Ma passiamo alle impressioni che questo lavoro lascia nelle orecchie e nel cuore.
Tutto comincia con una esplosione in cuffia: Let me drown parte a bomba con chitarre in faccia e voce meravigliosa di Chris Cornell, che ad un certo momento lancia il solo con uno dei suoi urli da pelle d'oca. Ora qualcuno mi potrebbe chiedere perchè ho messo su Superunknown quando questa band è in pensione da circa una decina di anni ma data la recente uscita di Scream volevo che chi legge questo blog andasse a cercarsi un disco in cui il vecchio Chris canta come si deve e, soprattutto, senza vocoder!
E intanto parte My wave, col suo riff di chitarra ipnotico e gonfio e quando giunge il ritornello tutto il suono si apre e ne esce qualcosa di stupendo: insomma, questa è una band che molti considerano estremista nella scena grunge, ovvero un gruppo che strizzava l'occhio al metallo per certi versi. Non diresti mai che quattro ragazzacci del genere potessero essere così melodici. (ndr My wave è la suoneria del mio cellulare).
La traccia successiva si apre calma (Fell on black days) e anche qui appena inizia la parte vocale mi tornano alla mente un sacco di ricordi: se quelli erano i suoi giorni neri beh, li vogliamo indietro in molti... Solo da manuale con wah a manetta (siamo nei nineties) e si chiude con un poker di ritornelli, con la voce che ad ogni frase si alza e si sporca, fino a tornare di colpo dolce. Il postino suona (Mailman) con un riffone veramente pesante, coadiuvato da feedbacks che lasciano spazio alla voce: il brano è quasi marziale, in più sembra strano ma in mezzo ai sente addirittura un mellotron. La voce roca e con un poco di effetto evoca sofferenza e rabbia...
A questo punto fa capolino la titletrack, dove i musicisti creano “solo” un tappeto per la voce (batteria in quattro quarti senza fronzoli, riff di chitarra che “spunta” qua e la, basso che pompa in modo discreto). Il brano per certi versi è molto zeppeliano, basti ascoltare il bridge con campanellini freak e pattern sui tom; anche se poi arriva preciso un solo di chitarra con il pedale del wah pestato a dovere.
A sentire la partenze di Head down qualcuno potrebbe pensare di aver cambiato disco, invece poi batteria e chitarra elettrica ti fanno capire che sei ancora coi Soundgarden: questo brano è una sorta di ballata elettrica, il cui testo però non parla d'amore, ma bensì di dissidi interiori come nella migliore tradizione. Poche parole, forse a prima lettura semplici, forse pessimistiche, ma che alla fine sanno far intravedere la luce in fondo al tunnel: “head high like a song you like”. A metà disco (ben 16 i pezzi, e il disco scorre che è una meraviglia ancora oggi) uno dei brani più conosciuti della band: Black hole sun: un vero masterpiece che ad ogni ascolto mi fa tremare le gambe e commuovere come fosse il '94! Ok, probabilmente sono troppo di parte per recensire un disco che è nella mia top ten personale, ma così è se vi pare... La traccia 7 (che in molti dischi ho notato essere la migliore, chissà se è una coincidenza) di cui si scriveva va ascoltata per forza: se amate il rock non potete tirarvi indietro...anzi spero non sia servito dirvelo!
Si prosegue col secondo brano più famoso del lavoro, ovvero Spoonman, dove il signor “Artis the Spoonman” mette a disposizione i suoi cucchiai e li suona su tutto il pezzo in perfetta simbiosi con il drumming potente di Matt Cameron. Anche il riffone di chitarra è di quelli che non ti lasciano più. Se leggete sul libretto (per questo i dischi che mi piacciono li prendo originali!) scoprirete che, oltre alle curiosità sonore del pezzo, il suo titolo l'ha scelto Jeff Ament, bassista dei Pearl Jam. Godetevi il solo di Mr. Spoonman, e per un attimo vi sembrerà di vederlo seduto su una veranda del sud a suonare i suoi cucchiai.
Il brano successivo è Limo wreck, che comincia con una intro strumentale per poi diventare una sorta di blues scuro ed elettrico: confrontate il cantato del ritornello di questa canzone con un qualsiasi brano di Scream e poi ditemi!
Il pezzo che segue è The day I tried to live dove a fare il lavoro sporco stavolta è un basso gonfio e presente come oggi è raro sentire. La strofa è cadenzata, ma il tutto prende veramente forma nel ritornello dove a comandare è la chitarra.
Con la traccia titolata Kickstand si schiaccia l'acceleratore sfiorando territori punk, anche se il testo non è il migliore del mondo: da quasi l'impressione di essere una canzone riempitivo, e dato il numero delle canzoni del disco non se ne sentiva il bisogno.
A questo punto si riparte con un beat più lento, ma più caro alla band, con Fresh tendrils: qui si sentono riff stoppati chitarristici che in seguito sarebbero diventati pane quotidiano per molti new-metallers. Un brano, questo, che se messo a confronto con i precedenti non riesce a brillare, ma che da ancora una volta modo alla voce di uscire ed impressionare...o per meglio dire emozionare.
Il quattro di luglio dei Soundgarden (4th of July) si apre invece più scuro che mai, con il distorsore a manetta e con una linea vocale malata e malinconica che recita: “I heard in the wind and I saw it in the sky and I thought it was the end and I thought it was the 4th of July”. Hey se notate c'è una croce a fianco del titolo...Un grande pezzo che a parer mio ricorda i loro compagni di avventura Alice in Chains...
E dopo i fuochi d'artificio vi sembrerà ancora di aver messo un altro disco, trovandovi davanti un sitar e una voce indù. Non avete sbagliato (di nuovo) perchè il brano in questione è sempre targato Soundgarden e si intitola Half e qui non sentirete altra voce se non quella descritta poco sopra a ricordarci i seventies.
Con il penultimo brano si torna a tematiche “care” al genere, a cominciare dal titolo che è tutto un programma Like suicide: il brano è scarno e lascia spazio ad un testo introspettivo e toccante, interpretato a meraviglia. Per definire questa canzone mi viene in mente la parola “sospeso”...
Sorpresa finale è She likes surprises che si apre in un modo burlesco con intromissioni di puro suono grunge, che costituiscono il ritornello del pezzo. Qui si rimane sorpresi due volte: quando la canzone comincia e quando il ritornello ti riporta alla Seattle di metà anni novanta. Ora ho le orecchie sudate (che brutta immagine) e tolgo le cuffie...
Il lavoro fatto sui suoni di questo disco dal signor Brendan O'Brien (si ok, è come sparare sulla croce rossa: dove passa lui non cresce più l'erba!) è strepitoso: c'è energia, c'è “pompa” senza l'utilizzo di suoni artificiali/artificiosi (lo dico pensando ai suoni di bateria super-dopati dei dischi rock odierni) e le chitarre paiono uscire da un ampli piazzato proprio dietro la mia scrivania. Per dirla in modo semplice si sente che ci sono quattro persone che stanno suonando insieme; cosa che in certi lavori si sente a fatica.
Senza incensare le capacità vocali del leader della band (a quei tempi) c'è da aggiungere che l'interpretazione dei testi, soprattutto laddove c'è ciccia (spessore) è perfetta. Vero che sarebbe difficile il contrario, dato che chi canta ne è anche l'autore, ma non sempre è scontato che sia così.
Mi sembra di avervi detto tutto sulla musica che c'è dentro Superunknown e penso non serva dare un giudizio: primo perchè ho già confessato di esserne un estimatore e non sarei obbiettivo, secondo perchè credo che il giudizio sulla musica (e sull'arte in genere) non possa essere che soggettivo.
E per finire, di seguito una breve nota cui ho pensato sfogliando il libretto (che ha i testi non in ordine...che sia solo la mia copia?)...
Infatti per spiegare e spiegarsi molte cose sul grunge è sufficiente leggere il nome della società che al tempo (o forse ancora oggi) deteneva il copyright dei brani di Superunknown, ovvero “You make me sick I make music”: praticamente il riassunto di una scena musicale... “Thank you, good night people”.
Voto: 8
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