giovedì 28 luglio 2011
Radici Nel Cemento - Fiesta! Live (RNC Produzioni, 2011)
Era il novantatré quando con il nome Roots in Concrete questi ragazzi di Roma iniziarono a riempire i club del loro reggae melodico ma concreto, presto celebre anche per la delicatezza dei contenuti. Il nome in italiano ne ha suggellato la fama. A otto anni arriva il primo disco live, un piccolo regalino per i fan che serve anche a dimostrare ai meno affezionati la carica e la verve che la formazione laziale sa comprimere all’interno di un set dal vivo, emotivamente e strumentalmente, non trascurando mai l’azione efficace di un reggae ormai protagonista di molte delle migliori iniziative musicali del nostro paese. Insomma, un genere che, se fatto con le palle, piace anche a chi non è abituato ad ascoltarlo. E qui, c’è anche del rap, ad orientare in maniera ancora più divertente e, se vogliamo, generica, il manifesto d’azione della band. Radici nel Cemento è un progetto che rientra proprio in questa nicchia di fortunati outsider e questo disco ne é la conferma, trasportando su supporto fisico quella passione nel suonare che è la prima causa del coinvolgimento non solo mentale che ascoltandoli dal vivo si può subire. Consigliato.
Voto: 7
martedì 12 luglio 2011
Jakszyk, Fripp and Collins - A Scarcity of Miracles (A King Crimson ProjeKct ) (Panegyric, 2011)
Dal mio dizionario:
Miràcolo prov. miracles; fr.miracle; sp.milagro: port. milagre= lat.miràcolum cosa
meravigliosa da MIRARI meravigliarsi (v. Mirare e cfr. Miraglio.
Fatto contrario alle leggi della natura e prodotto per potenza soprannaturale;
fig. Cosa grande e meravigliosa o non sperata. (Differisce da Prodigio, che non oltrepassa i limiti della natura, della quale è al disopra il Miracolo) .....
tipo che Bruford torni a fare dischi e pure con i King Crimson o che per lo meno si unisca a Adrian Belew e Tony Levin al posto di Pat Mastelotto per i Three of A Perfect Pair, che esca un (vero) album dei KC con una formazione completamente rinnovata (che magari comprenda anche Danny Carey), che la Zappa Family Trust affidi i suoi affari e gli sterminati archivi dello Utility Muffin Research Kitchen a gente esperta e competente per la pubblicazione ragionata, che Ian Anderson mandi definitivamente in pensione il “marchio” Jethro Tull e faccia solo concerti acustici di piccolo cabotaggio, che l’Italia abbia una amministrazione pubblica onesta ed efficiente ... no qui neanche un intervento divino basterebbe ... qualunque siano (sacri o profani) i miracoli cui si riferisce il titolo dell’album di certo ce n’è sicuramente scarsità.
Tra le possibili metodologie di approccio a questo lavoro discografico ne scelgo due che ritengo le più adatte ad una migliore comprensione del discorso in generale e che potrà, volendo, soddisfare entrambe le parrocchie di pensiero in cui vorrete riconoscervi.
A SCARCITY OF MIRACLES il nuovo album dei KING CRIMSON
Sicuramente di scarsità non ce n’è nel catalogo della DGM. Il Venal Leader dal 1995 come per la moltiplicazione dei pani e dei pesci, produce live, raccolte di scarti, prog(KC)etti, tazzine, magliettine, sottobicchierini e qualunque cosa vi viene in mente avente come obiettivo “cose” collaterali ma sempre in qualche modo pertinenti, alla musica di sua Maestà Cremisi. Di album KC100% c’è davvero (forse per fortuna) scarsità. Ma noi, assettati e viziati, ci siamo condizionati ormai a considerare tutto ciò anche se pur lontanamente, qualcosa che è King Crimson, sia pure un’ombra o una luce sbiadita di colore Cremisi. Quindi è con serenità che dissipiamo ogni fuorviante dubbio e consideriamo questo A Scarcity of Miracles il nuovo album dei King Crimson.
Confezionato dalla grafica, intrisa di simbolismo cristiano ad opera del solito P.J. Crook, il lavoro, anticipato un mese prima dell’uscita da un (questo si) miracoloso videoclip, (il miracolo non è che l’abbiano fatto ma che sia bello ... no dico .. avete presente i video di "Heartbeat" o di "Sleepless"?) cancella quasi del tutto 38 anni di evoluzione Cremisi, lasciando solo i Soundscape a fare da motrice iniziale e quindi poi base alle nuove composizioni intrise di atmosfere pre Larks’ Tongues in Aspic. E’ come (cosa teorizzato da molti) se il periodo Wetton, Bruford, Cross fosse altra cosa e solo per motivi di mercato etichettata come KC e come (successo per davvero) se i Discipline all’inizio degli anni ‘80 fossero rimasti tali e non avessero usato l’etichetta KC per ragioni di mercato.
D’altronde in un mondo musicale dove tutti o quasi ormai rifanno i King Crimson post Island, l’unico modo che aveva Fripp per essere originale è di rifarsi al se stesso pre Larks’ Tongues in Aspic (però manca Peter Sinfield e si sente).
Andatosene via Mastelotto, restano comunque della formazione degli ultimi anni, oltre a Fripp, ovviamente, Tony Levin e Gavin Harrison (prestatogli da Wilson, ormai di casa).
A dare continuità al “precedente” Islands del 1971, torna in gran forma Mel Collins. I suoi meravigliosi fiati, passati nel frattempo attraverso metà dei dischi del pianeta hanno perso quella leziosità che avevano in gioventù, rimanendo “semplicemente” belli. I suoi sono momenti di aerea creatività, ottenendo di destarci dal torpore che la musica, quieta e riflessiva, in alcuni momenti rischia di farci calare.
Molto ipnotiche e seducenti le ritmiche ed i groove creati da due maestri del settore come sono Levin e Harrison. Su tutto, sotto tutto, immerso in tutto ci sono i soundscape frippiani e le cristalline pizzicate del nuovo arrivato Jakko M. Jakszyk (si pronuncia Jakscek) nome d’arte dell’inglesissimo Michael Lee Curran (in un mondo normale se ti chiami Jakszyk, prenderesti il nom de plume, Micky Curran). Infatti è questo il nuovo elemento che fa determinare la scelta a suoni cremisi del passato. Era dal 1981 che i King Crimson non potevano più definirsi una band britannica. Adesso con il solo Levin (di Boston) a fare da “straniero”, possiamo considerare Sua Maestà come “ritornata in patria”.
Il risultato più palese lo si riscontra nel cantato. La lunga era Belew ci aveva ormai abituati al tipico modo di cantare del midwest americano. Con Jakko abbiamo finalmente la figura chiave per riambientarci nei territori di un’ISOLA chiamata Albione. Sia chiaro, vogliamo bene ad ADE ed alla sua musica ma era da tempo che desideravamo andasse per la sua strada ottenendo il duplice scopo di coronare una interessante carriera solista (quella di lui) e di liberare il Venal Leader e di conseguenza permettere a Sua Maestà Cremisi di andare avanti e crescere e abbattere nuove frontiere. Ogni album dei King Crimson fino a ieri è stato l’evoluzione di quello precedente. A Scarcity Of Miracles se può essere definito "evoluzione” lo è solo di Islands però. Ci auguriamo che il prossimo gradino sia oltre.
Voto: 5
A SCARCITY OF MIRACLES il nuovo album di Jakko M. Jakszyk
In collaborazione con Robert Fripp e Mel Collins.
Polistrumentista, autore, cantante, produttore, turnista da studio, genero di Michael Giles e attore (l’ho visto anche lavorare al distributore di benzina qui vicino a casa mia ma solo occasionalmente), dopo collaborazioni (tra i tanti) con i Level 42 e David Jackson, diventa dal 2002 componente di spicco della 21st Century Schizoid Band, la cover band ufficiale di ex componenti dei King Crimson che dopo alcuni belli (e costosi) CD si sfalda per la morte nel 2007 del batterista Ian Wallace.
Non c’è da stupirsi quindi se tempo dopo lo troviamo chiuso in una stanza con Robert Fripp, entrambi chitarra alla mano. Ne nascono alcune session improvvisative a base soundsacape e cesellate dalla chitarra di Jakko. Un paio di queste le troviamo anche nella versione più lussuosa del CD uscito.
Come terzo di una coppia perfetta si unisce l’altro ex Cremisi e quindi ex 21st Century Schizoid Band, Mel Collins a dare quel valore aggiunto e quella “passionalità” che altrimenti mancherebbero alle gelide e cerebrali frippescapes. Da questo incontro a tre nascono delle registrazioni di sapore mediterraneo e intimo ai quali si aggiungono la mirabile batteria di Gavin Harrison (Porcupine Tree) e gli stick di Tony Levin (....mettete voi un nome a caso ...) i quali registrano però privatamente, ognuno a casa sua sulle basi dei primi tre.
La voce di Jakko, seppur in alcuni momenti un poco pedante, interpreta perfettamente l’intensità di queste ballate allargate come nella title track, ma in brani come "The Price We Pay" o "Secrets" la differenza tra una canzone, bella o brutta che sia ma pur sempre solo canzone, ed un brano musicale intenso ed universale viene data dal supporto fornito dalle meravigliose ed eclettiche svolazzate del sax soprano di Collins e dai ceselli raffinati e preziosi di Fripp. Levin e Harrison fanno un lavoro egregio e preciso ma non privo di creatività pur essendo solo degli esecutori esterni e non partecipando al processo creativo.
"This House" purtroppo non riesce a baneficiare della stessa sapienza alchemica dei pezzi precedenti, risultando solo una lunga e un poco soporifera ballata. Per fortuna la successiva "The Other Man" è di tutt’altra fattura. Dopo una prima metà inquietantemente notturna, ben contrappuntata dalla voce di Jakko questa volta dura e severa, il brano sfocia in un momento di grande intensità e carico di energia pieno di echi Cremisi che si conclude solo con il finale lasciato agli effetti frippeschi.
Chiude "The Light of Day", il brano più lungo dell’album. La soporificità è sempre li ad un passo dall’afferrarci e provenendo dal resto dell’album il rischio è più intenso.
Permettendosi una pausa di circa 5 minuti dopo il precedente ottimo brano, "The Light of Day" ne giova, diventando ipnotico e suggestivo, con le chitarre frippiane, sotterraneamente arrabbiate. Questa volta si.
“A Scarcity Of Miracles se può essere definito “evoluzione” lo è solo di Islands però. Ci auguriamo che il prossimo gradino sia oltre”.
Voto: 6
(Recensione di Donald McHeyre)
venerdì 8 luglio 2011
Soluzione - L'Esperienza Segna (New Model Label, 2011)
"Dammi i soldi e ti porto la soluzione". No, non c'entra niente. Questa soluzione è molto migliore di quella proposta da Fabri Fibra: L'Esperienza Segna è un disco genuino, un continuo depistaggio verso lidi misteriosi, celati da una parvenza di semplicità che serve solo ad aumentare l'effetto appiccicoso di alcuni brani. In senso buono, si intende.
L'esperienza a cui si va incontro ascoltando questo disco è quasi catartica, tesa quasi a liberare dalla crisi di originalità che pervade un po' ogni categoria musicale italiana: le bonus track con gli ospiti puntano ad un pubblico più generico, come ultimamente sembra diventato tipico fare, irretendo i più distanti con i grossi nomi (Fiumani e Mao, in questo caso). E' un pop rock d'autore, con un languido sguardo al passato, soprattutto ai settanta e gli ottanta, con riferimenti testuali che ricordano Le Luci, Dente e Bugo, forse anche qualche cantautore più lontano nel tempo, e un contesto musicale pienamente new wave, con venature dark che certamente contribuiscono a colorarlo di toni cupi e intimistici, sporchi di malinconia soft rock che ricorda proprio gli anni di cui si parlava. Le atmosfere romantico-decadenti di "Luce" fanno il resto. Determinante anche la strumentale "Intermezzo Uno", che quasi svolge da lente d'ingrandimento nei riguardi del genere che la band propone, rozzo ma levigato contemporaneamente, sporco ma limpido. Il disco è veramente molto bello, conscio delle sue potenzialità e per questo pronto a penetrare la scena in maniera decisiva. Il progetto Soluzione è destinato ad arrivare in alto, la strada l'ha già trovata e si ricerca ora una conferma definitiva. Gran lavoro, veramente.
Voto: 8.5
martedì 5 luglio 2011
Yes - Fly From Here (Frontiers Records, 2011)
E’ USCITA LA NUOVA COPERTINA DI ROGER DEAN
Si lo so, il titolo è un poco provocatorio ma di tutti i numerosi componenti, passati e rimasti (perché personalmente lo considero un componente effettivo degli YES), Roger Dean è l’unico che non mi ha mai deluso. E poi quando c’è lui c’è anche Steve Howe e viceversa. Sia la copertina che il solito meraviglioso confezionamento, a cui ci ha abituato la band da (quasi) sempre, non sono però l’unica cosa gradita di questo nuovo album degli YES che arriva dopo 10 anni dal ben apprezzato "Magnification". La storia e le problematiche (nel caso degli YES quasi sinonimi) tra i due album sono cronaca accessibile a tutti e non starò qui a ripeterle.
Il risultato, parafrasando Il Gattopardo, è “bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale”.
Via Jon Anderson, il quale si è permesso di ammalarsi durante un importante tour (quale affronto). Il bradipo, noto anche come Chris Squire, non si è lasciato sfuggire neanche per un istante l’occasione per defenestrarlo completamente e sostituirlo con nuove(?) leve.
Riccardone Wakeman, poi non è mai stato un esempio di salute e quindi fuori anche lui ma d’altronde è dal 1971 che appare (quando appare) nei dischi degli YES per cortesia della A&M records, quindi al fatto che possa mancare ci siamo abituati.
Secondo l’assioma che quella di Anderson sia l’unica (a volte irritante) voce possibile per gli YES (chi ha detto Trevorn Horn?) chi era l’unico al mondo che poteva sostituirlo se non qualcuno che proviene dal fandom, che conosce a mena dito ogni istante della loro discografia e che l’ha pure cantata a mo’ di imitatore fino a ieri ? Ma Benoit David, ovviamente.
E incredibilmente nei minori (per fortuna) momenti in cui fa l’imitatore, sembra proprio di ascoltare l’ex calciatore di Accrington nel Lancshire ma ancora più incredibile, nei maggiori (per fortuna) momenti in cui decide di fare il cantante, David si dimostra perfettamente calato nel sound YES ... o dei Buggles ? ... no degli YES.
Sono passati appena pochi istanti dall’addio di Anderson e Wakeman ma tanto le lacrime si sono già asciugate, ed ecco apparire Trevorn Horn e Goeff Downes. Il primo nel ruolo che sa fare ottimamente, ossia il produttore, l’altro nell’unico ruolo che sa fare, il tastierista (oltre ad affossare e rendere di nicchia, un gruppo miliardario come gli ASIA). E i due ne approfittano subito per proporre a Squire, Howe e Alan White (a questo punto il trio che crea stabilità e continuità al progetto YES) uno scarto da studio risalente ai tempi di DRAMA.
WE CAN FLY (from Here)
(Voci dicono che ne esiste una versione dell’epoca, fine 70/inizio anni 80, con Bill Bruford , se è vero, il demo DEVE essere MIO).
I tre si guardano tra loro perplessi per un attimo e poi si rivolgono ai due Buggles: “Ma non l’avevamo scartato da DRAMA ? E poi non l’avevate riciclato per le bonus track del CD di voi due, Adventures in Modern Recording ?
“E’ vero”, rispondono i due Buggles “ma ci è venuta la genialata di ampliarla in un’intera suite e la faremo con l’ottica dei grandi anni 70 ma con le tecniche di incisione, missaggio e registrazione più moderne e all’avanguardia e sarà la più lunga delle “poche” suite che gli YES hanno fatto fino ad oggi” (circa una dozzina).
Grande idea ... : Dice Howe.
... così manterremo i vecchi fan e ne prenderemo di nuovi tra i loro nipoti: Dice White.
Hic: Dice Squire.
E proprio con questa suite inizia il nuovo album degli YES da cui prende il titolo, disponibile in CD normale al prezzo standard di mercato ma per pochi €uro in più con DVD comprendente documentario e video del singolo We Can Fly, che è anche il secondo movimento della suite e per molti €uro in più, un box nero, contenente quanto sopra, più vinile, più maglietta .. uaoh.
La prima metà del CD ed il primo lato del vinile contengono la suite in 5 parti e qui come in tutto l’album si può apprezzare il grande lavoro di produzione sui suoni che sono l’altro marchio di fabbrica del gruppo fin dai tempi dell’altro ex semi ufficiale YES, Eddie Offord. Straordinarie dinamiche degne di un vinile e miracolosamente salvate nella stampa in CD, suoni vivi e colorati che donano alla musica una vita tridimensionale e un impatto elevato anche nei momenti meno ispirati.
La voce (vera) di David amplia di molto lo spettro interpretativo ma nei coretti con Squire il fantasma di Anderson è palese quanto nostalgico. In effetti l’apparato melodico di tutta la composizione ci riporta al decennio d’oro del cosiddetto progressive. Nulla di nuovo quindi ma è pur vero che è dai tempi dell’album verde che le suite degli YES sono sempre la solita, magnifica, Close to The Edge.
Se c’è una critica da fare alla suite è la poca presenza di Howe ma trattandosi di una creatura di Downes e di Horn ... la chitarra è presente in modo massiccio nel secondo movimento (quello del singolo) per ovvi motivi di rappresentanza. Un poco all’inizio del terzo movimento: “Sad Night at the Airfield" e, avendola scritta lui, nella 4° parte: “Bumpy Ride”, forse il momento più interessante e “YES” della suite.
Il lato B(?) si apre con “The Man You Always Wanted Me to Be” che , udite, udite, vede per la prima volta in un disco degli YES, Chris Squire come lead vocal (si vede che manca Anderson eh eh eh). Il brano scritto dal bradipo in persona con l’aiuto del suo ex compagno dei Syn, Gerard Jhonson è orecchiabile, ruffianetto al punto giusto e potenziale altro singolo.
Più interessante la successiva, “Life on a Film Set” anch’essa scarto dei Buggles ma qui arrangiata ottimamente. Soprattutto Howe si ricorda chi è con la sua chitarra classica in un brano apparentemente AOR ma chi riserva piacevoli sorprese. Il finale è un poco inconcludente ma azzardo a dire che qui Anderson non avrebbe fatto meglio di David.
Ed ecco finalmente i due pezzi scritti dal solo Howe. Li aspettavo dall’inizio dell’album e il primo, “Hour of Need”, nonostante (o forse a causa) dell’inizio promettente diventa dopo 15 secondi esatti un rilassato brano da spiaggia degno dei momenti più beceri dello Jon Anderson solista ma d’altronde, storicamente i due facevano comunella contro l’altro polo compositivo del gruppo, quello di Squire.
"Solitaire" è il vero momento “solitario” di Howe, come lo fu per il brano "Masquerade" in “Union”. I momenti acustici, “intimi” di Howe sono di quanto più lontano ci possa essere dal mondo YES, dal progressive, dalla cultura Britannica.
Momenti di pace e riflessione.
Chiude l’album "Into the Storm", altro potenziale singolo pop. Scritto da tutti i componenti del gruppo compreso White ma con Oliver Wakeman ( .. oh dad ..) al posto di Downes. Oliver aveva partecipato al tour del 2008 e aveva cominciato a collaborare in studio per Fly From Here fino all’arrivo di Dwones. Nell’album non si specifica dove finisca il lavoro di uno e cominci quello dell’altro e qui è l’unico posto dove appare nei credits. Comunque, forse, parteciperà al tour promozionale.
In ultimo, alla faccia nostra e per la gioia dei collezionisti, in Giappone (i soliti privilegiati) il disco è uscito con un pezzo in più che non è altri che “Hour of Need” lunga il doppio. Chissà se così il pezzo ne giova o ne raddoppia solo l’agonia.
In conclusione un album lontano dalle vette di Keys To Ascension, se vogliamo rimanere in ambiti relativamente più recenti ma lo stesso apprezzabile e piacevole .. e poi c’è Roger Dean.
Per il voto ascoltatelo e datevelo voi.
(Recensione di Donald McHeyre)
venerdì 1 luglio 2011
Genesis-Selling England By The Pound (Charisma, 1973)
Genesis, chi li ama alla follia per Gabriel, chi li odia per Collins, mai viceversa in realtà. Erano lontani i tempi in cui ottenevano i primi consensi in Italia girando per luoghi come il Piper prima di diventare autentiche leggende della musica Prog e non solo. Possiamo definire i loro album come un progressivo mutamento in positivo fino ai tempi di And There There Were Three (1978), insomma alla fin fine i primi due album di Collins da vocalist sono stati comunque eccellenti, soprattutto lo splendido A Trick Of The Tail (1976). In realtà però chi è appassionato di Prog li ricorda per il virtuosismo alle tastiere di uno di quelli che insidiava il trono a gente come Rick Wakeman o Keith Emerson ovvero Tony Banks, per il basso e la chitarra a 12 corde di Mike Rutherford, il faccino adorabile di Phil Collins, che si dilettava nel fare da seconda voce ed eccellente batterista, la vena creativa del grandissimo Steve Hackett, spesso sbeffeggiato dalla band ma con una vasta e grandiosa carriera solista; ma soprattutto Peter Gabriel, la presenza scenica, il "The Flower" in "Supper's Ready", "Rael" in "The Colony Of Slippermen", proprio lui che indossava spesso vestiti della moglie. I Genesis ci hanno lasciato delle perle leggendarie come Trespass (1970), Nursery Cryme (1971), Foxtrot (1972) e The Lamb Lies Down On Broadway (1974) che alcuni preferiscono anche al capolavoro d'arte Selling England By The Pound.
Non è facile parlare di quest'album perchè si avrebbe la paura di non rendere l'idea della grandiosità che si cela all'interno. D'altronde l'apertura è già da brividi. Dancing With The Moonlit Knight introduce l'album con la voce a cappella di Gabriel e man mano che si procede c'è una progressiva accelerazione che porta ai soli del duo Hackett-Banks. Così come lo è l'intero album anche questa canzone è complessa, nella fase centrale tra un solo e l'altro viene utilizzato un coro a 8 voci, Tony Banks si diletta nell'uso del Mellotron M400 appena acquistato e Steve Hackett spesso viene menzionato per aver usato la tecnica del tapping e dello sweep-picking. Il testo è ironicamente riferito ad alcuni prodotti inglesi. Segue alla grande apertura un grande singolo, uno di quelli che spezza il ritmo tra canzoni più articolate per affrontare temi leggeri. I Know What I Like (In Your Wardrobe) è una ballata, se vogliamo anche con qualche leggero risvolto psichedelico, il testo si riferisce a un ragazzo nullafacente in cerca di lavoro. E' uno di quei brani ripoposti molto spesso dalla band soprattutto nel periodo Pop con Phil Collins frontman. Arriviamo al terzo brano, una canzone indescrivibile, Firth Of Fifth. Alcuni la considerano come la più bella dei Genesis, di sicuro si contende il trono con Supper's Ready, anche se molti preferiscono in quest'album The Battle Of Epping Forest. Quando avremmo finito di sentire l'intera canzone strutturalmente e musicalmente ci sembrerà incredibilmente perfetta, senza sbavature. L'intro in pianoforte è uno dei più famosi della storia, alla voce di Gabriel invece seguono tre soli, il primo dello stesso Gabriel al flauto dai toni più pacati, l'accelerazione arriva invece con il solo di Banks che riprende i motivi dell'introduzione, segue poi con ritmo più tenue il solo di Hackett, quasi a sfondo epico. In realtà Tony Banks ha addirittura definito il testo di questa canzone come uno dei più scarsi alla quale lui abbia mai partecipato e nel tour "Seconds Out" spesso, odiando il pianoforte elettrico per effettuare l'introduzione di questo brano la tralasciava passando così direttamente alla parte cantata. La traccia quattro è rappresentata da More Fool Me, una canzone completamente acustica, l'unica cantata da Collins assieme a For Absent Friend di Nursery Cryme durante il periodo Gabriel, una di quelle che lascia presagire il suo avvento alla voce. The Battle Of Epping Forest è il brano più lungo dell'album e uno dei più complessi. Protagonista assoluto è Gabriel e i suoi continui mutamenti di voce per interpretare ruoli e personaggi diversi cosi come farà in The Lamb Lies Down On Broadway. Tuttavia, proprio per la sua complessità, la band ha cominciato a pensare che sarebbe stato impossibile riproporre questa canzone sempre senza errori, quindi è stata tolta per sempre dai tour e mai più rappresentata a differenza di I Know What I Like, Firth Of Fifth o The Cinema Show, altri pilastri di questo album. Finalmente arriva anche il tocco di Hackett, come se non l'avesse già messo, con After The Ordeal, che è un brano interamente strumentale e che creò inizialmente molti problemi; infatti sia Tony Banks che Peter Gabriel furono contrari al suo inserimento nella tracklist dell'album, fu proprio una di quella serie di discussioni che portò all'abbandono di Hackett dopo Wind And Wuthering (1977) riuscendo finalmente ad esprimersi per come lui voleva. Come se non bastasse segue un altro capolavoro, The Cinema Show. Una dimostrazione di forza del gruppo dominata all'inizio dagli arpeggi di chitarra a dodici corde con inserti di flauto e nella seconda parte da un impressionante assolo di Tony Banks dalla durata di 5 minuti in 7/8. Se voi provaste a vedere un esibizione di tale solo anche solamente in video potreste rimanere davvero a bocca aperta. Il testo invece è un misto tra Romeo e Giulietta e la figura mitologica di Tiresia. Il brano in realtà termina conAisle Of Plenty, coda dello stesso The Cinema Show e dell'intero album come sempre caratterizzato da giochi di parole che in questo caso vanno contro il consumismo delle grandi imprese.
E' ovvio che le sensazioni sono soggettive ma credo che oggettivamente su questo album non ci sia nulla su cui discutere. I vecchi camaleonti del Prog ricordano le loro date in Italia come se fossero leggenda e in effetti non può che non essere così. I Genesis come tutti saprete da lì in poi avranno un grande impatto commerciale nel Pop, ma senza ombra di dubbio una regressione incredbile da parte dei membri della band. Tra tutti Banks che perde veramente in negativo rispetto al passato. Anche se ad alcuni i Genesis piacciono anche da Pop è vergognoso ritrovarsi una discografia che affianca brani come The Musical Box a brani come I Can't Dance. Purtroppo la maggior parte delle band hanno una fase negativa anche se questa è durata davvero troppo. Nonostante tutto Peter Gabriel e Steve Hackett, nella loro carriera solista hanno continuato a stupire, mantenendo sempre un loro stile inconfondibile. Non ci resta che sognare tra le nostre cuffie e goderci fino a quando potremmo la perfezione di quest'album e dei primi anni di Genesis.
Voto: 10