto a livello tecnico, ottima la voce e discrete le chitarre). Ci si aspetta solo che non esca un'altra mazzata di non-originalità come questa, per non metterci una croce sopra definitivamente. Per il resto, potreste darci tutti un'ascoltata, a certi può piacere.

Voto: 5.5 

mercoledì 28 ottobre 2009

Ma.La.Vita - Necrosi Poetica (Autoproduzione, 2009)




I Ma.La.Vita sono un trio di Padova, attivo da qualche anno nella scena underground e con all'attivo un bel po' di date nel circuito regionale. Dall'ascolto di questa autoproduzione, dal titolo “Necrosi Poetica”, emerge un flebile tentativo di affermarsi come band innovativa e fuori da ogni canone (come dichiarano sul loro MySpace), impastando le varie influenze in una miscela nuova, o perlomeno tentandoci. Sicuramente si nota tanta ambizione e voglia di sfondare. A livello compositivo l'album è certamente discreto, e a confermarlo sono tutti i pezzi, che alternano sezioni melodiche ad altre più aggressive sempre in bilico tra alternative rock, grunge e qualche elemento funky e di indie più ballabile.
Brillano particolarmente brani come Caffè, quasi un inno a questa bevanda tipicamente italiana, musicalmente piuttosto ballabile e vicino ad atmosfere british, nonostante il tipo di cantato ammicchi direttamente al panorama italiano (mi ricorda un po' band come Le Strisce). Lo Sgarro di Giorgia, un pezzo molto simile ai primi lavori de Le Vibrazioni, anche nel tipo di testo e di sound, risulta piuttosto apprezzabile, forse tra i più originali del disco. Interessante a livello strumentale è, in maniera particolare, la seconda parte delle canzone, con un crescendo finale di sicura presa nei live. Non è l'unico brano che viene naturale paragonare alle atmosfere della band capitanata da Sarcina; anche La Chiave di Sol, Melodicamente Sesso e Sei Merilyn, sulle quali non vale la pena spendere tante parole più che altro perché molto simili a quella che già ho descritto sopra. I riff più orecchiabili ed indie emergono nel brano in apertura, Caos Calmo, composto in maniera notevole seppur nella media abbassato da un tipo di cantato ben poco adatto (una delle pecche dell'intero disco, in verità, complice magari una produzione di bassa qualità in ogni caso comprensibile visto che si tratta di un lavoro di matrice quasi “casalinga”). Le influenze più punk spingono su Il Demente Tra La Gente, forse il brano più movimentato in questo “Necrosi Poetica”, a confermare che gli orizzonti della band non si fermano solo all'alternative rock più ascoltabile e più radiofonico di altri brani.

Tecnicamente la band non ha niente da invidiare a musicisti affermati, fatta eccezione per la voce, purtroppo in alcuni casi quasi fuori luogo, anche a causa di un timbro talvolta inadeguato al tipo di stile e di approccio del gruppo. Pollice alzato in particolar modo per la sezione ritmica, con qualche spunto originale che emerge soprattutto dalle linee di basso. Riguardo al songwriting si può parlare invece di un lavoro piuttosto immaturo, frammentario, in alcuni tratti risultato di un'esperienza che fuoriesce certo da una buona conoscenza delle scene da cui attengono, rielaborando gli ingredienti che li influenzano in maniera sì personale, ma purtroppo in alcuni tratti senza una forma ed un contenuto che possano definirsi propriamente “musicali”, di facile ascolto. E questo non è un fattore positivo se parliamo di un disco di questo genere.
Le premesse per portare lo stile dei Ma.La.Vita a qualcosa di più originale e studiato ci sono tutte, anche a livello di suono, basta lavorare di più sulla costruzione dei pezzi. Per ora, materiale che può solo far presumere (o sperare) una crescita per il futuro, da assaporare soprattutto nei concerti (dove posso assicurare, che questi pezzi rendono molto di più). E questo è “Necrosi poetica”.  

Voto: 5.5 

martedì 27 ottobre 2009

Rammstein - Liebe Ist Fur Alle Da (Universal/Vagrant, 2009)




Il nuovo lavoro dei Rammstein è come ogni fan dei Rammstein lo voleva. Identico ai due che lo hanno preceduto, con le solite tastierine goticheggianti sotto i riff granitici che sono diventati un loro marchio di fabbrica. Testi grotteschi ed a volte al limite del pornografico, la solita voce roca di Till, e i soliti suoni. Per dirla più semplicemente, non è un disco per chi sperava in qualcosa di nuovo (ma l'hanno mai lasciato intuire?).
In verità il precedente “Rosenrot” lasciava intendere una parabola discendente già cominciata con “Reise Reise” e che non permetteva di sperare molto bene di questo nuovo atteso lavoro. Il risultato è invece sopra la linea della sufficienza, proprio come tutti i dischi dei Rammstein finora pubblicati. Il pezzo d'apertura Rammlied, uno dei più “tradizionali” (insieme a Waidmanns Heil), sarà adatto anche ad aprire i concerti, sicuramente spettacolari anche a livello di “show”, seppur presenta delle parti più calme in cui la voce non ci azzecca proprio niente con la musica. Ich Tu Dir Weh, sempre piuttosto uguale alla loro produzione passata (ma non lo ripeterò più perché l'intero disco è così), presenta degli stacchi di batteria e chitarra abbastanza diversi, seppur già un cliché da vent'anni nel panorama metal (così come lo è il ritmo di batteria della successiva Haifisch per la musica cosiddetta “ballabile”, o come la chiamano loro “tanz metall”). Pussy, primo estratto. corredato da un video porno al limite del trash (che gli è valso la rescissione del contratto da parte di Universal), funziona e resta in testa proprio come si pretende da un singolo, però perde punti nel ritornello che se non fosse per un giro di tastiera molto catchy sarebbe la parte peggiore del brano. Il testo-spazzatura è talmente ridicolo da rimanere probabilmente nella storia (conteremo su quante “firme” degli utenti dei forum comparirà, certi testi possono finire solo lì). Uno dei pezzi più riusciti è B******* (che sta per Buckstabu), un pestone puramente rammsteiniano che ci riporta agli albori della band (come la title-track, che però manca della presa di altri brani del disco). Le canzoni che funzionano meno sono quelle più lente, e questo l'avevamo già imparato in passato, e proprio per questo motivo Fruhling in Paris risulta essere il brano meno riuscito di questo “Liebe Ist Fur Alle Da”.
I fan della band devono per forza procurarsi questo nuovo disco, sicuramente più un tributo a loro che a chi non li conosce o non li ha mai ascoltati, i quali non apprezzeranno certo adesso una band come questa, commerciale (in Germania) ma a suo modo personale e quindi complicata da assorbire ed assimiliare. Tecnicamente lontani dall'eccellenza di altre band metal soprattutto del panorama tedesco (come i Blind Guardian), e forse nemmeno lo pretendono, si avvalgano però di suoni potenti e precisi, smussati da una produzione di livelli altissimi alla quale eravamo già abituati se abbiamo ascoltato i loro successi passati.
Una nota per terminare la recensione e per capire (o non capire) le menti perverse di questi sei. L'edizione speciale del disco uscirà anche in una scatola con all'interno un paio di manette, una bottiglia di lubrificante e sei dildo. Il motivo bisognerebbe chiederlo a loro. Intanto ascoltatevi la versione normale.

Voto: 7

lunedì 26 ottobre 2009

Area - Caution Radiation Area (Cramps, 1974)


Non mi stancherò mai di ripetere che gli Area sono la miglior cosa che sia mai apparsa nel panorama musicale Italiano, e questo grazie anche (ma non solo) alla poliedrica voce di Demetrio Stratos.
"Caution Radiation Area" edito nel 1974 è sicuramente il loro album più sperimentale. Proprio per la sue (a volte eccessive, come nel caso della conclusiva "Lobotomia") sperimentazioni, "Caution Radiation Area" risulta l'album più inquietante dell'intera discografia. Il fatto inoltre che l'album inizi sulla falsariga del precedente "Arbeit Macht Frei" (1973) e prosegua pian piano verso la follia pura rende il tutto ancora più allucinato. Ma partiamo con ordine.

L'apertura, affidata a "Cometa Rossa", è un vero classico. L'incredibile voce di Stratos che intona un testo in Greco tristemente ispirato alla strage del Politecnico di Atene, è da brividi.
A parte il rumoroso inizio con vari suoni di natura industriale, anche la seguente "ZYG (Crescita Zero)" si mantiene su basi più prog classico che prog sperimentale. Si tratta di un ottimo brano, dove ogni musicista da un saggio di bravura, operazione nella quale Paolo Tofani con il suo lungo solo di chitarra risalta particolarmente.
Le cose tuttavia, prendono un brusco taglio con la seguente "Brujo" (che in Spagonolo significa "stregone"), una specie di miscuglio tra quanto è avvenuto fin'ora nell'album (progressive rock di alta caratura) e tra quanto avverà (selvagge sperimentazioni). Dopo sei minuti di folli improvvisazioni (trale quali spicca un ottimo assolo di Patrizio Fariselli), il brano si calma quasi di colpo, in modo che Stratos con il tono che lo contraddistingue possa recitare il testo del brano, su una base di sintetizzatori che crea molta inquietudine, cosa arricchita anche dai vocalizzi di Stratos (al limite dello psicopatico) e da un effetto eco applicato sulla sua voce.
Il secondo lato del disco è senza dubbio il più sperimentale. La lunga "MIRage? Mirage!" è, a mio parere, il capolavoro dell'album. Comincia con atmosfere molto oscure e sperimentali (che ricordano un po' l'opera di John Cage). La voce di Stratos si muove lenta, tra inquietanti e distanti suoni di clarino e di percussioni, che si avvicinano sempre di più, fino a culminare in una stupenda rullata di Giulio Capiozzo (probabilmente uno dei batteristi con più gusto al mondo), e trasformarsi in un veloce ritmo jazz (supportato da una delle migliori linee di basso di Ares Tavolazzi), che però continua a essere reso inquietante dai sintetizzatori. Tutto questo però non dura a lungo. La musica infatti si ferma quasi di colpo e ci lascia ad un momento nel quale tutti i membri del gruppo leggono vari testi sovrapposti senza sottofondo musicale inizialmente sottovoce poi sempre piùforte (tra cui una recensione negativa a "Arbeit Macht Frei", un manuale di istruzioni per creare una molotov e la guida dei programmi tv), che piano piano si trasforma in una specie di canto spettrale, fino a culminare in un angosciante urlo che diventa sempre più alto fino al suono di vetri che si frantumano. Il brano, infine, finisce con una sezione strumentale che inizialmente ricorda alcune parti di "Lumpy Gravy" di Frank Zappa, prima di "normalizzarsi" in una sezione melodica tipicamente Area, e, infine terminare sugli stessi inquietanti suoni che hanno aperto il brano. Un gioiello, che purtroppo, a causa della sua complessa e discontinua natura è impossibile da riproporre dal vivo.
Chiude l'album "Lobotomia". Se Finardi un anno più tardi criticava l'avvento della televisione cantando "Con la radio si può scrivere/leggere o cucinare/Non c'è da stare immobili/seduti lì a guardare/E forse proprio questo/che me la fa preferire:/è che con la radio non si smette di pensare" ("La Radio" dall'album "Sugo", 1975), gli Area si dimostrano molto meno amichevoli e più sadici.
"Lobotomia" è un volutamente inascoltabile pastiche di suoni sintetizzati sempre più alti, tra i quali si sono divertiti ad aggiungere citazioni come la sigla di Carosello o del telegiornale. Infine termina su un rumore tipo sega circolare. Un brano che dal vivo veniva reso ancora più inquietante con trucchi coreografici, come ad esempio luci potentissime puntate verso gli occhi del pubblico, oppure spegnere completamente le luci e avvolgere il pubblico in fili di lana prima di riaccenderle.

"Caution Radiation Area", come giustamente ha detto la All Music Guide, è un album probabilmente creato con lo scopo di provocare e di disturbare l'ascoltatore. Ma questo non significa certo che non sia un album estremamente apprezzabile.
Ciò che, tuttavia, non lo rende perfetto è la pesantezza di alcune sezioni (mi riferisco a, appunto, "Lobotomia", ma anche ad alcune parti di "Brujo"), e senza dubbio non è il miglior posto per partire per apprezzare la musica degli Area. Ma resta un lavoro incredibile nel quale la musica a volte sembra che possa letteralmente uscire dalle casse e aggredire l'ascoltatore (cosa che in un certo senso accade con "Lobotomia" che ad un volume esagerato può causare danni ai timpani), assoldato da quello che probabilmente è il gruppo più intelligente che l'Italia abbia mai avuto.

Voto: 9

domenica 25 ottobre 2009

Mauro Repetto - ZuccheroFilatoNero (Dj's Gang, 1995)


Mauro Repetto è uno dei due fondatori degli 883. Non sa cantare, non sa suonare, non sa comporre, non sa ballare (anche se lo faceva), non sa scrivere testi. Non sa fare niente. Però ha fatto un disco, e anche grazie a questo è diventato un'icona del trash. Lavora a Disneyland dopo aver fallito una carriera da regista/cantante, ma analizziamo questo assurdo “ZuccheroFilatoNero”.
Musicalmente niente da dire, qualche arrangiamento risulta addirittura decente con il benestare dei musicisti che ha assoldato (e pagato) coi soldi guadagnati grazie all'amico Pezzali (come Michele Chieppi, alla chitarra, e Francesca Touré che fonderà poi i celebri Delta V), ma i testi (e il cantato) sono quanto di più squallido si possa trovare nella storia del pop degli ultimi 20 anni (si, proprio così). I titoli di canzoni come Voglia di Cosce e di Sigarette, Porno a Las Vegas e Baciami Qui spiegano qual è il tenore dei testi e, scimmiottando lo pseudorap del primo Jovanotti, Pluto...ehm, volevo dire, Mauro, ci dice “quando avrò un figlio da grande boh, canne mai guai a te ipocrita no […] quando sarà con la sua ragazza poi lei gli dirà baciami qui”, oppure di “ste cameriere cerbiatte puttane” che “come giocattoli ci piacciono tutte”. C'è anche di peggio, ma non è il luogo dove spulciarsi i testi, per questo c'è Google. Il disco non ha veramente nessuna attrattiva, se non qualche ritornello tenuto sul limite della sufficienza da qualche corista di qualità.
La verità è che questo trash fa talmente schifo che può anche piacere, ed ha un livello di interesse altissimo per tutti quelli che vogliono rendersi conto cosa significhi battere le mani per 3-4 anni sotto le canzoni di Pezzali (chissà come firmate anche Repetto) diventando un mito senza motivo. Però insomma, nel suo essere osceno, questo disco si merita i suoi ascolti, perché è altresì considerevole che quel poco che aveva da dire costui ha avuto le palle di metterlo in musica, probabilmente consapevole della figura di merda che stava facendo. Un uomo, un mito. Ringraziando anche Cecchetto che ci ha permesso di ascoltare questo capolavoro della putrefazione musicale. Traaaaaaaaaaaaaash.

Voto: 3 (7 per i fan del trash)

sabato 24 ottobre 2009

Armstrong? - Collateral (70 Horses Records, 2009)




Gli Armstrong? sono una realtà nuova per molti, soprattutto per chi non bazzica nell'underground di Torino e provincia. Per questo sicuramente in molti si sono persi in questi anni l'emergere di questa band che brilla per la sua completezza e che ha le carte in regola per andare oltre, seppur divincolarsi nell'estremamente strano e campanilista panorama italico resti un'impresa per pochi fortunati.
Collateral” è di per sé un piccolo gioiellino, una collezione di 11 pezzi che suonano come un saggio e studiato collage di influenze tra le più variegate, dallo shoegaze al post-rock, dal pop rock di stampo italico a quello più inglese, dal noise alla psichedelia. Nominare generi su generi non aiuta di certo a capire cosa aspettarsi da questo lavoro quindi analizziamolo più direttamente.
Il lavoro si apre con Winning You, un pezzo che ricorda molto da vicino i pochi pezzi cantati di band come Giardini di Mirò (quelli di Dividing Opinions soprattutto). E' il pop che si fonde con il post-rock (qualcosa dei Mogwai e degli Explosions in the Sky meno elettrici pulsa in Shivers, oltretutto un gran pezzo, in Wireless Crimes e in What Control), come si contagia di noise à-la-Sonic Youth in A Certain Inclination, tirata power-ballad con basso e chitarra che si rincorrono senza troppe pretese. Qualcuno l'ha definito dream pop, non mi piace come definizione, ma la condivido. Più ruvidi i suoni di Aftermath, contenuta e lineare finché assomiglia ai Marlene Kuntz dei tempi di Ho Ucciso Paranoia, per la musica. Una parola adatta, anche per questa, ancestrale. La title-track sfoggia oltre 2 minuti di relax in note, con melodie distese e distensive, prima di esplodere nel finale da trappola indie degli Strokes mista agli arpeggi di certi, vecchi, Sigur Ros. Nominare tutti questi gruppi non è il mestiere del recensore, ma la varietà del disco è evidentemente illuminante in questo senso. Spunta l'elettronica, in sottofondo, a concludere il disco nel brano finale High Precision Work, pop d'autore alla ...A Toys Orchestra con melodie di facile presa e quell'atmosfera “rumoristica” che per il genere fa sempre la sua porca figura.
La band si appoggia su sonorità di stampo internazionale, e anche quando la voce sembra fare il verso a quella di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, il delay che affonda le chitarre in un mix prevalentemente “noise” ci ricorda che quello che stiamo ascoltando è un disco italiano solo per l'origine geografica. Di non dichiarata esterofilia, i ragazzi potrebbero sicuramente trovare pubblico più interessato all'estero, ma non è il luogo giusto per i consigli. Quello che suonano è essenzialmente un ensemble di musica già sentita, riaggregata in modo originale come a ricomporre un puzzle senza seguire gli incastri giusti, ma inventandosene di migliori. Difficile, ma non impossibile. E gli Armstrong?, si, ce l'hanno fatta. Anche per quanto riguarda i suoni centrano il bersaglio, non si parla di produzioni “da major” ma per essere a questi livelli non ci si può certo lamentare. Ottime soprattutto le chitarre.
Non mi resta che consigliarli a tutti gli amanti dei generi sopracitati per sostenere una band che può dare ad un panorama chiuso come il nostro. Veramente validi. 

Voto: 8,5

venerdì 23 ottobre 2009

Devocka - Perché Sorridere? (Nagual Records, 2009)



Quando un disco ti sa tenere incollato alle casse, fino a farti sanguinare i timpani.
I Devocka, band ferrarese con un bagaglio di esperienza notevole sulle spalle, arriva nel 2009 a pubblicare questo gran disco, forte di una maturità raggiunta prima ancora di un esplosione di successo che ci si chiede se mai arriverà (sempre che la band la voglia). Perché i numeri li hanno. In un album alternative, con forti ingerenze post-punk e tonalità cupe, influenze che da ogni dove confluiscono in un genere unico, personale, subito riconducibile al loro, per chi li conosce. “Perché Sorridere?” e tutti i suoi elementi sono racchiusi nella title-track, graffiante ed acida, che ricorda, come tanti altri pezzi di questo disco (es. Ventre) i Marlene Kuntz più noise. Quindi un po' di Sonic Youth. Ma l'ordinamento dei Devocka è un altro, e in canzoni come la prima Piero e la successiva Corri capiamo che la loro rabbia è ben altro che imitazione. Influenzati dal cinema d'autore e da Burgess (il nome suonerà familiare soprattutto ai fan di Arancia Meccanica), vomitano collera in testi pessimisti, dall'animo grunge, buio, a volte malinconico, accompagnato da arpeggi che arrivano a spezzare le atmosfere più crude dei distorti e dei fuzz, in pezzi come Pane e Lab. A metà tra Smashing Pumpkins e gli Alice In Chains più crossover in Medved, sostenuta da un cantato assolutamente devoto a Cristiano Godano e riff semplici ma di un impatto che definire assoluto è riduttivo. L'equilibrio perfetto di tutti gli elementi ispiratori di questa band è raggiunto dalla splendida Umor Vitreo, forse il brano più riuscito di questo “Perché Sorridere”, sottintendendo comunque che nessun episodio di questo disco si può definire insufficiente, anche quando canzoni come Altre 100 Volte, simile a molte altre di questo stesso lavoro, possano lasciar pensare che l'originalità della band si possa ad un certo punto esaurire (in verità il brano non è da sottovalutare, e con qualche ascolto in più lascia anche trasparire il suo più che discreto “lasting value”). Toni più pop e sommessi in Software spezzano l'ira che spadroneggia in tutta l'opera, nonostante un ritornello esplosivo e a suo modo orecchiabile; è forse il brano in cui si nota di più la produzione di Giulio Favero, che sigla l'ennesimo ottimo disco in un panorama italiano in via di risveglio. I suoni e la produzione sono infatti eccellenti, adeguati al genere e alle pretese dei Devocka, per ottenere quell'effetto calamita che intrappola l'ascoltatore in un susseguirsi di ascolti a ripetizione ai quali tenta di costringerti. La conclusione è affidata a Reazione/Azione, stupenda nei suoi arpeggi più classicamente rock e nell'esplosione del ritornello in cui il frontman Igor Tosi grida “Non meriti una mia reazione!” quasi facendo il verso al Giorgio Canali dei migliori tempi.
Perché Sorridere” è un album assoluto, e per assoluto si intenda “da ascoltare assolutamente”. Merita elogi che vanno ben oltre le parole di una recensione e che possono essere fatti solo con un apprezzamento pieno ed emotivo di ogni singola nota, perché dischi come questi in Italia nel 2009 se ne sono visti pochi e chi si lamenta della morte del nostro panorama underground semplicemente dovrebbe comprare il disco dei Devocka. Vi chiedo solo di fidarvi. 

Voto: 9 

giovedì 22 ottobre 2009

Il Teatro degli Orrori - A Sangue Freddo (La Tempesta/Universal, 2009)

A Sangue Freddo Capovilla e soci sia quello con cui la band vuole fregare i fan firmando un contratto per la distribuzione con la Universal e facendo soldi a palate (grazie mondo stereotipato). Su internet vivono tanti parassiti convinti che la musica underground debba restare tale e che se una band vuole emergere sia da disprezzare. Quando si tratta del Teatro degli Orrori però la questione va presa con le pinze.
I vinti non siamo noi, sono loro. Nel tentativo di fare un lavoro più melodico rivelano i loro punti deboli, pochi. I riff di chitarra sempre troppo simili ai Jesus Lizard e un genere che è già stato raccontato in lungo e in largo col loro primo disco. Le canzoni più aggressive di questo nuovo lavoro infatti, come Mai Dire Mai, E' Colpa Mia e Il Terzo Mondo (“ho fame d'amore e ti desidero”, però, Pierpaolo, se lo poteva risparmiare), quest'ultima una neanche tanto velata critica al nostro paese paragonato appunto alle finte democrazie dei paesi più poveri del mondo, non risultano all'altezza del loro primo “Dell'Impero Delle Tenebre”, e per cui ci concentreremo sugli aspetti di discontinuità. Certo, un pezzo potente come Due merita davvero, ma Io Ti Aspetto in apertura, calma proprio dove non te lo aspetteresti (quasi sdolcinata in alcuni frangenti), vale davvero la pena. Interessante anche Direzioni Diverse, ridicola per la sua base elettronica al primo ascolto ma subito apprezzabile se ci si prende la briga di darle altre chance. I tentativi di cambiare non si registrano sempre come fregature o passi falsi, e questa cosa molti recensori ancora la devono capire. Ottimo anche il testo. C'è anche Majakowskij, il pezzo dalla struttura meno standard, inconsueto stop and go di momenti potenti ed altri più tranquilli (con accenni di piano nel finale, prima dell'esplosione in puro stile Teatro), sul quale spiccano comunque le parole che, di nuovo, vanno ascoltate con attenzione. Stavolta manca la ballata da radio stile “La Canzone Di Tom” e l'unico arpeggio davvero catchy che troviamo è quello di Padre Nostro, in verità uno degli episodi più riusciti del disco, con un ritornello tirato e facilmente memorizzabile nonostante la produzione troppo piena sicuramente non aiuti a rendere “radiofonico” né questo né nessun altro pezzo del disco (non è un difetto, chiaramente). Ritornando invece alla potenza dell'esordio il premio lo vince Alt!, che tenta un approccio easy-listening (ehi! Chi va là? Aaalt!) grazie ad un testo quasi anarchico, che cova una critica all'Italia, non tanto diversamente dalle altre liriche (quando non parlano d'amore, questa, si, una verosimile e condivisibile caduta di stile). In conclusione Die Zeit!, coda noise di un disco neanche troppo vario, che probabilmente apprezzeremo in concerto (se la proporranno).
Non si parli di tecnica perché questi non sono musicisti esperti, anche se hanno uno stile unico nel panorama italiano. Chi li accomuna ai già citati Jesus Lizard di certo non si sbaglia, ma lo stile di Pierpaolo Capovilla è senz'altro unico e chi nello Stivale tentasse di imitarlo saprebbe solo raggiungere risultati ridicoli. Stessa cosa per i suoni, molto curati, e i riff e le linee di batteria ormai marchio di fabbrica di Gionata e Franz (e che dire dei giri di basso di Giulio Favero?).
I quattro ragazzi hanno centrato il bersaglio di nuovo, magari con meno lucidità (a favore di un'orecchiabilità superiore sicuramente più congeniale all'estensione del loro pubblico, semmai ce ne fosse bisogno), ma pur sempre producendo un lavoro onesto, di qualità e con qualche spunto originale quando tentano di assomigliare il meno possibile ai sé stessi del passato. E visto che La Vita E' Breve (nome del penultimo brano) un'ascoltatina è meglio darcela, che ne dite?

Voto: 7

mercoledì 21 ottobre 2009

Serpenti - Sottoterra (Godz, 2009)




I Serpenti sono un duo. E già questo è un elemento interessante, di per sé. Vengano dalla ricchissima scena underground della capitale della musica italiana (Milano), e hanno deciso di far ballare tutti, anche chi questo genere proprio non lo manda giù. Lontani dai suoni troppo dance che impazzano in discoteche dove la qualità della musica è sempre inferiore ogni anno che passa, propongono dieci brani di elettronica pulita ma per niente iperprodotta, che ricorda per certi versi gli episodi più disco della carriera dei Subsonica e qualche elemento del panorama dance internazionale (i Chemical Brothers o i più recenti Justice vi dicono niente?). E' musica sicuramente orecchiabile, molto radio-friendly, all'insegna del ritornello facile da ricordare e, perché no, da canticchiare sotto la doccia. Si perché anche dopo il primo ascolto canzoni come Baciami, Sinuoso Vortice e Libellula, grazie a dei refrain veramente azzeccati, non si dimenticano più. Ad irrobustire il suono ci pensano linee di synth e di basso potenti ed originali, utilissime al fine di far impazzire i corpi degli ascoltatori davanti ad immaginari strobo accecanti. Sempre a tempo, si intende. Ed i ritmi di certe canzoni, come Un Brivido, si possono definire solamente con il termine “indiavolati”. Impossibile non danzare con questa musica, soprattutto ai concerti. C'è spazio per qualche episodio più lento, ma non per questo meno potente e meno d'impatto, come Se Lascio Perdo e Da Sola, in realtà tra i brani più riusciti di questo “Sottoterra”, un disco che punta in alto (e che probabilmente li consacrerà al successo nel mondo del pop e dell'elettronica, magari anche controvoglia). Sono anche i testi e la voce, peraltro molto sensuale, di Gianclaudia, a richiamare l'attenzione. Qualche volta banali (come in Diversa Da Me), a meno che non siano diretti ad un pubblico prettamente adolescenziale, gli scritti della frontwoman di questi Serpenti sanno anche, nella loro semplicità, lasciare il segno, soprattutto in un'ottica di vendibilità della musica (sappiamo quanto contano nel panorama italiano, e per le radio, le liriche di una canzone) e contengono qualche interessante elemento erotico, seppur mai ostentato troppo schiettamente.
Sottoterra” è, in sintesi, una botta di musica elettronica ma dall'animo rock, con l'ambizione di un disco pop d'alta classifica (anche se non sono queste le ammissioni dei membri della band) e che può lasciar presagire, per il futuro di questi due ragazzi, il passaggio al mondo del mainstream. Non che glielo auguri, viste le condizioni della musica da chart italiana, però se tutti i gruppi che sfondano fossero così ci metterei la firma (l'importante è non fare la fine de Il Genio).
Veramente un gran bel disco, fresco, semplice, originale, dotato di una genuinità ineguagliata in questo strano duemilanove. E di dischi così, soprattutto nella scena elettronica underground, non se ne vedono da tempo. 


Voto: 8 

martedì 20 ottobre 2009

Incoming Cerebral Overdrive - Controverso (Supernatural Cat, 2009)



Mai farsi influenzare dal nome di una band. Azzeccato per il genere ma non per la qualità. Quella che sembra una band da due soldi, con un nome trovato nelle sorprese di qualche sacchetto di patatine da discount, è in realtà una promettente realtà che sguazza nella poltiglia di prog ed hardcore non solo di matrice italica che ultimamente ha figliato una gran quantità di band più o meno valide. E questi fanno parte della categoria “validi”.
Gli otto episodi di questo “Controverso” sono una consapevole ed intelligente amalgama di hardcore, metal vecchio stile, prog italiano (qualche passaggio ricorderà gli Area e qualche altro mostro sacro) e math, citando tra le influenze pietre miliari come i Dillinger Escape Plan o i Converge e i meno celebri e sottovalutati Into the Moat.
La partenza devastante di Reflections scalda il piatto per servirci poi altri 30 minuti di riff taglienti, vere e proprie cannonate per mettere a dura prova i timpani (ma non abbassate il volume!). I ragazzi sono una vera e propria macchina da guerra e l'episodio migliore Controversial suona proprio come una battaglia, tra urla di disperazione e continui “stop and go” (in verità non una novità per il genere) che lasciano presagire grandi performance live. Gli incastri di chitarra e batteria sono veramente il piatto forte del disco e li apprezziamo in Science e Sound, i due brani meglio composti (senza sminuire gli altri che sono comunque rare perle nel vasto panorama italiano). A questo punto accenno solamente alla tecnica di questi ragazzi che ci sanno veramente fare, sia al comparto ritmico che a quello melodico (ma non confondiamo le cose, qui più che di melodia si parla di rumore ben studiato, a meno che non stiamo parlando dell'incipit arpeggiato di Magic).
Se li considerate una copia di Botch, Coalesce o Converge non li avete ascoltati abbastanza. Gli ingredienti sono mescolati con una sensibilità e una maestria che lascia veramente stupefatti, con unico difetto forse una troppo avvertibile eterogeneità delle diverse influenze del gruppo, ma ci si chiede se questo possa davvero inficiare negativamente sul risultato finale. Ve li consiglio, i ragazzi ci danno dentro sul serio. Dio se ci danno dentro.  

Voto: 8,5 

lunedì 19 ottobre 2009

Stellastarr - Civilized (Bloated Wife Records, 2009)



Gli Stellastarr (scritto più correttamente “stellastarr*”) sono un quartetto di New York. Devoti al panorama new-wave e “dark” anni '80 dal quale attingono a piene mani ogni giorno decine di nuove band (soprattutto in Inghilterra), come White Lies, Editors, ecc., propongono un indie rock onesto e semplice, senza esagerate pretese di originalità e con una certa carica (molto più dei primi due dischi). Se manca una via personale di approccio ai grandi ispiratori di questo tipo di genere (il cosiddetto post-punk), siano essi i The Cure o i Joy Division, gli Stellastarr presentano in ogni caso un ottimo miscuglio di questo rock ormai visto e rivisto con quello più blando della scena americana (es. Dashboard Confessional), come in “Tokyo Sky”, dove le linee vocali seguono in parte Liam Gallagher in parte appunto cantanti d'oltreoceano come Chris Carrabba. Non è l'unico episodio a divergere dalla linea guida del disco, che comunque si attesta sugli standard post-punk di band come gli Interpol (si ascolti la canzone d'apertura, “Robot”, un carico ballatone che potremo trovare in ogni disco delle band sopracitate, e la seconda “Freak Out”, più o meno identica alle canzoni dei più recenti White Lies, sebbene si possano sentire giri di chitarra di un'orecchiabilità ancora non raggiunta dai giovani londinesi). “Numbers” e (nei ritornelli) “Graffiti Eyes” ci riportano con i piedi a terra. Le influenze new-wave sono più che evidenti, anche se qualche impronta più punk (quello standard) o grunge la si può percepire nei giri di power-chord distorto (come nel ritornello di “Warchild”, quasi un pezzo dei Nirvana cantato da Paul Banks). I suoni smaccatamente british, con dei riff che fanno riferimento a quel panorama più ballabile, stile Bloc Party o The Wombats, compaiono in “Prom Zombie”, un brano più spensierato degli altri e che si prospetta piuttosto coinvolgente nei concerti.
Quello che rende particolarmente interessante l'album di una band che in realtà di originale ha ben poco è l'orecchiabilità di certi riff o di certi arpeggi, che se da un lato strizzano l'occhio ad una scena che già ristagna per la sovrabbondanza di avventurieri che hanno deciso di prendere la stessa via, dall'altro hanno un'anima propria, rivissuta in chiave personale (si ascolti, per questo, soprattutto “Move On”). Anche le linee vocali, per nulla innovative, presentano questa interessante caratteristica. I testi, piuttosto cupi nei toni (come parte delle atmosfere dei brani contenuti in questo “Civilized”), mantengono alto anche il livello formale del disco, di per sé piuttosto potente e diretto anche quando si cede alla melodia più radio-friendly. La qualità del missaggio e della registrazione poteva essere leggermente migliorata, ma non è in questo genere che si richiedono produzioni ultramilionarie, soprattutto se si parla di band che tecnicamente danno già un ottimo apporto al prodotto finale.
E' un disco consigliato a chi apprezza tutta la scena citata sopra, ma anche a chi ha voglia di ascoltare del normalissimo e comunissimo rock commerciale (lo si voglia definire indie, alternative o post-punk, non fa differenza), non certo per fare una festa, ma ottimo in situazioni più casalinghe, mentre fuori piove, o dopo una litigata con la ragazza. Ad essere tristi, te lo insegnano anche con la musica. Buy it.

Voto: 7

domenica 18 ottobre 2009

Jihad Jerry & the Evildoers - Mine is Not a Holy War (Cordless Recordings, 2006)


Guardate la copertina di questo album. Dovrebbe già bastare da sola a spiegare i toni polemici e fermamente anti-Bush di questo album. Jihad Jerry altri non è che Gerald V. Casale, geniale bassista e co-leader dei mitici Devo, che interpreta la parte di un terrorista che come arma usa la musica, prima di realizzare che "the enemy is not the Muslim, the Christian, or the Jew, but stupidity itself".
Ma questo "Mine is Not a Holy War" non è un album a la Devo, per niente. Musicalmente, non è molto lontano dal rock fresco e moderno di gruppi come Queens of the Stone Age (su questo fattore, probabilmente, la batteria di Josh Freese, turnista già al servizio degli A Perfect Circle e appunto dei Devo contribuisce molto, probabilmente), ma con l'aggiunta di cori femminili e di un atmosfera rock blues non distante da quella anni 70.
I Devo non vengono certo abbandonati del tutto, anzi, il nostro ci regala ben tre revisitazioni di brani poco conosciuti: "I've Been Refused", che mantiene la sua componente elettronica ma con una componente chitarristica e blueseggiante assente dall'originale, la B-Side del 1982 "Find Out" riarrangiata in stile decisamente hard rispetto all'originale molto più synth rock e la mitica "I Need a Chick", ancora più violenta e caustica di prima.

Tre brani erano già stati editi su singolo come anteprima, prima dell'uscita del disco, e sono la polemica e trascinante "Army Girls Gone Wild", vero cavallo di battaglia di Jihad Jerry, accompagnata anche da un controverso (e probabilmente censurato) videoclip, il rock blues di "Beehive", un inedito vecchissimo dei Devo (incira 1974) riproposto e riarrangiato e "The Owl", forse la meno riuscita delle tre.

"What's in a Name", che racconta la storia di Jihad Jerry, si muove tra suadenti voci femminili, assoli di armonica e elettrizzante wah wah, mentre "The Time is Now" apre l'album in maniera assolutamente energica e trascinante. "If The Shoe Fits", brano già presente nell'orrido progetto della Disney Devo 2.0 (brani dei Devo con i testi cambiati cantati da bambini) col titolo di "The Winner", viene trasformata da un incoraggiamento nel credere a se stessi a un feroce inno anti Bush. "All She Wrote", brano dalle timbriche decisamente nervose, la cupa "Danger" e la cover di "He's Always There" degli Yardbirds completano il disco.

Un prodotto completamente diverso da ciò che ci si aspetterebbe da un matto come Casale, ma non disprezzabile per questo. Non è ai livelli dei primi album dei Devo, ma è sicuramente meglio di qualsiasi cosa questi avessero pubblicato da "Shout" (1984) in poi.
Non un capolavoro, ma se avete voglia di sentire un rock fresco e energico, questo album fa per voi.

Sfortunatamente, Casale ha detto in un intervista che poiché il pubblico invece di capire il senso ironico di Jihad Jerry , si è spaventato e/o offeso, il progetto probabilmente è destinato a chiudersi con quest'album.

Voto: 7.5

sabato 17 ottobre 2009

Billy Cobham - Magic (Columbia, 1977)


Il nome di William E. Cobham, detto Billy, non suonerà certo nuovo alle orecchie di un vero esperto di musica. Nato a Panama nel 1944, Cobham è famoso per essere un vero caposcuola della batteria, destinato a rimanere nell'Olimpo dei musicisti. Ma Cobham non è solo un batterista formidabile, è anche un eccellente compositore, come dimostra la sua vasta discografia.
Questo "Magic", edito nel 1977, è infatti il suo ottavo disco in soli quattro anni (nel momento in cui scrivo gli album in tutto sono 42), ed è sicuramente una delle cose più riuscite.
Le splendide melodie, sono supportate anche da una lista di musicisti da capogiro. Impossibile, ad esempio non citare l'eccellente lavoro bassistico di Randy Jackson (lo stesso Randy Jackson che oggi fa il giudice su "American Idol"), oppure le percussioni di Sheila Escovedo o le brillanti acrobazie chitarristiche di Pete Mannu.

Il brano più rappresentativo del disco è senza ombra di dubbio "Puffnstuff", pezzo molto vario dagli aromi vagamente Zappiani, soprattutto il tackle piano di Mark Soskin, che ci ricorda i lavori del migliore George Duke, oppure l'ispirato clarinetto di Alvin Batiste, che invece sembra essere uscito da "Uncle Meat" dei Mothers of Invention.
Mentre la partenza è affidata ad una deliziosa melodia di clarinetto, supportata egregiamente da chitarra e tackle piano, a metà brano le cose cambiano completamente, e il brano si trasforma in una sorta di prototipo rap, su una scatenata base di batteria, prima di riprendere il tema originario.
Un altro brano immortale è l'opener "On a Magic Carpet Ride", dominato dalla chitarra, e con un riff magistrale.
"Anteres The Star", con un groove basso/batteria da tramandare ai posteri, e l'irresistibile "AC/DC" contribuiscono a valorizzare ulteriormente l'album.

Se però l'album non raggiunge la perfezione è per colpa di due episodi isolati. Il primo, più controverso, è la lunga title-track, che in realtà è un infuso di due pezzi: "Magic" e "Reflections in the Clouds". Mentre la prima parte, è effettivamente una delle cose migliori del disco (trattasi di un intensissima jam basata su splendidi e mai scontati riff di chitarra e con un grandissimo assolo di basso di Jackson), la seconda è la cosa peggiore, una lunga e prolissa ballata con armonie vocali parecchio noiose e a volte irritanti. L'idea di riunire i due pezzi in un unica traccia non è stata molto felice, ma per fortuna la migliore delle due è quella che apre la traccia, così il risultato è senza dubbio più gradevole.
Anche "Leaward Winds", nella sua gradevolezza, non è paragonabile agli altri brani del disco, risultando forse l'episodio più banale.

Resta comunque un eccellente disco, magari non il migliore di Cobham, ma senza dubbio uno dei più riusciti. Fortemente, fortemente consigliato.

Voto: 8.5

venerdì 16 ottobre 2009

Kings Of Convenience - Declaration of Dependence (EMI, 2009)


Il celebre duo acustico norvegese è tornato dopo quattri anni di pausa (e dopo la consacrazione commerciale). Ad attenderli molti punti interrogativi su come potesse essere il lavoro del ritorno. E la risposta è assolutamente positiva.
Sono tornate le atmosfere folk e pop dalla consistenza prevalentemente melodica, senza sbocchi innovativi ma con l'unica pretesa di comunicare, con le corde della fida chitarra acustica pizzicate con la dolcezza che più appartiene loro, ancora qualcosa. Dopo il successo, niente svolta. E non ci si lamenti. Si perché questo disco evoca immagini ed emozioni di notevole intensità, fin dalle prime note di “24-25”, del secondo brano “Mrs Cold” e di brani dall'irresistibile appeal come “My Ship Isn't Pretty”, quest'ultimo in particolare ad alcuni tratti veramente straziante (per le atmosfere sommesse della voce e dell'accompagnamento strumentale). Dalle classiche tracce lente ci si distacca però con le pop ballad più sostenute come “Rule My World” e “Peacetime Resistance” (dove spuntano anche gli archi a colorare l'atmosfera, in questo caso, più spensierata), che ricordano più gli indimenticabili Simon & Garfunkel (soprattutto la doppia voce) che gli episodi passati dei due scandinavi. Altri due brani, verso la conclusione del disco, meritano un commento. “Second to Numb” e “Riot On An Empty Street” suonano infatti come due treni paralleli, che viaggiano su due binari separati prima di scontrarsi e formare un'unica nube di malinconia.
Straordinaria l'interpretazione alla voce di entrambi, evocativa come non mai; le canzoni, tutte apparentemente strutturate in maniera molto simile, sono, sotto la scorza, veri gioiellini del pop. La ricchezza del contenuto del disco si capisce ascoltandolo almeno tre o quattro volte (possono deludere, in realtà, i testi, che potranno apprezzare i più nostalgici, ma che non sono senz'altro rivolti a certi umori più solari), con il tipo di accompagnamento alla chitarra in realtà più vario di quello che sembra (basti ascoltare ripetutamente “Power of Not Knowing” e si noteranno delle sottigliezze che di primo acchito non è facile cogliere), così come le linee vocali, per scelta molto orecchiabili ed in questo senso di incredibile impatto. Sulla qualità della musica ho già parlato troppo e taglio corto con la tecnica, in quanto non si può parlare molto di ragazzi come Erlend ed Eirik, che già hanno detto molto a proposito di come la voce e la chitarra le sappiano padroneggiare in maniera perfetta.
Non ci resta che assaporare un disco veramente stupendo, con l'unico difetto di non proporre nessuna novità o deviazione rispetto al loro percorso, semmai ce ne fosse bisogno. Perché comprare un disco come questo, e il loro nome in questo senso continua ad essere una garanzia, conviene. 

Voto: 8 

giovedì 15 ottobre 2009

Alice In Chains - Black gives way to blue ( Virgin/EMI, 2009)

Prima di scrivere questo pezzo ci ho pensato su un po: primo perchè volevo avere in mano il cd originale, secondo perchè è stata una dura lotta cominciare a scrivere.
Non ricordo quanti anni siano trascorsi dall'ultima uscita discografica di questa (grande) band, ma a occhio e croce penso siano almeno una quindicina: insomma dalla dipartita del buon Layne Staley in poi era arrivato qualche disco solista di Jerry Cantrell (chitarrista della formazione) ma nulla più.
Ancor prima di dirvi cosa penso di questo Black gives way to blue devo dire che sono uno che crede poco nelle reunion dei gruppi rock dopo la scomparsa di uno dei membri, figuriamoci poi se, come in questo caso, si tratta del frontman!
Gli Alice in Chains hanno fatto parte dell'olimpo del grunge quando questo esplose negli anni novanta a Seattle, e tra le varie compagini era quella (sempre a mio parere) sonoramente più vicina al metal, i cui suoni erano caratterizzati da cupezza, lentezza (leggasi marzialità) e straziante sofferenza, soprattutto per I temi trattati e per il modo di cantare del già compianto Layne, che faceva venire la pelle d'oca dando ad intendere che ciò che cantava era vita vera, la sua.

Ma torniamo al duemilanove: appena messa questa ultima fatica dei reduci degli Alice in Chains (coadiuvati da una nuova voce, al secolo Mr. William DuVall) nel lettore la prima cosa che salta all'orecchio sono I suoni. Non c'è che dire, rispetto ai vecchi dischi il suono d'insieme è bello tosto, preciso, gonfio e ricco di basse, solo che è meno caratteristico, meno A.I.C. e più neometallaro per certi aspetti. Intendiamoci, si riconosce la mano, ma forse chi ha ben in mente I dischi vecchi non può evitare di fare un confronto col passato.

L'apertura è affidata a All secrets known, traccia lenta e con poche aperture melodiche; la doppia voce è forse fin troppo utilizzata ed il tutto risulta un tantino pesante. Il secondo brano del disco è forse il meglio riuscito (Check my brain), probabilmente per il suo refrain “facile” o forse per la durata da brano “normale”. Oltretutto è il pezzo dove meno si sentono echi di vecchie hits.
Il brano Last of my kind si apre con una lunga intro musicale dapprima a base di echi e voci e poi con un riff elettrico, ma anche qui, in cinque minuti e passa non sono riuscito a sentire la nuova voce ed in certi punti ci si sente catapultati nel metallo più pesante grazie ai riff in tonalità gravi.
Traccia quattro (Your decision) acustica che ricorda un po “Nutshell” nell'intro, brano più che famoso tra I fans della prima ora, per cui la pelle d'oca a me viene, ma solo per il ricordo dell'MTV Unplugged fatto anni or sono! Qui però c'è da dire che finalmente viene svelata la voce del nuovo frontman che non è affatto male, fatto salvo il “piccolo” problema di doversi confrontare con un fantasma davvero scomodo.
Riffone vecchio stile A.I.C. in A look in view che in ben sette minuti sette pare incollare insieme due vecchi brani della band, riuscendo addirittura ad annoiare.
Ancora una traccia che si apre con l'acustica in mano a Jerry Cantrell (When the sun rose again) accompagnata dalla tabla: qui a parer mio si sentono meno gli antichi echi e il tutto risulta piacevole, compreso un breve ma evocativo solo di elettrica dopo poco più di metà brano.
Brano numero sette è Acid bubble, che riprende il filo dell'album con chitarre gravi e lente dove viene (ancora una volta) adagiata una linea vocale a due, anche se in questo caso il ritornello apre bene, soprattutto vocalmente, senza ricordare troppo il passato.
Si procede con un tempo più “allegro” su Lesson learned e la voce solista riesce ad emergere per l'intera strofa (!) senza alcun intervento di Cantrell, che però non resiste ed entra nel refrain. Dopo il solo di chitarra il brano ha una nuova apertura molto gradevole che lo porta al finale.
Si ritorna lenti (ma meno pesanti) su Take her out, che ha un ritornello davvero niente male...
Anche Private hell, come altri pezzi precedenti evoca I vecchi fantasmi, con la sua lenta dolcezza: pure qui manca l'ingrediente che fa si che questo disco non sia un gran disco: l'interpretazione semplicemente disarmante del buon Layne! Jerry Cantrell ce la mette tutta anche qui con un solo straziante, ma non basta; comunque questo è un brano secondo me abbastanza riuscito, malgrado l'uso della doppia voce dal principio alla fine.
La title track (una ballad) chiude l'intero lavoro; il signor DuVall fa sentire che c'è e in certi momenti riesce ad emozionare davvero, complici forse le note di pianoforte che lo accompagnano. Solo tre minuti questa Black gives way to blue, ma tre minuti di quelli da ricordare.

Alla fine l'impressione generale su questo lavoro non è entusiastica: avevo altre aspettative nei loro confronti, mi aspettavo un cambiamento avendo loro una nuova voce solista ed essendo passati un bel po di anni dall'ultima fatica.
Non mi sento nemmeno in grado di dire se il nuovo singer sia bravo oppure no dati i suoi brevi interventi sui brani, durante i quali si cerca di ricostruire la doppia voce che caratterizzava i vecchi pezzi esagerando nell'utilizzarla anche laddove non servirebbe.
Insomma attendevo un disco nuovo in cui anche il nuovo elemento esprimesse la sua personalità, creando una nuova amalgama: speravo in un risultato à là Alterbridge, in cui innestando un (peraltro bravissimo) cantante nella originaria formazione Creed ne è uscito qualcosa di diverso. Rispetto ai lavori precedenti ho anche sentito un Mike Inez ed un Sean Kinney normali, e non grandiosi come li ricordavo: un vero peccato.
Fossi stato in Jerry Cantrell e avessi proprio dovuto rimettere insieme i ragazzi avrei avuto almeno il buon gusto di cambiare ragione sociale alla ditta: Layne, ci manchi!

Voto: 5.5

mercoledì 14 ottobre 2009

Soundgarden - Superunknown (A&M, 1994)


Prima di tutto infilo il jack nella presa per le cuffie, poi prendo dalla pila dei cd questo disco, estraggo il libretto e premo play...Credo di averlo preso in un cassettone al centro commerciale dopo anni dalla sua uscita: l'originale ci voleva!

Ma passiamo alle impressioni che questo lavoro lascia nelle orecchie e nel cuore.
Tutto comincia con una esplosione in cuffia: Let me drown parte a bomba con chitarre in faccia e voce meravigliosa di Chris Cornell, che ad un certo momento lancia il solo con uno dei suoi urli da pelle d'oca. Ora qualcuno mi potrebbe chiedere perchè ho messo su Superunknown quando questa band è in pensione da circa una decina di anni ma data la recente uscita di Scream volevo che chi legge questo blog andasse a cercarsi un disco in cui il vecchio Chris canta come si deve e, soprattutto, senza vocoder!
E intanto parte My wave, col suo riff di chitarra ipnotico e gonfio e quando giunge il ritornello tutto il suono si apre e ne esce qualcosa di stupendo: insomma, questa è una band che molti considerano estremista nella scena grunge, ovvero un gruppo che strizzava l'occhio al metallo per certi versi. Non diresti mai che quattro ragazzacci del genere potessero essere così melodici. (ndr My wave è la suoneria del mio cellulare).
La traccia successiva si apre calma (Fell on black days) e anche qui appena inizia la parte vocale mi tornano alla mente un sacco di ricordi: se quelli erano i suoi giorni neri beh, li vogliamo indietro in molti... Solo da manuale con wah a manetta (siamo nei nineties) e si chiude con un poker di ritornelli, con la voce che ad ogni frase si alza e si sporca, fino a tornare di colpo dolce. Il postino suona (Mailman) con un riffone veramente pesante, coadiuvato da feedbacks che lasciano spazio alla voce: il brano è quasi marziale, in più sembra strano ma in mezzo ai sente addirittura un mellotron. La voce roca e con un poco di effetto evoca sofferenza e rabbia...
A questo punto fa capolino la titletrack, dove i musicisti creano “solo” un tappeto per la voce (batteria in quattro quarti senza fronzoli, riff di chitarra che “spunta” qua e la, basso che pompa in modo discreto). Il brano per certi versi è molto zeppeliano, basti ascoltare il bridge con campanellini freak e pattern sui tom; anche se poi arriva preciso un solo di chitarra con il pedale del wah pestato a dovere.
A sentire la partenze di Head down qualcuno potrebbe pensare di aver cambiato disco, invece poi batteria e chitarra elettrica ti fanno capire che sei ancora coi Soundgarden: questo brano è una sorta di ballata elettrica, il cui testo però non parla d'amore, ma bensì di dissidi interiori come nella migliore tradizione. Poche parole, forse a prima lettura semplici, forse pessimistiche, ma che alla fine sanno far intravedere la luce in fondo al tunnel: “head high like a song you like”. A metà disco (ben 16 i pezzi, e il disco scorre che è una meraviglia ancora oggi) uno dei brani più conosciuti della band: Black hole sun: un vero masterpiece che ad ogni ascolto mi fa tremare le gambe e commuovere come fosse il '94! Ok, probabilmente sono troppo di parte per recensire un disco che è nella mia top ten personale, ma così è se vi pare... La traccia 7 (che in molti dischi ho notato essere la migliore, chissà se è una coincidenza) di cui si scriveva va ascoltata per forza: se amate il rock non potete tirarvi indietro...anzi spero non sia servito dirvelo!
Si prosegue col secondo brano più famoso del lavoro, ovvero Spoonman, dove il signor “Artis the Spoonman” mette a disposizione i suoi cucchiai e li suona su tutto il pezzo in perfetta simbiosi con il drumming potente di Matt Cameron. Anche il riffone di chitarra è di quelli che non ti lasciano più. Se leggete sul libretto (per questo i dischi che mi piacciono li prendo originali!) scoprirete che, oltre alle curiosità sonore del pezzo, il suo titolo l'ha scelto Jeff Ament, bassista dei Pearl Jam. Godetevi il solo di Mr. Spoonman, e per un attimo vi sembrerà di vederlo seduto su una veranda del sud a suonare i suoi cucchiai.
Il brano successivo è Limo wreck, che comincia con una intro strumentale per poi diventare una sorta di blues scuro ed elettrico: confrontate il cantato del ritornello di questa canzone con un qualsiasi brano di Scream e poi ditemi!
Il pezzo che segue è The day I tried to live dove a fare il lavoro sporco stavolta è un basso gonfio e presente come oggi è raro sentire. La strofa è cadenzata, ma il tutto prende veramente forma nel ritornello dove a comandare è la chitarra.
Con la traccia titolata Kickstand si schiaccia l'acceleratore sfiorando territori punk, anche se il testo non è il migliore del mondo: da quasi l'impressione di essere una canzone riempitivo, e dato il numero delle canzoni del disco non se ne sentiva il bisogno.
A questo punto si riparte con un beat più lento, ma più caro alla band, con Fresh tendrils: qui si sentono riff stoppati chitarristici che in seguito sarebbero diventati pane quotidiano per molti new-metallers. Un brano, questo, che se messo a confronto con i precedenti non riesce a brillare, ma che da ancora una volta modo alla voce di uscire ed impressionare...o per meglio dire emozionare.
Il quattro di luglio dei Soundgarden (4th of July) si apre invece più scuro che mai, con il distorsore a manetta e con una linea vocale malata e malinconica che recita: “I heard in the wind and I saw it in the sky and I thought it was the end and I thought it was the 4th of July”. Hey se notate c'è una croce a fianco del titolo...Un grande pezzo che a parer mio ricorda i loro compagni di avventura Alice in Chains...
E dopo i fuochi d'artificio vi sembrerà ancora di aver messo un altro disco, trovandovi davanti un sitar e una voce indù. Non avete sbagliato (di nuovo) perchè il brano in questione è sempre targato Soundgarden e si intitola Half e qui non sentirete altra voce se non quella descritta poco sopra a ricordarci i seventies.
Con il penultimo brano si torna a tematiche “care” al genere, a cominciare dal titolo che è tutto un programma Like suicide: il brano è scarno e lascia spazio ad un testo introspettivo e toccante, interpretato a meraviglia. Per definire questa canzone mi viene in mente la parola “sospeso”...
Sorpresa finale è She likes surprises che si apre in un modo burlesco con intromissioni di puro suono grunge, che costituiscono il ritornello del pezzo. Qui si rimane sorpresi due volte: quando la canzone comincia e quando il ritornello ti riporta alla Seattle di metà anni novanta. Ora ho le orecchie sudate (che brutta immagine) e tolgo le cuffie...

Il lavoro fatto sui suoni di questo disco dal signor Brendan O'Brien (si ok, è come sparare sulla croce rossa: dove passa lui non cresce più l'erba!) è strepitoso: c'è energia, c'è “pompa” senza l'utilizzo di suoni artificiali/artificiosi (lo dico pensando ai suoni di bateria super-dopati dei dischi rock odierni) e le chitarre paiono uscire da un ampli piazzato proprio dietro la mia scrivania. Per dirla in modo semplice si sente che ci sono quattro persone che stanno suonando insieme; cosa che in certi lavori si sente a fatica.
Senza incensare le capacità vocali del leader della band (a quei tempi) c'è da aggiungere che l'interpretazione dei testi, soprattutto laddove c'è ciccia (spessore) è perfetta. Vero che sarebbe difficile il contrario, dato che chi canta ne è anche l'autore, ma non sempre è scontato che sia così.
Mi sembra di avervi detto tutto sulla musica che c'è dentro Superunknown e penso non serva dare un giudizio: primo perchè ho già confessato di esserne un estimatore e non sarei obbiettivo, secondo perchè credo che il giudizio sulla musica (e sull'arte in genere) non possa essere che soggettivo.
E per finire, di seguito una breve nota cui ho pensato sfogliando il libretto (che ha i testi non in ordine...che sia solo la mia copia?)...
Infatti per spiegare e spiegarsi molte cose sul grunge è sufficiente leggere il nome della società che al tempo (o forse ancora oggi) deteneva il copyright dei brani di Superunknown, ovvero “You make me sick I make music”: praticamente il riassunto di una scena musicale... “Thank you, good night people”.


Voto: 8

domenica 11 ottobre 2009

Barcolana Festival - Trieste: Giornata 2 (10 Ottobre 2009)




Seconda Giornata: Cesare Cremonini
Come ogni anno alla Barcolana non c'è spazio solo per il rock più "di nicchia" (se lo si può ancora definire così nel 2009...) ma anche per artisti provenienti dal mondo di MTV e delle hit parade. Quest'anno questo posto è affidato a Cesare Cremonini, come previsto accolto da un bagno di folla (in verità giunta a concerto già iniziato) e da numerose ragazzine (tra le quali citiamo le cosiddette "Giubbe Rosse", fan che lo hanno seguito dalla prima all'ultima data del tour, che per l'appunto è questa di Trieste). La scaletta del "cantautore" bolognese si concentra su tutti i singoli della sua non più molto breve carriera, sui quali spiccano le vecchie glorie dei Lunapop, come Qualcosa di Grande e 50 Special, e quelle più recenti come Padremadre e Latin Lover. Immancabili i singoli dall'ultimo disco (Figlio di Un Re, Le Sei e Ventisei e Il Pagliaccio), che con i musicisti che si può permettere rendono veramente bene. Si conclude con l'ormai immancabile Un Giorno Migliore una performance di 1 ora e 50 dove Cesare dimostra di essere in grado non solo di sostenere il difficile confronto con un pubblico numerosissimo e fedelissimo, ma anche di suonare il pianoforte e cantare con apprezzabile bravura. Alla faccia dei detrattori. Pollice alzato anche per gli strumentisti tutti molto dotati e precisi, che mettono in scena alcuni arrangiamenti più "complessi" ed agghindati rispetto alle versioni dei dischi, proponendo quindi uno spettacolo live dai toni in certi momenti più rock, ma in generale sempre fedele ai canoni pop di Cremonini.

Se il prossimo anno vi capita di passare per Trieste ad Ottobre non perdetevi la Barcolana, splendido evento non solo per la musica e che accoglie, in ogni caso, anche artisti di un certo spessore in una delle piazze più affascinanti d'Italia. Unica nota dolente le imprecisioni organizzative (del tipo sbagliare i nomi dei gruppi sul cartellone?), superate comunque dalla qualità dello spettacolo che, bisogna ammetterlo, nonostante la pioggia non è andato alla deriva.

* Foto by Mak

sabato 10 ottobre 2009

Barcolana Festival - Trieste: Giornata 1 (9 Ottobre 2009)





La "Barcolana" è una regata velica che si tiene annualmente nella quantomai affascinante cornice del capoluogo friulano (giuliano per gli indigeni). Negli ultimi giorni dell'evento si tiene, come da tradizione, un piccolo festival dal cartellone però sempre piuttosto ambizioso. Dopo aver portato Negrita, Elio e Le Storie Tese, Fabri Fibra, Frankie Hi Nrg Mc, L'Aura e tanti altri, quest'anno è la volta di artisti del calibro di Cesare Cremonini e dei neozelandesi/inglesi The Veils, che aprono proprio la prima giornata.

Prima giornata: Lombroso, Nylo, Amari e The Veils
L'inizio della serata è affidato ai Lombroso, band di recente formazione capitanati dall'ex violinista degli Afterhours, Dario Ciffo (qui in veste di cantante/chitarrista), spalleggiato dal "baffuto" Agostino Nascimbeni alla batteria. Il loro set è piuttosto breve e si concentra sui pezzi più noti del loro repertorio, tra le quali annoveriamo Paradiso e Credi di Conoscermi. Certamente messi in difficoltà da un pubblico non proprio "collaborativo", hanno comunque suonato in maniera discreta sebbene la loro resa live sia a volte parzialmente compromessa da un songwriting banale (che in verità incide più sui dischi che sulle performance live).
A seguire i Nylo, giovane band di Trieste/Monfalcone che propone un set onesto di rock dalle influenze brit, seppur con qualche ritmo "ballabile" tipico del panorama indie più recente. Le canzoni suonano tutte molto simili tra di loro (Verve e White Lies tra gli artisti che possiamo associare a livello di sound) ma rendono abbastanza bene, soprattutto per gli intrecci di chitarra tipici di questo genere ultimamente molto di moda. Dopo poco più di 30 minuti lasciano spazio ai tanto chiacchierati Amari, il cui nuovo disco Poweri uscirà a breve. Utilizzano infatti questa occasione per pubblicizzarlo e la loro setlist si concentra soprattutto su quello. Le nuove canzoni non sembrano promettere molto bene, a parte il singolo Dovresti Dormire che incita i fan presenti nella piazza a qualche coro, insieme ai brani più conosciuti, provenienti ovviamente dai lavori passati della band (come Le Gite Fuoriporta e Arpegginlove). Il loro genere si presta bene ad un pubblico come quello di Trieste che ama musica di questo tipo, ma rischiano, in altri contesti, di scendere dal palco con qualche fischio, per gli arrangiamenti troppo synth-pop che forse competono più ad artisti come Bugo.
Dopo un soundcheck "difficile" salgono sul palco i The Veils. Sono ovviamente la band più esperta della serata e lo si capisce sia dal suono che dalla loro tenuta di palco. Musicalmente si notano poche imprecisioni nonostante la visibile frustrazione del frontman Finn Andrews per i problemi alla chitarra. Anche la loro scaletta si concentra su brani recenti (come il singolo di quest'estate The Letter) ma non manca la celebre Lavinia in conclusione di set, acclamata dalla folla sotto la pioggia che non ha comunque compromesso la bella performance di questi ragazzi. Immancabili i seguaci più accaniti che chiedono più volte il bis dopo aver cantato e saltato per l'intero set (durato circa un'ora).

* foto by Mak