venerdì 28 dicembre 2018

Stona - Storia di un Equilibrista (Volume!, 2018)

Guido Guglielminetti, in arte Stona, dà alle stampe questo "Storia di un Equilibrista" con un titolo in qualche modo indicativo del suo contenuto. Risulta proprio un equilibrista, un funambolo, l'artista che toccando varie sfaccettature della canzone d'autore riesce a mantenere un delicato bilanciamento tra qualità, originalità e sostanza. Se da un lato la genuinità può passare in secondo piano nei momenti in cui rimandi lirici e interpretativi ricordano questo o quel nome del nostro panorama musicale (Fossati, De Gregori, Tenco, Dalla), risuona invece di una fresca spontaneità il modo di parlare, con velata ma ficcante ironia, di tematiche come la nostra scena popolare ("Mannequin") e la sua personale visione della musica (la title-track). Di questi argomenti Guglielminetti può parlare con con sapienza ed esperienza, in quanto già impegnato con il precedentemente citato De Gregori come bassista e produttore, pienamente coinvolto in molti suoi lavori. Le scelte musicali non stupiscono così spesso, forse per essere un po' troppo altalenanti, ma i momenti che risultano di maggiore impatto sono quelli (rari) in cui si preme sull'acceleratore come "Streaming" (vagamente Subsonica, ma con un cuore depechemodiano) o in cui si strizza l'occhio prevalentemente al mercato radiofonico, come in "Nell'Armadio" e il suo meraviglioso ponte semantico tra un armadio disordinato e le nostre vite scompigliate e disperse in mille rivoli e interessi che non ci permettono di focalizzarci su un singolo obiettivo. E' evidente anche come la selezione di musicisti di grande valore (uno su tutti Elio Rivagli alle pelli) impreziosisca il risultato finale, che si poteva in realtà "spingere" un po' di più per dargli maggiore modernità ma anche colore e "forza d'urto", in virtù delle tantissime influenze che si è scelto di coinvolgere, dal jazz al funk passando per l'elettronica e ovviamente il pop autoriale italiano. 

Si potrebbe certo dire che l'eccesso di personalizzazione dei testi, quasi tutti filtrati da un intimismo vagamente ermetico, faccia apparire tutto rivolto a dare sempre il proprio punto di vista piuttosto che narrare qualcosa che possa appartenere alle masse. Di conseguenza, l'oscurità delle parole risulta forse opprimente ai primi ascolti, richiedendo un'indagine più approfondita per poterne attraversare il carapace. Se questo per qualcuno sarà un deterrente, potremmo invece sostenere che l'eleganza e la soggettività di cui tutto il lavoro è pervaso è proprio la cifra stilistica che andava ricercata e valorizzata, forse ancor più di quanto già non lo sia, perché centrale nella lettura del mondo artistico di Guido. 

The Lizards' Invasion - INdependence Time (Iohoo Records, 2018)

Ci sono voluti sette anni perché i vicentini The Lizards' Invasion giungessero alla pubblicazione del primo full-length, supportato anche da una campagna ben riuscita su Musicraiser, e così Restaino (voce), Mattiello (batteria), Adda e Mazzù (chitarre), Onestini (basso) e Guglielmi (tastiera) possono presentarsi con tutta la loro consapevolezza e maturità artistica già raggiunta negli anni della gavetta, tra contest e primi palchi, con questo "INdependence Time". Anche il titolo può sembrare una dichiarazione d'intenti, e si sposa bene sia come autoproclamazione di un'autonomia raggiunta a fatica, facendosi le ossa per anni, che come rampa di lancio per la narrazione di questo concept album utopico riguardante un mondo parallelo dove gli esseri viventi non sono in grado di provare sensazioni negative, sgradevoli, spiacevoli, ma sono caratterizzati da un animo buono, gentile e sempre rivolto al bene. 
Il linguaggio matrice è quello del prog, probabile contesto formativo di più di qualche membro della band, mentre tutta una serie di altri riferimenti ed influenze trovano spazio rendendo il tutto estremamente, forse troppo, vario. Sentiamo Banco del Mutuo Soccorso e PFM in più momenti, in particolare nelle melodie di "INdestructible", anche se l'eccesso di epica la fa sembrare più la colonna sonora di un b-movie wannabe kolossal di Michael Bay coi robottoni che si sparano e contemporaneamente un gladiatore che festeggia lo squartamento di un leone nel tripudio della folla. La voce qui ricorda più i momenti epici degli Iron Maiden con Bruce Dickinson (qualcuno ha detto "Alexander the Great"?). "INvasion" alterna arpeggi quasi Coldplay a un cantato sempre maideniano,  altre volte più vicino al Bono Vox degli esordi o a Steven Tyler. "INsider" in qualche modo erige un ponte tra "Mama Said" dei Metallica, i Dreamtheater più melodici dei primi dischi e l'indie inglese moderno. Non uno dei migliori momenti, anche se uno dei più originali. 

Quello che risalta di questo lavoro è la sua coerenza al netto di riferimenti molto vari e ampi, ottenuta principalmente per scelte sonore e una voce sempre sul pezzo. Laddove può risultare pesante, viene alleggerito appunto da un'interpretazione accorata e che evidentemente "crede" molto nelle parole, per questo motivo riuscendo a veicolare molto bene il messaggio. Negli Stati Uniti forse sarebbe passato inosservato, ma qui da noi c'è margine per lasciare il segno, anche se personalmente avrei privilegiato la lingua italiana.
Un bel lavoro, da smussare solo in alcuni punti di eccesso di magniloquenza quasi barocca, ma che si fregia di un'identità forte e un sound fresco. 

mercoledì 26 dicembre 2018

Zuin - Per Tutti Questi Anni (Volume!, 2018)

Ed ecco il debutto per il cantautore desiano Massimo Zuin, che insieme a Matteo Consonni (Batteria) e Claudio Cupelli (chitarra) forma il progetto denominato Zuin, che io personalmente avevo conosciuto sul palco del Primo Maggio di Roma. Giunto ai primi trent'anni, Massimo vuole dire la sua su quanto ha vissuto, visto e conosciuto, filtrato da un linguaggio semplice che vuole dichiaratamente raggiungere un pubblico più ampio possibile, senza un ermetismo che a ben sentire le sue parole forse non sarebbe nemmeno pane per i suoi denti. Quando parla di relazioni interpersonali, come in "Caro Amico (Ti Sfido)", "Monza-Saronno" e "Sottopelle", la visione è sempre cinica e pessimistica, ma è ben chiaro che tutto questo deriva genuinamente da un vissuto, e non da un'invenzione lirica, con sensazioni nostalgiche e malinconiche però in un certo senso reazionarie nei confronti di quella mestizia suscitata dai ricordi. L'uomo sa costruire tanto quanto sa distruggere, e lo sentiamo in "Il Profumo di un Albero", sottilmente venata da un buonismo ambientalista che comunque si può tollerare grazie ad una scelta accurata dei termini, e in "Credimi", dove si affronta il tema del divorzio. 
Musicalmente funziona molto bene la fusione di musica folk, rock, pop, cantautorato, confezionando il tutto in maniera elegante quanto basta a non eccedere in eterogeneità e contemporaneamente a rimanere sempre in territori "radiofonici". 

Tra rimandi cinematografici e di cultura popolare, un'ottima conoscenza della lingua italiana tale da alleggerire il tutto evitando ampollosità e monotonia e l'essersi avvalso di musicisti eccellenti, "Per Tutti Questi Anni" vince una competizione molto difficile in un anno in cui tantissimi lavori cantautorali non hanno saputo andare a fondo e regalare tanta spontaneità, personalità e profondità in un'ottica easy-listening, mai pesante né opprimente. Complimenti a Massimo. 

lunedì 24 dicembre 2018

Municipale Balcanica - Night Ride (Red Tomato Records, 2018)

La musica, per così dire, "balcanica" ha preso negli anni diverse strade, contaminandosi più o meno in ordine cronologico con i folklori locali di ex Jugoslavia, Grecia e paesi ispanici, lo ska, il punk, il rockabilly, in ultima battuta anche con la dancehall e la disco, più qualche sporadica trashata da tormentone che pensa anche all'house e all'elettronica commerciale. 
La Municipale Balcanica è uno degli ensemble più rappresentativi del genere nel nostro Paese già da quindici anni, e pur avendo scelto un campo chiuso, uguale a sé stesso da sempre, pienamente riconoscibile anche quando tenta in tutti i modi di evolvere, sono sempre stati in grado di dare l'idea di mettersi in discussione, cambiando riferimenti musicali - che sicuramente non sono solo musica balcanica, come invece per molti altri - e sonorità. Con questo Night Ride provano infatti a ribaltare di nuovo il tavolo e a mettersi dalla parte di chi vuole, anche per età anagrafica, comparire tra i capostipiti e tra i nomi fondamentali di questo filone, gettonato - va detto - principalmente come motore di spettacoli dal vivo molto divertenti e coinvolgenti, in qualche modo come il folk irlandese. Ecco che compaiono prepotenti tutte le esperienze formative obbligate per noi italiani, dove la canzone d'autore è elemento ricorrente così come i singoloni da storia del pop che in un karaoke chiunque di noi, anche il più accanito dei metallari, saprebbe cantare anche senza testo (tipo "Si Può Dare di Più", "Mare Mare" o "Il Battito Animale" per intenderci), che sentiamo, rimanendo a parlare della band di "Foua" e "Road to Damascus", in particolar modo in "Ogni Stella", mentre i riferimenti cantautorali itpop più moderni, quasi da Calcutta, li sentiamo più in "Deserto non Deserto". Dove molti pezzi sono per necessità uguali a sé stessi in un loop eterno come da elemento cardine di questo linguaggio, stupiscono invece gli inserimenti da colonna sonora, come quelli che sentiamo nella morriconiana "Polvo y Suenos", con qualche inserto vagamente western, o negli echi di Tarantino, che comunque sono sempre filtrati dall'evidente background rock dei musicisti, e che fanno capolino in maniera impertinente in "Kiss Slow, Kill Fast". 

Non posso celare ulteriormente il mio disamore per certi generi più "da sagra", come anche la musica celtica, lo ska e in qualche modo il reggae. Tuttavia, la recensione serve a dire se questo disco, nel suo ambito, trova un senso e una collocazione. Sicuramente "Night Ride" spicca per la versatilità dei suoi autori e interpreti, anche in termini di scelte sonore, per l'esplorazione di codici non antitetici ma tangenti alla stella guida del balkan, che infatti si sposano bene tra di loro, finendo per farmi tollerare nello stesso disco influssi arabi, spagnoli, klezmer, dal Sud Italia e da tantissimi altri posti, con una coerenza davvero degna di nota. 
Indubbiamente, per fruire al meglio questo disco occorre sentirlo in un centro sociale, in un festival, in una festa della birra, dove vi auguriamo di passare una bella serata di danze (e alcol) con la Municipale Balcanica.

sabato 22 dicembre 2018

Marco Negri - Il Mondo Secondo Marco (Marco Negri, 2018)

Marco Negri è un cantautore mantovano, pronto a esordire sulla scena con questo suo "Il Mondo Secondo Marco" che già dal titolo appare come un'indicazione di quanto la musica per lui sia racconto, opinione, urgenza comunicativa. Nello scorrimento del disco, all'ascolto, notiamo un primo grande punto interrogativo, riferito all'eterogeneità del tutto: in pochissimi minuti sentiamo influenze britanniche (Oasis, Blur, Manic Street Preachers, Joy Division, ma anche Rolling Stones), americane, sia nel punk che nel pop, (Ramones, Blink 182, forse pure i Pearl Jam), passando per le testimonianze che il movimento grunge post-Seattle ha lasciato in Italia (Afterhours, Marlene Kuntz, Ritmo Tribale, Estra) e l'elettronica primordiale di Kraftwerk, the Human League e i numi tutelari da cui questi primi esempi ormai preistorici di synth-pop hanno ricevuto tanta linfa vitale, come ad esempio i Roxy Music. Se poi ci soffermiamo ad analizzare anche la tradizione cantautorale italiana, i cenni reggae, il blues, possiamo tranquillamente dire che c'è di tutto, come a voler fare con la propria musica anche una rassegna complessiva dei propri ascolti. 
In merito, dicevo "punto interrogativo" perché per dare corpo e coesione ad un lavoro così composito bisogna investire tutto sui testi. Parlare di sé stessi è da sempre un'arma a doppio taglio, perché si può essere spontanei e genuini, veri, ma anche non essere compresi. In questo caso, l'uso di un linguaggio semplice e puntuale - nel senso che non si presta a interpretazioni del singolo, risultando chiaro a tutti fin dal primo approccio con i pezzi - regala alle canzoni, tendenzialmente, una maggiore digeribilità, mentre dall'altro non va oltre l'autobiografia rivissuta tramite diversi momenti, dalle difficoltà economiche, gli amori, gli errori del passato su cui riflettere, il sempreverde tema del rapporto padre-figlio. Per creare empatia con una narrazione di questo tipo, occorre quantomeno aver vissuto sensazioni e situazioni simili, e questo sicuramente sarà per molti un elemento di identificazione nel progetto di Negri. 
Gli arrangiamenti molto, troppo, vari sono comunque abbastanza ben fatti, e i suoni opportunamente missati e masterizzati, dando alle parole una cornice di classe e di pregio. Si poteva forse spingere un po' di più, ma schiacciare i suoni in questo modo è essenziale quando si ha la necessità di lasciare spazio alle parole, scelta che condivido. 

L'impressione generale è che Il Mondo Secondo Marco sia grigio interiormente e troppo variopinto esternamente, in questo senso perdendo in coerenza. Il disco scorre comunque in maniera fluida e non risulta pesante. Per questo motivo può in qualche modo cogliere nel segno per chi intende divertirsi con la scoperta di un nuovo lavoro musicale, meno in chi è alla ricerca di qualcosa di innovativo, 

lunedì 17 dicembre 2018

Andrea Gioè - L'Ottimista! (2018)

Discutevo proprio oggi con un amico con cui mi piace dibattere di musica, uno dei pochi tra l'altro, cercando di capire chi sia effettivamente un "cantautore". Il termine in origine designava semplicemente chi cantava e scriveva la canzone, diversamente da quanto faceva l'interprete, e non era un vocabolo indicativo di un genere preciso. Il tempo ha però storicizzato alcuni nomi (De André su tutti), rendendo più selettivi i filtri di chi doveva pescare nel calderone per recuperare un nome degno di questa etichetta. Oggi ci troviamo a chiederci chi lo sia, con alle spalle grandi nomi "intoccabili" e di fronte i Calcutta, i Tommaso Paradiso, i Dente, tra i mal di pancia da social di chi non vuole proprio saperne di metterli nello stesso contenitore logico di Rino Gaetano, Lucio Dalla e Luigi Tenco. In linea di massima, ritengo sia un "cantautore" chi scrive e interpreta il pezzo in maniera personale, non - ad esempio - inventandosi di venire dalla strada, né di avere patito chissà quali mitologiche pene d'amore o avventure cavalleresche per conquistare la bella Angelica, piuttosto mettendoci la propria vita, il proprio vissuto, le proprie impressioni, emozioni, opinioni su un fatto storico, un movimento artistico, un'ideale politico, al netto di licenze poetiche, metriche e lessicali che se fatte con gusto possono aiutare al risultato (o uccidere). Potrebbe essere un cantautore dunque Luca Carboni, magari tanto quanto Sfera Ebbasta, se diamo per vere le cose che dice, al di là della qualità, dei gusti, delle mode. Finito questo preambolo, è ora di investire un po' di tempo a parlare di questo "L'Ottimista", fuori da tre mesi per l'etichetta Pirames International.
Come da mio personale pronostico, Andrea Gioè, in questo disco, mette tutta la sua autoanalisi, con un appeal notevole se si pensa al livello della scrittura, alla varietà delle immagini evocate, all'eterogeneità degli arrangiamenti non da vivere come un difetto, semmai come un elemento di esaltazione della sua versatilità vocale. Divertenti ballad uptempo quasi à la Bruno Mars vanno a braccetto con un animo rock dalle striature punk, tra i Sex Pistols e le scelte sonore degli anni novanta di Vasco Rossi (quello di Nessun Pericolo...Per Te, per intenderci), con il cuore rivolto alla tradizione melodica d'autore italiana e la testa concentrata sui grandi nomi che non possono mancare nella formazione di un musicista moderno (Pink Floyd, Genesis, Eric Clapton, Beatles, ecc). 
E' un disco che racconta quindi tutto l'universo musicale dell'artista palermitano, e tutta la sua vita, il modo di affrontare le avversità, resistendovi e mai cedendovi, gli alti e i bassi, il ritiro quasi eremitico nei Pirenei, la reazione spontanea e ficcante alle notizie di cronaca del tg quotidiano (in questo caso riferite ai casi della Gambirasio e della Scazzi), con l'ottimismo razionale a fare da argine, da soluzione, da antidepressivo naturale. Lungo tutta la durata di questo lavoro sentiamo spontaneità e genuinità, anche laddove qualche passaggio musicale può lasciare a desiderare, se non altro per la fragilità di alcune "esplosioni" che avrebbero meritato un boost maggiore in termini di post-produzione. 
Se devo dirla tutta, questo genere di dischi può risultare molto pesante per chi non è abituato ad ascoltare la musica per le parole e la curiosità nell'immaginario personale degli artisti, ma non è quello il target e non vale nemmeno la pena soffermarsi su questo aspetto. 
E' voluta la scelta di non citare alcun titolo, insolita da parte mia. Di fatto, se dovessi scegliere forzatamente i migliori e i peggiori andrei al tilt, per dirla col linguaggio dei talent show, e non per non prendermi le mie responsabilità stile Fedez. Mi piace vedere - e descrivere - questo disco come una pangea, un monolite primordiale che può sprigionarsi in mille direzioni, e che conta come sua virtù cardinale proprio il fatto di funzionare come un'unità inscindibile, un blocco indeformabile, che va preso a scatola chiusa, senza selezionare. E' difficile, oggi che uno swipe ci sposta da un disco all'altro, ma vi invito a farlo. 

Nessun problema a dichiarare che di dischi così, nel genere, in Italia, e nel secondo semestre del 2018, non ne sono girati tanti. Andrea può e deve ancora crescere espressivamente, e stilisticamente, ma in questa ascesa a tappe la vetta non sembra più tanto distante, se non in termini di consensi ed esposizione mediatica quantomeno in vera e propria purezza del prodotto. Consigliato.