La storia dei Tempi Duri parte all'inizio degli anni ottanta. Il fondatore Carlo Facchini conobbe Fabrizio de André e una catena di eventi presto portò alla nascita di questa band, in cui militava, oltre al chitarrista Loby Pimazzoni e al batterista Marco Bisotto, lo stesso figlio del Faber, Cristiano. Così nel 1982, per la Fado di Fabrizio de André e Dori Ghezzi, usciva il successo di critica e pubblico "Chiamali Tempi Duri". Il seguito di quel disco, con la formazione originaria - ad eccezione di Cristiano de André presente in un unico brano - esce a trentatré anni di distanza per il gruppo Saifam di Mauro Farina.
Le corde di Pimazzoni sono la prima cosa che rimane in testa di questo "Canzoni Segrete". Con Mark Knopfler come stella guida, splendide in quei fraseggi eleganti e mai troppo complessi, sono le chitarre le principali responsabili dell'attualizzazione di un sound comunque ancora legato a quegli esordi, ma che il pubblico a cui si rivolge non potrà che trovare azzeccato. L'interazione tra Loby e l'ospite ed amico Massimo Germini (celebre per i suoi lavori con La Carboneria, Vecchioni, Van De Sfroos, Milva e molti altri) non può che impreziosire quello che è l'assetto melodico del disco, con Claudio Fiorini e Gino Marcelli al piano a completare egregiamente il quadro. Cristiano De André interviene in "Con Le Nostre Mani", uno dei pochi brani non politicizzati, mentre è forte l'influenza del padre anche in quanto a impegno dei testi e utilizzo delle metafore in "Italia Parte 2" e "La Sfida", i due pezzi forse più riusciti e in cui il nome della band rappresenta anche il messaggio veicolato dalle parole.
La geografia e il viaggio sono altre tematiche ricorrenti: in "Hong Kong", alla ricerca della pace interiore, oppure in "Giulietta", dove il tragico personaggio shakespeariano ci ricorda anche il legame della band con la loro Verona. Echi di Ivano Fossati o perché no, di Lucio Dalla, risuonano dalle corde vocali dell'abile e poliedrico frontman Facchini, sempre perfetto nell'interpretare una malinconia di fondo che lascia comunque spazi per riflettere ai margini della commozione e della rabbia sociale. Spiace un po' sentire un batterista come Marco Bisotto relegato a mero accompagnamento, ma è questo che accade nel 99% dei dischi pop.
Sospeso tra musica popolare, storia della canzone d'autore e pop rock raffinato di ispirazione americana, questo album riesce a far riflettere su quella che è una delle più naturali urgenze di chi ascolta musica: la spontanea identificazione con le liriche, con il mondo che narrano e che raccontano, possibile perché in risalto rispetto all'immagine, distrazione rispetto al messaggio (se esiste) nel pop di oggi.
Non era essenziale, e ci perdonino i Tempi Duri per questo giudizio, ma quando una band si ripresenta sulle scene con un prodotto di qualità, per quanto anacronistico, la scena tutta dovrebbe solo gioirne, al netto delle incertezze di tutti quelli che vedono nelle reunion un mezzo di facile guadagno (che visti i tempi, duri appunto, non sarà certo così abbondante).
La speranza è dunque quella che Facchini e soci continuino a produrre dischi del genere, magari senza lasciar passare altri tre decenni.
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