sabato 13 giugno 2009
Il Teatro degli Orrori Live @ TPO, Bologna 12 Giugno 2009
lunedì 8 giugno 2009
Placebo - Battle For The Sun (PIAS, 2009)
I Placebo...che dire. Arrivati al sesto album e intrapresa la via dell'autoproduzione e della distribuzione con etichette emergenti cos'avranno ancora da dire? La domanda era sulla bocca di tutti e fare un prodotto sopra le righe per Molko sembrava veramente impossibile.
Il risultato è evidentemente un successo per chi la pensava così mentre sul piano della ricerca di nuove sonorità delude. Un lavoro prettamente dedicato a tutti i fan dei Placebo, quelli più pop dei singoli e anche quelli delle canzoni meno conosciute nascoste in fondo alle tracklist dei CD, senza molti stimoli per entrare nel cuore di chi questa band non l'ha mai ascoltata.
Nel disco troviamo 13 brani la cui lunghezza media si assesta sui 3 minuti e mezzo. Le solite sonorità placebiane sono evidenti in moltissimi dei pezzi, soprattutto Kitty Litter, in apertura, dal solito ritmo che definirei quasi trademark dei batteristi dei Placebo (nonostante l'entrata in formazione del giovane Steve Forrest), quello di Special Needs per intenderci; altri pezzi molto classici per lo standard dei londinesi sono The Never-Ending Why (la più orecchiabile tra quelle citate finora), Ashtray Heart e Happy You're Gone. Qualche novità ce la presenta il primo singolo, For What It's Worth, interessante elaborazione del loro stile con qualche inserto di chitarra più originale. Non sono solo i suoni ad ingannare, c'è davvero qualcosa di diverso in questo pezzo, anche se le linee vocali di Molko ci riportano sempre a terra. Un esempio di cantante troppo legato ad uno stile che rischia di cadere nel banale piuttosto spesso. Stessa cosa avviene per altri brani: Battle for the Sun in alcuni tratti mi ricorda i lavori più pop dei Queens of the Stone Age, ma Brian è troppo diverso da Josh Homme per completare il raffronto. In ogni caso un bel pezzo da radio; Bright Lights si avvicina alle sonorità del cosiddetto indie rock di Editors e White Lies (non vi ricorda il titolo di un bellissimo album degli Interpol?), pur restando per suoni e costruzione vicina al resto delle canzoni. Stupiscono le canzoni più calme come Kings of Medicine (o l'intro di Come Undone), anche se non sono una novità per questo trio. Gli Sonic Youth sono sempre stati citati tra le influenze di questa band e direi che neanche in questo lavoro se ne distaccano (vedasi la bella Devil in the Details ad esempio).
La tecnica della band non è mai stata eccellente anche se per questo genere le capacità dei musicisti non sono certo inadeguate. La produzione è buona, come sempre. Spicca la potenza di alcuni distorti che esplodono soprattutto nei ritornelli, in puro stile Placebo. Di particolare interesse anche gli inserti di orchestra diretti da Fiona Brice, che ha già lavorato oltre che con i Placebo con artisti come Kate Nash, Boy George e Simply Red. I testi, non particolarmente elaborati, restano in linea con i precedenti lavori di Molko: si parla di scelte di vita, su ammissione dello stesso frontman, e non è un tema nuovo anche se in questo CD la tematica è stata particolarmente approfondita. Un piccolo commento negativo sulla copertina me lo dovete permettere: da un titolo così "apocalittico" ci si aspettava qualcosa di più elaborato o visionario.
Infine, poche parole ulteriori vanno spese su un lavoro banale ma valido e fresco, consigliato soprattutto ai fan o a chi vuole sentire dell'alt-rock piuttosto comune con la voce di Molko che tutti almeno una volta dovrebbero ascoltare e, possibilmente, apprezzare. Per il resto i Placebo potevano dare qualcosa di più.
Voto: 6,5
sabato 6 giugno 2009
Valentina Dorme - La Carne (Fosbury, 2009)
I Valentina Dorme di Favero circolano da 17 anni esatti, e hanno dovuto aspettare parecchio prima di vedere i primi risultati e la distribuzione nazionale della loro produzione. Questo ha anche rallentato il loro percorso, che arriva con questo 3° cd uscito per Fosbury/Audioglobe ad un livello più che soddisfacente, raggiungendo direi un traguardo che denota una certa maturità artistica per i quattro ragazzi, anche se si spera che i prossimi lavori osino ancora più in alto.
Il disco è in effetti un ottimo prodotto alternative, genere in cui l'Italia ha già dimostrato di eccellere. Racchiudendo numerose sfumature di rock ed altri generi melodici, si sono creati attorno all'alt-rock tanti canoni ai quali i gruppi si rifanno come se usassero stampini da dolci, quante possibilità di innovare (sempre più raramente sfruttate a dire il vero). I Valentina Dorme conciliano gli aspetti dell'alt-rock afterhoursiano di stampo più commerciale (quello degli ultimi dischi) con un gusto cantautorale che li accomuna in alcuni tratti ai Diaframma, in altri agli ultimi lavori dei Meganoidi. Si respira un'atmosfera quasi lieta in questo disco (soprattutto in pezzi-ballad come Giulia Bentley in Estate), a volte più malinconica (Un Nome di Fantasma, Benedetto Davvero) ma sempre sopra le righe. Mario Pigozzo Favero è un cantante eccentrico che nonostante non raggiunga vette stilistiche né tecniche degne di nota, si destreggia bene nelle diverse sfumature che il gruppo propone all'interno di questo lavoro. Nel sesto pezzo, I Girasoli, probabilmente il più bello del disco, assistiamo ad un nostalgico crescendo in cui spicca anche l'uso del pianoforte. Interessanti i riferimenti ai colori all'interno dei testi, che ricordano un certo cromatismo che qualche appassionato di letteratura collegherà a Lorca o a Baudelaire. Mario parla di amore, delle avventure di un uomo di mezza età a Trieste Centrale (che “vale più di Genova e Barcellona insieme, Ibiza a Maggio e Bangkok in Aprile”). I riff di chitarra sono sempre azzeccati, anche se spesso sono accompagnati da giri di basso scontati, ma inseriti al posto giusto. Siracusa e le Stelle, un altro bel pezzo, cantato come Giorgio Canali lo canterebbe con i Rossofuoco, si ricollega alla produzione dei primi due dischi del quartetto, anche se la qualità della registrazione leggermente più alta aiuta a rendere il pezzo più genuino. La Buonanotte in Francese è un pezzo di 1.49 che spiazza con la sua interruzione improvvisa; quasi un esperimento considerando che il brano sembrerà ai più fatto apposta per durare almeno 2 minuti in più.
La Carne non è un album facile da recensire, ci si trova un po' di tutto. Il consiglio migliore che si può dare è di ascoltarlo, di digerirlo e metabolizzarlo. Ci vuole tempo per capire che l'arte di certi gruppi italiani va oltre l'ascolto semplice di musica orecchiabile con i tipici testi d'occasione a cui MTV insieme alle radio ci ha abituati. Se qualche testo ci farà venire in mente le ballad romantiche dei cantautori nazionali come la Pausini o Antonacci, non dobbiamo lasciarci intimidire: qualche ascolto in più e ci si accorge della profondità dei testi, della non-immediatezza della musica e del bisogno di farsi sentire di questi quattro che dopo 17 anni sembrano comunque una band giovane, fresca e con ancora molto da dire e da dare. Ascoltateli.
lunedì 1 giugno 2009
Velvet - Nella Lista Delle Cattive Abituini (Metatron, 2009)
Il primo termine per descrivere questo disco non dev'essere qualcosa di prettamente musicale. Pensavo più ad un termine solitamente associato alle gradazioni di colore, cioè “intenso”. “Abbiamo tutti una lista delle cattive abitudini”, dichiarazione degli stessi Velvet, arrivati al quinto lavoro nel pieno della maturità ar tistica, sperando che non sia l'orlo del precipizio. Un album carico, emozionale, energico. Dove si incontrano l'elettronica e il synth-pop di Delta V e primi Bluvertigo, dove Bianconi dei Baustelle canta sul piano soffice del Boosta delle ballate di Terrestre e Amorematico (Subsonica). Qualche sferzata di rock più classico completa l'opera.
Le canzoni di questo disco sono protette da un'aurea strana. Vengono dopo tonnellate di materiale simile dalla florida scena italiana del 2009 ma hanno comunque qualcosa in più. Brani densi ed emotivi, come la lenta “Crollasse Pure Il Mondo” e l'altrettanto cadenzata “Tutti a Casa”, primo singolo che alcuni bollerebbero pezzo à-la-Max Pezzali (non che sia un difetto per certi tratti), ma che nasconde un'anima più cristallina ed originale. Nessuno provi a dire che il Morgan degli anni '90 non c'entra con un gran pezzo come “In Continuo Movimento”, brano veloce e forte di suoni di sintetizzatore veramente bluvertighiani (e ci stava anche la licenza poetica, NDR). Il ritornello di questo pezzo è orecchiabile come pochi, e sulla stessa falsariga troviamo il pezzo d'apertura “I Nuovi Emergenti”, altra ballata a rapida presa. Anche al primo ascolto.
“Il Torto dei Beati” rappresenta la musica popolare italiana che nel ritornello prende coscienza della sua carica rock spesso dimenticata e che ancora incarnano Le Vibrazioni e Cesare Cremonini, probabili spunti per questo pezzo. “Mille Modi Per Sparire” è il pezzo più rock del disco, niente di nuovo ma probabilmente interessante da ascoltare live anche per l'alternanza di chitarra distorta e synth che parte soffuso per compenetrare poi il basso acido di Poffy. Presente nel disco un pezzo strano, diciamo “diverso” dallo standard di un gruppo come i Velvet: si tratta di “Cattive Abitudini”, interessante brano rock simile alle ultime power-ballad dei Meganoidi, con un ritornello non cantato, un esperimento per i quattro di Roma. Esperimento riuscito, dove un Pier ridimensionato e meno banale nelle linee vocali canta “mentre tutto muore ad alta risoluzione”, a metà tra critica e descrizione dell'epoca in cui viviamo. I “tempi bui” che già qualcun altro recentemente ha voluto sezionare e narrare.
Musicalmente le produzioni dei Velvet non hanno mai avuto sbavature e chi partiva prevenuto pensando di trovarsi un album pop ben prodotto e nulla più evidentemente si sarà trovato spiazzato. La produzione è la stessa degli album d'oro dei Bluvertigo, come Pop Tools e Metallo Non Metallo, e la voce tra Samuel Romano e Morgan trova la sua dimensione giusta negli effetti che non sono cosa nuova per Pierluigi Ferrantini, ormai icona di una scena italiana che passa per MTV solo per dimostrare che esiste ma che va ben oltre il classico disco radio-friendly (stabilire un parallelo con i Meganoidi ed i Verdena è d'obbligo). Anche gli altri ragazzi, soprattutto Ale (Alessandro Sgreccia) alla chitarra, fanno un ottimo lavoro e i live sicuramente non tradiranno le aspettative.
I testi seguono quel filone che la musica italiana ha fatto suo per decenni e che probabilmente continuerà a seguire come marchio di fabbrica per lungo tempo. A metà tra frasi d'amore triste e malinconico e dichiarazioni autoreferenziali apparentemente sconnesse, spunta qualche barlume di coerenza in testi-slogan come quello della già citata “I Nuovi Emergenti” e in “Il Torto dei Beati”. Le cattive abitudini italiane. Niente di troppo negativo.
Questo album non segnerà la svolta nella carriera dei Velvet ma è finora l'album più pieno di contenuti e che lascia trasparire più emotività, di cui il quartetto è sempre stato carico pur risultando in qualche passaggio sterile. Non è il caso di questo disco, che se non è originale come qualche ascoltatore più pignolo noterà è comunque un lavoro degno di nota che merita l'attenzione di tutti quei fan del pop/rock elettronico che parte da “è praticamente ovvio che esistano altre forme di vita” e arriva a “ti svegli alle tre per guardare quei film un po' porno”. Passando per “sono in una boyband”, passaggio obbligato.
Consigliato.
Voto: 7.5
Isis - Wavering Radiant (Ipecac Recordings, 2009)
Gli Isis, quintetto di Boston da anni sulla bocca di tutti gli appassionati di post-generi e di sperimentazioni varie, arrivano al loro quinto lavoro con il fiato sul collo. Dopo aver diviso critica e fan con il precedente “In The Absence Of Truth”, escono nel 2009 con “Wavering Radiant”, lavoro eclettico e che si presenta come evoluzione naturale del filone iniziato “in assenza di verità”; trattasi cioè di un abbandono parziale di quelle influenze sludge, hardcore e post-metal dei primi lavori, soprattutto di “Oceanic” e “Celestial”, per approdare ad un post-rock più melodico e soffuso.
L'album si apre con “Hall Of The Dead”, il pezzo più interessante dell'album, grazie anche alle chitarre di Jones dei Tool (poi ospite anche alla tastiera in “Wavering Radiant”). Il pezzo è musicalmente molto orecchiabile ma ad interrompere questa sensazione arrivano le grida di Turner, che però nel ritornello si trasformano in quel cantato melodico già inaugurato nell'album precedente ma che personalmente trovo poco azzeccato rispetto al genere proposto. Nel complesso un buon brano. “Ghost Key” sembra un pezzo dei Giardini di Mirò, e non per questo lo si può osannare più di tanto. Con una durata che supera del doppio la soglia di attenzione che gli si può dare il pezzo è comunque godibile, apprezzabile soprattutto per lo schema asimmetrico e le potenti chitarre di Turner e Gallagher. “Hand Of The Host” non nasconde neppure troppo bene un'anima post-rock dietro delay ed accordi che sono stati ormai abusati da tutti i seguaci del genere dopo Slint e Mogwai. Interessanti invece le linee vocali che in certi frangenti presentano reminiscenze dei buoni vecchi Tool. Stesso discorso vale per “Stone To Wake A Serpent” e “20 Minutes-40 Years”, che risaltano principalmente per le chitarre graffianti ma che non sono per nulla nuove rispetto alle altre produzioni dei bostoniani. Quasi simmetricamente l'album finisce bene, proprio com'era iniziato, come a circoscrivere un lavoro onesto ma banale. Si conclude quindi con “Threshold of Transformation”, che presenta 9 minuti e 53 di post-metal à-la-Panopticon con tutti i fronzoli che i nuovi Isis hanno ormai forzatamente inserito un po' ovunque. Le sferzate di batteria nella prima parte della canzone e la parte rilassata attorno ai sei minuti danno nel complesso un'aria più credibile ad un brano comunque inserito nei “canoni” Isis.
La produzione del disco è stata criticata da alcuni fan per l'eccesso di attenzione ai suoni. Questo aspetto in realtà rende l'album meritevole di qualche ascolto ulteriore, poiché alcuni ascoltatori avrebbero trovato ostico il primo lavoro “Celestial” proprio per i suoni troppo “da garage”. Pollice alzato dunque per Joe Barresi. Per quanto riguarda l'esecuzione tecnica della band niente da dire, i ragazzi suonano bene e conoscono a dovere i loro strumenti, ma andrebbe considerato anche l'aspetto “fantasia” che evidentemente manca a molti dei gruppi che fanno questo genere. Il batterista ha già dimostrato da anni di possedere una tecnica molto fine e di aver creato uno stile riconoscibile, direi un marchio di fabbrica, ma è evidentemente chiuso in pochi fill e giri che ormai propina con una frequenza che è ora sinonimo di banalità. La voce di Turner infine, nel tentativo di rinnovarsi, risulta forzata nell'alternare melodia ed urla, ed è proprio la commistione di post-rock ed hardcore che non attacca e che sminuisce anche il dotato cantante/chitarrista.
Un disco ovviamente consigliato ai fan degli Isis, soprattutto quelli più morbidi e prodotti degli ultimi lavori, e anche ai fan della musica sperimentale che dagli Slint finisce ai Neurosis. Per il resto un altro post-disco di cui si poteva anche fare a meno.
Voto: 5,5
Green Day - 21st Century Breakdown (Reprise, 2009)
I Green Day di Billie Joe sono ormai invecchiati. Seguendo il percorso tracciato dalla loro carriera potremo parlare di una degenerazione dal punk vecchio stampo influenzato dai big degli anni '70 ed '80, al punk rock (come essi stessi si definiscono) che trova più somiglianza nel punk commerciale dei Blink 182 a quello che si può definire un semplice alternative rock con lontane influenze punk. Questo 21st Century Breakdown rappresenta appieno questa evoluzione/involuzione ed ora andiamo più a fondo nel disco.
Il disco è un miscuglio di pop, rock e punk. Potremo parlare di banalità, tutto ciò che molti si aspettano dei Green Day, ma partirei dal dire che questo album nel complesso è sufficiente. Se i pezzi più simili al precedente American Idiot sono ascoltabili ma sanno di già sentito (pezzi come “Viva la Gloria” o “Christian's Inferno”), i pezzi più lenti riescono anche a sorprendere. Dall'imitazione di Gallagher già conosciuta nella cover di Lennon di Working Class Hero che riascoltiamo in “Last Night On Earth”, straziante ma apprezzabile ballata pop che mi ricorda qualcosa come i Manic Street Preachers più melodici, passiamo anche per quell'alt-rock più lento e pesto (che personalmente gli reputo più congeniale vista l'età che avanza) che ci propinano nel primo singolo estratto “Know Your Enemy” e in “Before the Lobotomy”. Formula poi ripetuta nella metà dei pezzi (di cui il più apprezzabile è “Horseshoes And Handgrenades”, che mi ricorda un po' il tormentone Tick Tick Boom dei the Hives, poi ditemi se sono l'unico). “Peacemaker” è un pezzo veloce forse più vicino alle produzioni inglesi di certi Arctic Monkeys (o cloni vari), che risulta molto godibile per la diversità dalle altre tracce e quella “happiness” che trasuda (anche se parzialmente) dagli accordi e dall'orchestrazione di sottofondo. “Restless Heart Syndrome”, che suona al primo ascolto come una reprise di Boulevard of Broken Dreams (ed è un papabile futuro singolo), è un altro di quei pezzi melodici che come dicevo risaltano per l'effetto nero su bianco che danno se accostati alla formula ricorrente del giro di power-chord che metà delle canzoni più “classiche” ci presentano. Azzeccata anche l'esplosione finale.
Apprezzati sicuramente dai fan ma abbastanza insipidi sono pezzi come “Last of American Girls”, “The Static Age” e “See The Light, forse tra quei brani riempitivo tipici delle produzioni degli ultimi tempi. Sembra diventato a tutti gli effetti molto difficile far un album interamente studiato e ben composto; sarà forse colpa delle etichette e dei tempi imposti?
Musicalmente la band suona come sempre, la tecnica non è il loro forte ma la potenza e l'impatto la fanno da padroni. C'è chi dice sia facile comporre una canzone come quelle dei Green Day: tecnicamente lo è, forse è difficile dopo tutti questi album fare ancora brani che possano avere un minimo di impatto sul pubblico. Qualche volta ci riescono, qualche altra no.
La produzione a livello di suono è comunque curata ottimamente e stupisce anche la durata (69 minuti), notevolmente superiore a quelle a cui tutti i fan (o ascoltatori abituali) di questa band sono abituati.
L'album alla fine non ha di certo un “lasting value” dei migliori, e neanche per i fan di vecchia data sarà un gioiellino da ascoltare e riascoltare, non finché qualcuno gli ruberà la copia di Dookie. In ogni caso per chi apprezza il rock commerciale d'oltreoceano questo CD può risultare ancora interessante e se non stiamo ricercando musica nuova ma musica e basta, potremo anche gradirlo. Un onesto lavoro come ci si aspettava dai Green Day, senza novità ma nella media.
Voto: 6+