lunedì 31 luglio 2017

Colouratura - Colouratura (Ian Beabout Productions, 2017)

Nella lirica, un "soprano di coloratura" è un soprano in grado di eseguire melismi su una parola o su una sillaba usando tutta la sua estensione vocale. Colouratura, americanizzato, è anche il nome di questo progetto formatosi nel 2016 e composto dal cantante e musicista Nathan James e dal produttore Ian Beabout, una sorta di Brian Eno e Bryan Ferry senza le tensioni interne, aiutati dalla loro fida schiera di musicisti.

Come, d'altra parte, suggerisce il titolo stesso, si tratta di un lavoro che spazia tra vari generi e colori, presentando una personalità poetica e melodica (cantautorato, folk progressive rock) a cui se ne contrappone un'altra più sperimentale e riconducibile alla musique concrète. Esemplificative del primo stile sono la title-track, "Sea Shanty" e "Until You Slip Away", brano impreziosito ulteriormente dai tormentati vocalizzi di Evyenia Karapolous, mentre la seconda faccia dell'album è rappresentata dai vari collage sonori sparsi per l'album, tra cui "Cacophony" che apre il disco, tutti realizzati con criterio e cura. Probabilmente, però, il brano più interessante è "Jekyll.Hyde" che, come il titolo stesso fa pensare, rappresenta perfettamente i due lati del disco. Il pezzo riporta un po' alla mente le sonorità dei Van der Graaf Generator, grazie anche al sassofono di Dave Newhouse, storico membro dei The Muffins e presenta una melodia che sulle prime appare ostica ma che, proseguendo l'ascolto del brano, viene digerita sempre di più, grazie anche alla costruzione in sé della composizione: molto intelligente, dinamica e con un ottimo assolo di sintetizzatore dello stesso James.

L'album, generalmente, ha una matrice molto seriosa, cosa dimostrata dai testi molto ponderati di James e da brani come l'appena citata "Jekyll.Hyde", la solenne e folkeggiante "Hymn" e gli inquietantissimi collage sonori di "Old Nightmares" e "The Other Side". Eppure, il disco si conclude con una rozza e sporca ripresa punk rock di "Questions", uno dei pezzi più pop e cantautorali, che riporta molto alla mente la scena finale del primo film di Shrek con il cast che canta la sua versione di "I'm A Believer"  dei Monkees, segno che il duo comunque non si prende totalmente sul serio e crea un'opera del genere soprattutto per il divertimento e il piacere di fare musica: in effetti, dopo un finale cacofonico, l'ultima cosa che si sente nel disco è un liberatorio "FUCK IT!" gridato dallo stesso James che capovolge interamente le atmosfere inquietanti e malinconiche che hanno pervaso tutto l'album.

Si tratta di un lavoro ben fatto e che riesce a scampare al rischio di retorica, proponendo composizioni di buon livello e fatte con gusto. È anche un disco che sopravvive a più ascolti, grazie alla sovrapposizione di materiale apprezzabile fin da subito e di altro che necessita di essere macinato ma che, non per questo, è di livello inferiore. Il mélange tra le due anime del disco, pur essendo estremo, si sposa perfettamente, anche grazie ad una sequenza particolarmente azzeccata. La buona resa dell'album è sicuramente aiutata anche dal cantato di Nathan James, dotato di una voce piacevole e molto espressiva, e dall'ottimo cast di musicisti, tra cui ricordiamo le chitarre di Ryan Smurthwaite e Damon Waitkus e l'ottimo pulsare ritmico di Brandon Collins e Connor Reilly. La produzione è decisamente appropriata sia nei brani più intimisti, sia in quelli più sperimentali, con diversi approcci che si rivelano sempre azzeccati. 

Attualmente, il duo ha iniziato alla lavorazione di un secondo album che, sicuramente, ascolteremo con molto interesse. Nel frattempo, potete acquistare questo disco, in copia fisica e digitale, su Bandcamp dove si possono anche leggere le interessanti e precise annotazioni di Beabout nella descrizione di ogni pezzo, atte a descrivere il processo compositivo e di produzione del disco.


Colouratura
Ian Beabout (sinistra), Nathan James (destra)


mercoledì 19 luglio 2017

Bob Balera - È Difficile Trovarsi (Dischi Soviet Studio, 2017)

Bob Balera è il nome d'arte di Romeo Campagnolo, ennesimo tassello della scuderia di Dischi Soviet Studio, label indipendente della provincia di Padova dei cui artisti già tante volte Good Times Bad Times ha parlato in passato. In comune con altri nomi del loro roster (Limone, Riaffiora, Francesco Cerchiaro ma non solo), Bob ha la passione per le parole, ironiche, autoreferenziali, qualche volta salaci, impegnate nel disegnare con caustica freddezza la propria visione di un rapporto di coppia, forse con un'altra persona, ma più in generale con ciò che lo circonda. Il linguaggio prescelto è un electro pop di classe, mai troppo radiofonico, innestato qualche volta su circuiti funk ("Serena"), altre volte su stilemi tipici della musica d'autore italiana ("Bologna", il pezzo forse più spontaneo, genuino e caratteristico di questo lotto). "Giorni di Cicala" riesce a suonare ruvida pur senza eccedere in esplosioni catartiche e fronzoli, grazie ad una band (che sembra chiamarsi I Bob Balera, per l'appunto) che sa il fatto suo in termini di arrangiamento, qualità strumentali e pathos aggiunto. E' nella new wave rivisitata in salsa anni zero di "Roma-Berlino" che Romeo dà il meglio di sé, utilizzando tematiche ormai sentite e strasentite senza assomigliare a nessuno, e permettendosi di chiamare in causa addirittura Pollicino in un afflato di poesia. Leggere il titolo di "Celentano" fa subito pensare all'Adriano nazionale, ma non a caso i suoi toni blues spiattellati su un ritmo incalzante e serrato richiamano le cavalcate che lo resero celebre, di nuovo attualizzandole seguendo un orientamento più moderno e moderato. 

Le dieci canzoni di questo "E' Difficile Trovarsi" giocano sui binari, rischiano, si prendono la responsabilità di dire cose difficili con semplicità e un estro quasi sardonico. La coerenza con cui sono state messe sul piatto, con una più che funzionale stesura della tracklist, regalano a questo pacchetto l'aspetto e il sapore di qualcosa di fresco, innovativo, arrivato al momento giusto. Le cose che vanno di moda ultimamente, certo, sono altre, ma non sarà certo questo a rendere meno gradevole un prodotto di grande livello, altrimenti si chiamerebbero tutti Thegiornalisti e non è quello che speriamo. 

giovedì 13 luglio 2017

Il Grido - Il Grido (Autoproduzione, 2017)

Specifichiamo subito: fare rock nel duemiladiciassette in Italia è talmente demodé che rischia anche di sembrare una cosa più figa di quanto lo fosse dieci anni fa. Definirsi "alternative", invece, ha perso ogni appeal. Il Grido ci provano: sferzano, picchiano, si sbracciano, scelgono suoni ruvidi, ed è sicuramente la loro forza, anche se non è solo l'impatto a fare di un disco rock un vero monolite sonoro. Servono anche le idee, e forse intitolare un pezzo "Amsterdam (Hai Una Cura Per Me?)", per alcuni - non per noi - può sembrare imbarazzante, una cosa da lasciare a J Ax per intenderci. Di fatto, in realtà, questa è una canzone con un gran tiro, ma letto il titolo avevo ragionevolmente avuto timore di sentirmi qualche trovatina per adolescenti strafatti.
Lasciandoci alle spalle questo incipit che investe questi ragazzi come la wrecking ball di Miley Cyrus ma senza una tipa nuda sopra, andiamo ad individuare il valore del disco. "Gospel per Chinaski" e "Dichiarazione d'Indifferenza" sono i brani un po' più tiepidi, diversi, con trovate anomale e derive bizzarre, per certi versi il nadir e lo zenit di questo self-titled. "Lividi" è una riuscitissima cascata stoner, "La Canzone di Merda" è un treno che ti investe a 300 km/h e trova anche il modo di riderci sopra. "Un Briciolo di Noi" ha il ritornello più catchy dell'intero lotto, ma mi viene difficile immaginarmela in radio, ed è una fortuna visto che evidentemente l'obiettivo di questi ragazzi romani è un altro: spaccare e sfasciare tutto, da veri rocker. "Con Un Soffio" prova la svolta acustica, e funziona molto bene, in particolare i feedback finali che lasciano intravedere qualche elemento più sintetico. Non mi va di tralasciare un dettaglio fichissimo: la copertina.

L'approfondimento di questa recensione, ci rendiamo conto, è forse un po' superficiale. Bisogna capire, però, che la storia della musica è fatta di innovatori, e momentaneamente, nel rock, non c'è rimasto assolutamente un cazzo da aggiungere. Poi loro, Il Grido, suonano molto bene, ricordano i primi Ministri con un bagaglio tecnico molto più ampio, o forse i primi Litfiba con un po' di modernità in più nei testi (ci mancherebbe...trent'anni dopo), e quindi ce li faremo bastare, aspettando che quelle influenze elettroniche inserite col contagocce gli permettano di esplorare un territorio un po' più attuale e dimostrare che le palle già tirate fuori qui sono pure grosse.

Lo Yeti - Le Memorie dell'Acqua (SRI Productions, 2017)

Pierpaolo Marconcini è il vero nome de Lo Yeti, musicista emiliano che ha deciso di esordire in questo artisticamente spoglio duemiladiciassette italiano con un lavoro di nove brani intitolato "Le Memorie dell'Acqua". La prima sfida durante l'ascolto è stata quella di capire se fosse una strizzata d'occhio oppure una critica all'omeopatia, ma non si tratta certo di questo: fin da subito, si percepiscono le origini rock del trentaquattrenne bolognese, ben spalmate tra Wire, Pavement e Wilco, gli elementi meno noise (lo so, è un paradosso...) dei Sonic Youth, per poi arrivare in Italia tra Mauro Ermanno Giovanardi, Moltheni, qualche sferzata più grunge - nelle intenzioni più che nei suoni (Ritmo Tribale, Estra) -  e infine aderendo a quell'obbligo morale di ogni buon progetto rock italiano che sembra essere, ultimamente, quello di avere un arco in formazione. A suo favore, in questo senso, va senza dubbio la scelta di Daniela Savoldi, violoncellista ed autrice italiano-brasiliana già al lavoro con molti nomi di chiara fama nella musica underground (Le Luci della Centrale Elettrica, Le Man Avec Les Lunettes, Mannarino) ma anche nel mondo più mainstream (Paola Turci, Nada), e che impreziosisce molto arrangiamenti a tratti spogli se pur completi e complessi nella loro rudimentalità. "Santa Madre dei Miracoli" ha un sapore folk'n'roll, quasi bucolico, distante dalle effusioni rockabilly sbarazzine e sentimentaliste che ammorbano molti progetti analoghi, e con un'ottima narrazione. Il contesto blues è qui solamente introdotto, ma viene sicuramente approfondito meglio nel breve pezzo di chiusura "Sotto Effetto della Luna", pungente ma etereo quanto basta per lasciare una scia emozionale positiva al termine del'ascolto, e chi lo sa, fare da rampa di lancio per un secondo disco che riprenda proprio da qui.
Il testo di "Anidride" è un trip che procede per immagini e metafore, e ben si attaglia all'ironia spontanea di "Rita", entrambi, questi, brani dove l'interpretazione vocale supera la qualità del songwriting strumentale. L'equilibrio tra le due parti è comunque spesso ben rispettato, ed è proprio questo a svolgere un po' la matassa durante il disco, rendendolo più leggero e digeribile. 

Esternare le proprie sensazioni non è facile, soprattutto se lo si vuole fare in musica e con un primo lavoro che potremo definire proemiale. Marconcini sembra in grado di farlo, non risultando banale, non finendo per incarnare l'ennesimo innamoramento per il turpiloquio cantautoriale, circondandosi delle persone giuste (basti pensare a Pierluigi Ballarin e al più che distinguibile contributo da lui offerto qui), facendosi una promozione non urticante ma settoriale, ricavandosi in definitiva una nicchia che lo glorifichi più che lo divori. "Le Memorie dell'Acqua" è sicuramente autocelebrativo, ma in un certo senso è questo elemento autoreferenziale a dargli pasta, grana, ricchezza di trama, sostanza. Un gran bel colpo di scena.

giovedì 6 luglio 2017

Monica Shannon - Ali (Monica Shannon, 2017)

Nella "carriera" di un ascoltatore compulsivo di musica di ogni genere e fattezza, sopraggiunge fatalmente il momento di chiedersi se il disco in riproduzione ha senso o no, se le soluzioni trovate sono originali o meno, e in caso da dove prendono spunto. Questo non viene fatto solamente per il sacrosanto dovere di tracciare delle direttive biografiche dell'artista quando si scrive una recensione, ma anche perché più si fanno numerosi gli album e i progetti discografici conosciuti, più alta è per forza di cose l'asticella dell'accettabile, del gradevole, del sopportabile. La scena italiana è ormai ridotta ad un cumulo di macerie, dove imitare male il peggiore dei Venditti è ancora una scelta commercialmente redditizia (Thegiornalisti), e in generale risulta un mondo di emulatori squallidi che non si pongono più il problema della ricerca.
Perché questa pappardella per descrivere il lavoro di una cantautrice come Monica Shannon, valida interprete dalla voce discretamente pop e uno spettro timbrico di tutto rispetto? Risposta semplice: i Cranberries sono defunti ben prima di sciogliersi, e non sono certo migliorati dopo la reunion, neanche se ci mettiamo i motivi celtici che tanto vanno di moda da quando il paese della Guinness ha iniziato ad investire in feste della birra che ci ammorbano con prezzi folli e musica Irish suonata da tutti quelli che non sono irlandesi, ad ogni San Patrizio. Freddezza e schiettezza a parte, occorre ora analizzare quanto propongono questi nove brani, di cui due cover ("Forbidden Colours" di Ryuichi Sakamoto e David Sylvain, e "L'Isola delle Fate" del meno noto Stefano Pulga), peraltro ottime rivisitazioni in particolare per l'utilizzo pienamente consapevole dell'espressività della voce per trattare temi delicati come l'omosessualità. "Butterflies in the Garden" è il momento dove le atmosfere celtiche risuonano di più, e meglio, impreziosite non tanto dal violino ma da un supporto percussivo più che degno, con incastri ritmici semplicistici ma di grande impatto, e un arrangiamento equilibrato seppur sostanzioso, un po' come in "Light". "Not So Far From Love" rammenta invece troppo i già citati Cranberries, seppur nella loro forma più smagliante (il rock di "No Need to Argue") . "Boundless Space" parla d'amore con grande coraggio e sentimentalismo, risuonando subito in testa come una bella cantilena per bambini, ed è in sostanza il pezzo più esplicitamente popolare. L'apice della vocalità di Monica si raggiunge però quando si naviga in lidi più jazz, fusi con un folk meno canonico e più tecnico, ed accade in particolar modo in "Something You Should Know", ancora una volta un brano romantico, dove spicca non solo la profondità della voce, ma anche un ottimo contributo al sassofono. 

Capiamoci, nonostante le stilettate iniziali potessero far pensare ad un disastro, il disco è ben prodotto, ben mixato e masterizzato, congeniale alle capacità della Shannon e in grado di far risaltare appieno tutte le sue caratteristiche vocali e artistiche. Non sarà nulla di nuovo, ma è fresco e realizzato in maniera impeccabile. In sostanza, se vi piacciono i generi e i riferimenti citati, fa sicuramente per voi, mentre se volete trovare materiale non derivativo e totalmente nuovo dovrete rivolgervi giocoforza ad altri interpreti. Seguiremo comunque gli sviluppi della carriera di quest'artista che sicuramente sa raccontare qualcosa con la sua voce, come un cantautore dovrebbe ancora saper fare senza parlare per forza di social network, droghe e gossip.