venerdì 29 dicembre 2017

Mauro Pina - L'Ho Scritto Io (Pirames International, 2017)

Mauro Pina non è un nome sconosciuto nel panorama musicale italiano, quantomeno agli sguardi più attenti. Ormai vent'anni fa pubblicava un pezzo arrangiato per lui da Dario Baldan Bembo, tentava una collaborazione con Lucio Dalla, e tra le altre cose fondava un'agenzia musicale, conduceva un programma radio e tentava di farsi notare con un pregiato tributo a Lucio Battisti che ha avuto i suoi momenti di successo. Il cantautore erbese arriva solo nel duemiladiciassette al suo primo sforzo discografico scritto di proprio pugno, un esordio al fulmicotone che lo proietta subito piuttosto in alto, anche vista l'ambizione di fare un lavoro complesso, lungo, un disco integrale che vede addirittura ospite Rosalinda Celentano, assente dalle scene da almeno due decenni. 
Cosa contiene dunque "L'Ho Scritto Io", con questa dichiarazione d'intenti così virulenta inserita già nel titolo? Il contesto di fondo è un pop di pregevole fattura, che spesso salta di genere in genere - come nel pop è giustificato fare - per dare uno spettro molto ampio di sfumature, atmosfere, emozioni, pur peccando di un'eccessiva eterogeneità. "Ora Basta" e "La Risposta" risuonano di progressive rock italiano, gli stessi stilemi trovano il funky in "L'Uragano" in uno sposalizio ideale, e "Inconfondibile" ricorda sicuramente i Beatles, pur avendo dalla sua un'anima delicata e molto radiofonica che rammentano di più il pop italiano degli anni settanta, quando i suoni inglesi iniziavano a fare breccia nella nostra scena. Nei momenti più intensi, come "Can Be Really So", forse si perde un po' il senso di quelle interpretazioni sì dinamiche ma anche precise e malinconiche, dove la voce di Mauro risiede nel suo habitat naturale: fate attenzione ad esempio a "Momenti", un folk americano rivisitato in salsa italica, di conseguenza una ballata, dove la resa vocale è al suo massimo. 

I testi, le melodie, gli arrangiamenti, le scelte nel mixing e nel mastering: tutto suona brillante e studiato al punto giusto, per una confezione che definisce questo lavoro anche dal punto di vista del contorno, dell'estetica - ad eccezione della copertina davvero orribile e "vecchia" - non tralasciando ottimi contenuti lirici. Come già detto, la troppa diversità delle varie canzoni può giocare a sfavore, ma in generale la valutazione del disco non può scendere sotto un buon sette. Congratulazioni a Pina.

lunedì 25 dicembre 2017

Edoardo Pasteur - Dangerous Man (autoproduzione, 2017)

"Dangerous Man", uomo pericoloso. Autore genovese, testi in inglese, ispirazioni americane. Un esordio ambiziosissimo, una sorta di Icaro del songwriting, a partire dall'interpretazione scolastica della lingua anglosassone tipica di noi italofoni che fin da subito distoglie l'attenzione dal prodotto. Dado, questo uno degli alias di Edoardo Pasteur, prova a togliersi dal cilindro il suo capolavoro personale, centrifugando tutta la sua cultura musicale in un concentrato di rock, folk, musica d'autore inglese e americana. Ci sentiamo Bob Dylan, i Dire Straits, Leonard Cohen, i lavori solisti di Robert Plant, ma anche effervescenze latinoamericane, cenni lontani di blues à la John Lee Hooker. Alcuni riferimenti sono al limite del plagio, come "Hey Hey You (The Warriors") con il cantautore di Duluth, in ogni caso un pezzo che suona spontaneo e tra i momenti più alti, complice forse anche la contaminazione cinematografica che spunta celebrando Walter Hill e il suo "Guerrieri della Notte", nella versione inglese intitolato appunto "The Warriors""Brothers (Paris 13th November 2015) è quasi un elegia funebre, seppur con un arrangiamento che la nobilita elevandola a ballad di classe, dedicata ai morti del Bataclan in quello che sembra essere l'attentato terroristico che più ha sconvolto il mondo musicale, che ne sta dando fin troppe interpretazioni, riletture, commemorazioni. Il brano è in realtà molto riuscito, e la critica non è assolutamente rivolta al buon Dado, qui sicuramente commosso, genuinamente s'intende, e in grado di dare profondità al significato del testo anche senza svolazzi vocali e iperboli tecniche. Molti sono i pezzi che suonano standard, già sentiti o comunque fuori fuoco, ma quando si predispone sulla scacchiera il proprio set di mosse più studiate si riescono a scorgere gli effetti delle tante influenze: le cornamuse scozzesi di "Princess Gaze" e il riff di "Big Fish" (altro riferimento al grande schermo, stavolta in omaggio a Tim Burton) che suona come i Santana di "Abraxas" o di "Caravanserai", anche se lo scheletro del brano richiedeva forse un maggior sostegno ritmico.

Di fatto, il difetto principale di questo lavoro è la sua eterogeneità. Superato l'impatto, quasi brutale, con un inglese tanto imperfetto quanto antimusicale, i singoli pezzi risultano tutti gradevoli, ben congeniati, con un gran lavoro alle spalle. Manca però la coesione, e per lavori di questo tipo a volte è necessario anche ragionare su come dare corpo ad un'opera unica piuttosto che a un best of slegato. O forse no? Del resto siamo nell'epoca dello streaming online, le cose sono cambiate, boh...chi lo sa, in ogni caso un'opera che merita l'attenzione che sta ricevendo. 

giovedì 21 dicembre 2017

Luca Bash - Oltre Le Quinte (autoproduzione, 2017)

Luca Bash nasce come violinista, poi conosce la passione per la chitarra acustica e la canzone d'autore. Fonda anche una band, i Bash appunto, che lasciano un segno profondo nella sua anima di musicista, quasi quanto l'incidente in moto che lo mandò in coma qualche giorno. 
Bastano pochissimi minuti, al primo ascolto di questo "Oltre Le Quinte", per capire che chi lo interpreta ha molto da dire, sa come farlo, e ha intenzione di farlo arrivare al destinatario. Il mittente di questo messaggio ha deciso di scriverlo in due lingue, componendo anche la versione in inglese "Keys of Mine", utilizzando tutti gli stereotipi del pop e del rock per imbastardare il tutto in una canzone d'autore volutamente radiofonica che perde di senso proprio nei momenti in cui riesce ad avere maggiore orecchiabilità. I frammenti migliori sono quelli dove si sbizzarrisce con la sua amata chitarra, anche approfondendo l'effettistica ("Come Il Sole" e i suoi delay eterei), ad esempio in "Ti Canterò di me e della Libertà" con il suo assolo finale che calamita tutta l'attenzione risultando uno dei momenti più memorabili di tutto il (lungo, troppo lungo) disco. 
Quando compare un po' di funky ("Tre e non più di tre", "Nu Shu", questa un po' più blanda) si balla ma si notano anche i limiti di una composizione eccessivamente eterogenea, dove ogni brano ha un suo carattere facendo un effetto greatest hits. "Per Non Dire No" svisa nel reggae accennato, vagamente Police nel basso, e "Swing Lover" non nasconde già dal titolo cosa si sta ascoltando. 

Racconta Luca che i vari musicisti coinvolti hanno composto le proprie parti rimanendo dove si trovavano, senza fare grandi session tutti insieme. Purtroppo, questa cosa non è un pregio. La disomogeneità esorbita dai limiti dell'accettabile, rende tutto slegato e quasi ardito. Tuttavia Luca sa scrivere, sa comporre, sa andare oltre agli steccati che delimitano la sua possibilità di esprimersi, facendo parte di un genere totalmente asservito a delle linee di demarcazione spesso invalicabili. Per questo motivo, "Oltre Le Quinte" è comunque ascoltabile e in un certo senso chiama ad un giudizio democristiano, perché è impossibile annientarlo quanto è impossibile venerarlo ed innalzarlo a capolavoro. La verità sta nel mezzo. 

lunedì 18 dicembre 2017

Marco Ro' - A Un Passo da Qui (Romabbella Records, 2017)

Di nuovo critica sociale, anche in questo "A Un Passo Da Qui". Sarà forse sfortunato il sottoscritto, ma ogni volta che ci si avvicina ad un nuovo disco di un sedicente cantautore, si arriva a questo. In realtà, il romano Marco Ro', utilizza toni un po' più accesi e variopinti, cedendo anche a qualche calembour, perché non ha senso fare pop - di questo si tratta - senza ironia. E' comunque un linguaggio che non vuole essere satira, ma intende affrescare in maniera limpida storie e racconti con lo scopo di sensibilizzare, proprio come vuole il progetto di riferimento a cui risale questo lavoro, in collaborazione con Laura Tangherlini di Rai News 24. Si parte dai profughi siriani, dalla storia di Reema ripresa nella title-track, per arrivare ad un'introspezione su di noi, su quello che vogliamo come popolo ma anche come artisti. Divertente e ispirato il featuring con la cantante russa Kira Franka, un brano ("Mosca Mon Amour" è il titolo) che utilizza l'espediente dei brani italiani più celebri all'estero per affrontare un argomento molto serio, ovvero la perdita di identità, la difficoltà di ritrovarsi in un mondo che ci appartiene poco, a noi che siamo un popolo di emigrati a fasi alterne, da sempre. Sonorità mediorientali ("Dune"), momenti più densi e tesi ("La Scala Mobile", un riferimento a questo meccanismo economico che ormai ricordiamo solo nei libri di testo), blues tradizionale ("Sul Paradosso"). Ecco che il lavoro assume l'aspetto di una tavolozza di colori molto completa, che approfondisce varie sfumature e le riesce a sviscerare rendendole cariche di significato. 
L'interpretazione di Ro' non è male, e in più punti si riesce ad apprezzare la sua conoscenza ritmica molto approfondita, datagli da un passato come batterista jazz. Anche la Tangherlini interpreta qualche passaggio, in particolare in "Dune", e la sua voce rende sicuramente il brano prezioso e completo. Generalmente, gli arrangiamenti si apprezzano meno dei testi e della vocalità di Marco, ma hanno il pregio di essere generosi, di dare respiro ai brani regalando più di qualche buon momento strumentale, infine di non essere per nulla banali e stantii. 

Un progetto sensato. Triviale dirlo? No, di fatto è questo il carattere fondamentale di un'opera musicale "impegnata". O ha senso, o non ce l'ha. Qui ci siamo. 

sabato 16 dicembre 2017

Massimo Priviero - All'Italia (Moletto Edizioni Musicali, 2017)

Quasi penso di avere le traveggole, ultimamente, quando vedo che continuano a spopolare cantautori, cantastorie, narratori di vario genere che tentano di raccontare come stanno le cose in Italia. Il divario tra le generazioni, la mafia, la corruzione, ultimamente il clima di inferiorità vissuto dalle donne, e dagli immigrati, infine il terrorismo. Insomma, le solite cose che siamo abituati a sentire ovunque, nel chiacchiericcio di dj stanchi che blaterano alle due di mattina su RTL ai ben più chiassosi talk show, per finire nel disagio assoluto di una domenica pomeriggio in compagnia di Barbara d'Urso. 
La musica, ultimamente, ha assorbito questi linguaggi di polemica continua, di sofferenza, di stanchezza diffusa, andando a saturare il mercato di esemplari, come questo "All' Italia", che tentano di cavalcare l'onda del momento. Andiamo dunque a vedere, con la giusta imparzialità, se è l'ennesimo disco "di troppo", o se il cantautore veneto Massimo Priviero ha invece qualcosa da dire. 
Interessante è da subito notare come moltissimi titoli, otto per l'esattezza, riprendano luoghi geografici ben definiti, identificando subito il disco come un'opera di viaggio, ispirata, se si analizzano le metriche, il linguaggio, l'interpretazione, ai Grand Tour di Goethe e Lassels, o se rientriamo nell'universo musicale, a quei Bob Dylan e Bruce Springsteen spesse volte autodichiaratisi fan di Kerouac, lo stesso che in più occasioni ha reso omaggio al bop di Charlie Parker. Mettendo insieme tutti i nomi citati, si riesce ad inquadrare a malapena la cornice che spiega la naturalezza con cui ci si sposta sul mappamondo dentro a questo disco, anche se alla fine si ritorna in Italia con "Basso Piave", pezzo conclusivo che chiude il cerchio del Massimo Priviero viaggiatore con il classico rientro nella propria patria. Il viaggio è passato per il "Bataclan", per il "Mozambico", per il terremoto del "Friuli '76", avvenimenti e luoghi non proprio connessi a pensieri allegri, ma rientrare nel proprio Veneto ha quasi un senso di rientro da una lunga giornata di lavoro, quando si riesce finalmente ad appoggiare il culo al divano. 
Lettura interessante viene data in "Aquitania" della depressione, dell'assenza di dignità anche nel lavoro, dell'arretratezza mentale che riscontra un giovane emigrato trentino nel tentativo di trovare fortuna in Francia. Siamo nel secondo dopoguerra, e pochi anni prima siamo a "Fiume" - che sarebbe meglio chiamare Rijeka, dal suo vero nome - città croata della celebre impresa dannunziana che costò la vita a molti italiani per compiacere il fascismo mussoliniano di casa nostra, che qui viene narrata senza giudizi storici, sintetizzando i drammi dell'epoca nella classica storia del bimbo rimasto senza padre, morto per l'appartenenza ad una razza, come ancora oggi è molto comune nel mondo. 

Contenuti, narrazione, interpretazione vocale, tutto fila liscio. Gli arrangiamenti, invece, sono molto banali, anche se non ci si aspetta l'impennata progressive in un disco che di fatto è canzone d'autore vecchio stile. Il mixing e il mastering sono molto curati, dando alla voce quel protagonismo che è indispensabile in prodotti di questa risma. I suoni scelti sono coerenti: a volte ricadono nel songwriting americano, altre in quello irlandese, sovente anche nel classic rock. In generale, l'importanza delle parole soverchia la musica, relegandola a mero accompagnamento ed è comunque, ripetiamo, corretto e giustificato dentro i confini di questo genere.

Per concludere, Priviero qui ha dimostrato di saper raccontare alla propria maniera cose che stiamo sentendo da tutte le parti da ormai cinquant'anni. Questa capacità di reinterpretare la banalità con un'individualità forte gli rende onore ed è, di fatto, il motivo principale per cui questo disco non naufragherà nell'oceano di cloni che ci sono in giro per la nostra penisola.