Quando, in seguito ai numerosi e continui cambi di formazione, venne chiesto ad Mark E. Smith cosa rendesse una formazione dei The Fall vera e propria, egli seraficamente rispose che "se ci siamo io e tua nonna ai bonghi allora siamo i The Fall". In questo momento, la situazione con gli Yes è abbastanza simile. Con l'uscita dal gruppo di Jon Anderson nel 2009 (per saperne di più potete leggere su questo blog l'intera disavventura all'interno della recensione di "Fly From Here") e la scomparsa di Chris Squire nel 2015, bassista, fondatore, anima e colonna portante del gruppo, nonché l'unico ad essere rimasto in ogni formazione, la band da un po' di tempo sta procedendo senza nessun membro fondatore e sotto il comando dello storico Steve Howe, chitarrista dal 1970 al 1980 e di nuovo nel 1991 e dal 1996 fino ai giorni nostri e presente in tutti gli album classici. Ovviamente, il paragone con i Fall è volutamente esagerato: oltre a Howe, negli Yes attuali sono presenti anche Alan White, batterista dal 1972 e il tastierista Geoff Downes che aveva militato negli Yes di "Drama" nel 1980 ed è rientrato in pianta stabile nel 2011. Questo per sottolineare che, nonostante la totale assenza di membri originali (questa line-up e quella dei primi due album usciti a nome Yes non hanno alcun membro in comune), c'è comunque una continuità con la storia della band. A completare il nucleo ci sono Jon Davison, cantante e frontman dal 2012, e Billy Sherwood, che aveva già prestato i suoi servigi come chitarrista ritmico dal 1997 al 2000 e che è stato eletto dallo stesso Squire come suo erede. Come immaginabile, non tutti i fan accettano di buon grado questi drastici cambi di formazione e la percezione che si tratti più che altro di una coverband di lusso, accentuata anche dai numerosi dischi dal vivo pubblicati negli anni precedenti (ben cinque dall'uscita di Anderson!), non è rara. Non solo, ma il fatto che dal 2016 Jon Anderson, Rick Wakeman e Trevor Rabin hanno legalmente il diritto di esibirsi a nome Yes ha creato una seconda band rivale con conseguenti antipatie tra i fan degne delle più appassionate tifoserie di calcio. Dal punto di vista affaristico, Howe è sicuramente colui che esce vincitore all'interno di questa diatriba: con l'uscita di questo album in studio, questa line-up è stata definitivamente consacrata come valida e canonica e, come se non bastasse, è lui a detenere i diritti sullo storico logo disegnato da Roger Dean e ad avvalersi delle sue splendide copertine. Inoltre, parrebbe che la versione degli Yes capitanata da Anderson, Rabin e Wakeman si sia di fatto sciolta. In ogni caso, le polemiche sull'utilizzo del nome Yes sono tutto sommato sterili: la presenza o l'assenza di alcune personalità chiave comunque non dice molto sulla qualità della musica proposta.
Rispetto al precedente "Heaven & Earth", "The Quest" è sicuramente un album più devoto alle sonorità e agli stili tipici degli Yes e, in quanto tale, sembra essere studiato al millimetro per compiacere i fan storici. Perlomeno, questa è l'impressione che si ha ascoltando brani come "Dare To Know", che sembra citare direttamente alcuni frammenti di "Tales From Topographic Oceans" e che, pur essendo in sé di fattura pregevole, sembra essere un omaggio agli Yes da parte di qualche nuova leva del prog. Più convincenti sono gli otto minuti di "Leave Well Alone", sapientemente posti a metà album in modo da risultarne l'epicentro: si tratta di un'avventurosa composizione divisa in tre parti che utilizza al meglio questa line-up e che suona bene sia come pezzo degli Yes classico sia come moderno, contenendo soprattutto una interessante sezione centrale nella quale Howe dimostra ancora di essere in perfetta forma. Il fatto che il chitarrista sia chiaramente il protagonista di questa incarnazione degli Yes non sorprende particolarmente: oltre ad essere colui che risalta di più dal punto di vista strumentale, le sue parti in "Future Memories" e nella coda dell'opener "The Ice Bridge" danno credibilità all'utilizzo del nome Yes e sono distanti anni luce dalle noiose e statiche performance del precedente "Heaven & Earth"."Minus The Man" e "The Western Edge", composte dalle due 'nuove leve' Davison e Sherwood sono canzoni interessanti che ben si amalgamano con il resto di "The Quest", la prima più melodica e orecchiabile, nonostante venga resa un po' più intricata dagli arrangiamenti orchestrali di Paul K. Joyce, la seconda più variegata ed energica. Viceversa, il disco è meno convincente nei momenti più saccarini e ruffiani come le conclusive "Music to My Ears", colpevole di utilizzare in maniera martellante ed ossessiva un refrain non troppo bello in sé, e "A Living Island", un po' troppo pomposamente verso l'epico-melodico. L'album contiene anche un secondo CD con un quarto d'ora di musica extra, posto separatamente per sottolineare che si tratta di un post scriptum più che un finale dell'album. L'esclusione dalla scaletta regolare dei tre pezzi ivi contenuti è stata una scelta felice: sono senza dubbio i meno degni di nota presenti nel pacchetto, in particolar modo il goffissimo omaggio Beatlesiano "Mystery Tour", e la lunghezza principale dell'album arriva così a circa cinquanta minuti, durata giusta per questo tipo di materiale.
In generale la produzione del disco è abbastanza buona e dettagliata e l'ascolto risulta gradevole, soprattutto in cuffia. Detto questo, non è esente da difetti: in particolare, le voci soliste di Davison e Sherwood risultano colpite da un eccessivo utilizzo di autotune, cosa che si può notare soprattutto in "The Western Edge". Purtroppo, un discorso simile va anche fatto per Alan White, in passato uno dei batteristi più potenti della storia del rock: da qualche anno le sue condizioni di salute gli impediscono di esibirsi per l'intera durata dei concerti e, sebbene abbia effettivamente eseguito tutte le parti presenti sul disco, molto spesso si ha il sospetto che siano state quantizzate e in momenti come "The Ice Bridge" non riescono a dare alla musica il supporto che meriterebbe. Inoltre, per quanto il bilanciamento dei suoni sia generalmente buono, spesso le tastiere di Downes finiscono per risultare un po' soffocate.
In definitiva, "The Quest" è un album che nonostante tutto riesce a ritagliarsi il suo spazio nella discografia degli Yes. Tenendo in considerazione l'era post Anderson, "Fly From Here", per quanto di buona fattura, non era rappresentativo della direzione attuale della band in quanto composto per buona parte da recuperi di idee composte anni prima e "Heaven & Earth" poco aveva fatto se non dimostrare che Roy Thomas Baker non è un produttore adatto per gli Yes. "The Quest" si pone un po' come un ponte tra le due uscite: il recupero di idee passate persiste (a questo proposito, a questo link si può leggere riguardo una potenzialmente imbarazzante diatriba concernente i credits di "The Ice Bridge", fortunatamente conclusasi con un signorile lieto fine da parte di tutte le parti coinvolte) ma sono state contestualizzate in una direzione che certamente ha più senso all'interno della storia del gruppo. Chi è non ha problemi con il proseguimento della carriera degli Yes dopo la scomparsa di Chris Squire o, semplicemente, chi ama Steve Howe sicuramente troverà molto da apprezzare all'interno del disco. Per tutti gli altri, invece, si tratterà perlopiù di un prodotto che probabilmente appare più ambizioso di quanto lo sia effettivamente, ma che in sé non è affatto disprezzabile.
Yes (2021) Steve Howe, Jon Davison, Billy Sherwood, Alan White, Geoff Downes |
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