Quarta fatica per la band australiana di “amici” dei Rolling Stones, arrivata, per ironizzare sul loro nome, a questo punto con la cosiddetta “sindrome del jetlag”. Producono ancora qualche riff e qualche linea vocale di facile presa, ma è chiaro che si tratta di un volo a bassa quota (un po' come tutte quelle realtà solitamente definite “indie” che esplodono vendendo milioni di dischi con il successo di pochi singoli azzeccati per poi morire sotto il peso dei nuovi arrivati).
In un album come questo non sono più importanti le influenze, che per questi ragazzi sono un po' le stesse degli Oasis e di tanti altri del panorama inglese (nonostante vengano dall'altra parte del mondo), quindi Beatles, ecc. (e si sentono in quasi tutti i pezzi), ma il “lasting value”, cioè quanto il disco verrà riascoltato teoricamente dopo il primo ascolto. A parte qualche pezzo piuttosto energico, come il primo singolo She's A Genius (che ci illude di essere un pezzo dei Rage Against the Machine all'inizio), brano di onesta attitudine commerciale che evidentemente i Jet sanno esprimere solo con alcuni “luoghi comuni” che la fanno facilmente accostare a pezzi del passato (il vero tallone d'Achille del disco), la seguente Black Hearts (on Fire), col suo tiro iniziale da cavalcata dei conterranei Ac/DC, e Star the Show, c'è poco altro da apprezzare. Ma c'è anche quella componente più soffice, melodica, tipica di queste band. She Holds A Grudge, il pezzo conclusivo, è uno di quelli ma è anche uno degli episodi meno riusciti. Troppo melodrammatici e scontati, preferibili quando si rifugiano in quei riffetti pseudopunk dagli overdrive leggeri e sfumati che si possono anche ballare e che li hanno consacrati nel panorama mainstream. Ed infatti funziona la traccia di apertura K.I.A. (Killed In Action), un rockettino da radio che senz'altro tiene testa a qualche loro singolo del passato (ma non dello sdolcinato “Shine On”), così come Seventeen, dall'apertura “cavalcante” prima di diventare un pezzo con uno dei soliti riff stereotipati del panorama rock inglese (e ripeto, non sono inglesi), con tanto di coretti à-la- The Kooks (identica a Times Like This, se non per il cantato). Però si ascolta volentieri, come il resto del disco (anche La Di Da molto interessante, con qualche influenza Rollingstonesiana).
Facendo un bilancio soppesato del disco, lo possiamo tranquillamente collocare sopra la linea della sufficienza, ammettendo però la mancanza evidente di quella freschezza che potevano avere i primi lavori o altri prodotti della scena alternative rock di inizio di millennio. I riff e le linee vocali superano il test della passabilità, anche se non brillano per l'originalità (e neppure i testi), soprattutto quando si vuole compensare l'assenza di idee con qualche ballatona strappalacrime che non porta da nessuna parte. La produzione del disco è buona e così il suono, che però sarà difficile riprodurre con la stessa precisione e con lo stesso gusto nei live (già alcune lamentele sono arrivate negli anni per le loro performance). In ogni caso un disco che può piacere a chi cerca CD da macchina con brani di 3 minuti di media e un ritornello da canticchiare, senza pretendere nient'altro che questo. Verso l'atterraggio.
Voto: 6.5
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