Il 29 marzo di quest'anno, al Barclays Center di Brooklyn, i Roxy Music saranno finalmente tra i gruppi che verranno inseriti alla Rock and Roll Hall of Fame, fondazione Americana che dal 1983 aggiunge annualmente come membri i gruppi che più hanno fatto la storia del rock. Se l'esistenza di tale istituzione in Europa viene vista con indifferenza, in America è oggetto di dibattito tra i vari appassionati di musica che, puntualmente, si lamentano dell'esclusione dei propri beniamini, come se un riconoscimento pubblico fosse necessario a legittimare i gusti musicali. Certamente tali cerimonie hanno generato momenti molto interessanti, come il delirio di onnipotenza di Mike Love dei Beach Boys durante il discorso di introduzione nel 1988, il non discorso di Alex Lifeson dei Rush nel 2015 e la premiazione agli Yes nel 2017, durante la quale sono uscite tutte le tensioni tra i vari membri del gruppo (oltre ad aver offerto probabilmente l'ultima occasione di vedere Jon Anderson, Rick Wakeman e Steve Howe sullo stesso palco). Con i Roxy Music, probabilmente, non succederà nulla di eclatante: in fin dei conti, si tratta di raffinati signori di una certa età che hanno fatto dell'eleganza, musicale e non, il proprio stile di vita. Certo, nella storia della band ci sono state diverse scaramucce, soprattutto tra il carismatico frontman Bryan Ferry e il fiatista Andy Mackay (e, famosamente, l'abbandono di Brian Eno dopo i primi due dischi) ma i particolari più salienti sono sempre stati tenuti lontani dall'occhio pubblico e, anche quando nel 2011 il gruppo, dopo dieci anni di reunion, ha deciso di interrompere definitivamente la propria attività, è stato fatto tutto alla loro maniera: senza proclami, dichiarazioni pubbliche o altro. Più che altro, la premiazione potrebbe offrire l'occasione di sentirli suonare per un'ultima volta, magari con Eddie Jobson, eccellente violinista e tastierista che ha suonato con loro dal 1973 al 1976. Quale miglior momento, comunque, per Bryan Ferry per fare uscire un nuovo lavoro a suo nome?
Ferry è sempre stato un artista molto intelligente, conscio dei propri limiti e perfettamente in grado di capire come lavorare al meglio all'interno degli stessi. Non ha un'estensione vocale particolarmente elevata, ha sempre cantato praticamente senza emissione e le sue doti di tastierista sono abbastanza basilari. Eppure, ha sempre potuto contare su un timbro vocale naturalmente bello, una capacità interpretativa studiata e molto teatrale e, soprattutto, un gusto nel creare melodie semplici ma mai banali e sempre molto raffinate. Proprio a causa della sua intelligenza artistica, non stupisce che il terreno sicuro nel quale si è rifugiato da un po' di tempo sia calcolato al millimetro per far risaltare le sue qualità. Esemplificativo di ciò è il suo precedente lavoro in studio, "Avonmore", un album artisticamente valido ma di fatto una copia carbone dei suoi lavori classici: non a caso, infatti, molti di quei brani erano stati composti proprio a cavallo degli anni '80 e '90, per il mai completato "Horoscope".
Paradossalmente le opere che più escono dalla comfort zone del crooner Inglese sono quelle composte interamente da rivisitazioni: "Bitter-Sweet" è, infatti, il seguito di "The Jazz Age", album del 2012 nel quale l'artista riprendeva alcuni classici dei Roxy Music e della sua carriera solista e li riproponeva in versioni jazz strumentali anni '20. Il disco era stato realizzato al 100% nello stile dell'epoca, registrando gli strumenti in presa diretta e in mono piazzando un solo microfono in mezzo alla stanza, in modo da ricreare perfettamente il suono vintage. Questo nuovo lavoro è molto meno estremo del precedente: lo stile è comunque basato sul jazz tradizionale e il retro swing ma qui si respira un sapore più orchestrale e cinematico e l'album è stato inciso seguendo tecniche contemporanee. Inoltre, stavolta, sette dei tredici brani proposti sono cantati. Entrambi i dischi si avvalgono della presenza del pianista e arrangiatore Colin Good, ormai storico collaboratore di Ferry da anni.
Alcune delle canzoni presenti su questo album fanno parte della colonna sonora della serie TV "Babylon Berlin"; chi sta recensendo non l'ha vista, per cui i giudizi espressi si baseranno squisitamente sugli arrangiamenti in sé, decontestualizzati dall'ambito in cui erano stati pensati. Vedendo il disco in quest'ottica, sicuramente i brani che colpiscono di più sono quelli più cupi e malinconici, tra i quali spiccano "New Town", la title-track, "Zamba", "Chance Meeting" e, soprattutto, "Boys and Girls", il cui testo si sposa perfettamente con questo arrangiamento ("chi sta piangendo per strada?/la morte è un'amica che devo ancora conoscere"). Viceversa, i pezzi rivisti in chiave squisitamente jazz sono quelli che fanno la figura peggiore, risultando stereotipati ("Sign of the Times") o direttamente ridicoli ("Dance Away"). Forse il brano che riassume di più la caratura del disco è "Sea Breezes": emozionante nell'introduzione e nella coda, inconcludente e forzato nella sezione centrale. Il cantato di Bryan Ferry è, come sempre, perfettamente adatto al tipo di musica che propone e la produzione è ottima e nitida, in modo da far risaltare nuovi particolari ad ogni ascolto. Il packaging dell'album è, inoltre, molto attraente, con delle splendide illustrazioni in stile vintage, un breve e interessante saggio del musicologo Simon Morrison e una bellissima confezione in stile cartonato che dà ancora di più l'idea che ci si trovi di fronte ad un articolo di lusso. Curiosamente, in copertina, Ferry ha ancora una volta proposto una sua foto non recente ma, a differenza di quella apparsa su "Avonmore", stavolta possiamo perlomeno associare questa voce stagionata e consumata più facilmente a quel viso.
Come avrete capito, si tratta di un disco non essenziale, ma anche certamente non privo di qualità. Potremmo, metaforicamente, associarlo al dolce o al bicchierino a fine pasto: soddisfacente e gradevole in quantità giusta, stomachevole esagerando. Forse, l'uso migliore che se ne può fare è quello di lasciarlo come sottofondo ad una cena raffinata, magari in dolce compagnia. Un consiglio ulteriore ai fan più accaniti: la prima volta ascoltatelo senza guardare la tracklist sul retro del disco, in modo da poter apprezzare maggiormente l'effetto sorpresa.
Bryan Ferry (Paramount Theatre, 3 Agosto 2017) Foto di Julio Enriquez |