Quasi penso di avere le traveggole, ultimamente, quando vedo che continuano a spopolare cantautori, cantastorie, narratori di vario genere che tentano di raccontare come stanno le cose in Italia. Il divario tra le generazioni, la mafia, la corruzione, ultimamente il clima di inferiorità vissuto dalle donne, e dagli immigrati, infine il terrorismo. Insomma, le solite cose che siamo abituati a sentire ovunque, nel chiacchiericcio di dj stanchi che blaterano alle due di mattina su RTL ai ben più chiassosi talk show, per finire nel disagio assoluto di una domenica pomeriggio in compagnia di Barbara d'Urso.
La musica, ultimamente, ha assorbito questi linguaggi di polemica continua, di sofferenza, di stanchezza diffusa, andando a saturare il mercato di esemplari, come questo "All' Italia", che tentano di cavalcare l'onda del momento. Andiamo dunque a vedere, con la giusta imparzialità, se è l'ennesimo disco "di troppo", o se il cantautore veneto Massimo Priviero ha invece qualcosa da dire.
Interessante è da subito notare come moltissimi titoli, otto per l'esattezza, riprendano luoghi geografici ben definiti, identificando subito il disco come un'opera di viaggio, ispirata, se si analizzano le metriche, il linguaggio, l'interpretazione, ai Grand Tour di Goethe e Lassels, o se rientriamo nell'universo musicale, a quei Bob Dylan e Bruce Springsteen spesse volte autodichiaratisi fan di Kerouac, lo stesso che in più occasioni ha reso omaggio al bop di Charlie Parker. Mettendo insieme tutti i nomi citati, si riesce ad inquadrare a malapena la cornice che spiega la naturalezza con cui ci si sposta sul mappamondo dentro a questo disco, anche se alla fine si ritorna in Italia con "Basso Piave", pezzo conclusivo che chiude il cerchio del Massimo Priviero viaggiatore con il classico rientro nella propria patria. Il viaggio è passato per il "Bataclan", per il "Mozambico", per il terremoto del "Friuli '76", avvenimenti e luoghi non proprio connessi a pensieri allegri, ma rientrare nel proprio Veneto ha quasi un senso di rientro da una lunga giornata di lavoro, quando si riesce finalmente ad appoggiare il culo al divano.
Lettura interessante viene data in "Aquitania" della depressione, dell'assenza di dignità anche nel lavoro, dell'arretratezza mentale che riscontra un giovane emigrato trentino nel tentativo di trovare fortuna in Francia. Siamo nel secondo dopoguerra, e pochi anni prima siamo a "Fiume" - che sarebbe meglio chiamare Rijeka, dal suo vero nome - città croata della celebre impresa dannunziana che costò la vita a molti italiani per compiacere il fascismo mussoliniano di casa nostra, che qui viene narrata senza giudizi storici, sintetizzando i drammi dell'epoca nella classica storia del bimbo rimasto senza padre, morto per l'appartenenza ad una razza, come ancora oggi è molto comune nel mondo.
Contenuti, narrazione, interpretazione vocale, tutto fila liscio. Gli arrangiamenti, invece, sono molto banali, anche se non ci si aspetta l'impennata progressive in un disco che di fatto è canzone d'autore vecchio stile. Il mixing e il mastering sono molto curati, dando alla voce quel protagonismo che è indispensabile in prodotti di questa risma. I suoni scelti sono coerenti: a volte ricadono nel songwriting americano, altre in quello irlandese, sovente anche nel classic rock. In generale, l'importanza delle parole soverchia la musica, relegandola a mero accompagnamento ed è comunque, ripetiamo, corretto e giustificato dentro i confini di questo genere.
Per concludere, Priviero qui ha dimostrato di saper raccontare alla propria maniera cose che stiamo sentendo da tutte le parti da ormai cinquant'anni. Questa capacità di reinterpretare la banalità con un'individualità forte gli rende onore ed è, di fatto, il motivo principale per cui questo disco non naufragherà nell'oceano di cloni che ci sono in giro per la nostra penisola.
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