KOBAYASHI IN ABSENTIA non si esprime comprimendosi sui vostri altoparlanti, ma è un invito a tornare ad un ascolto più reale e dinamico della musica e dei suoni. Se non avete problemi a riguardo alzate il volume del vostro impianto stereofonico.
Quasi naturale era aprire la recensione con questa descrizione che la band stessa da del progetto all'interno della confezione. In effetti i Kobayashi (all'anagrafe Flavio Andreani, Nicola Bogazzi e Andrea Marcori) non fanno musica come il novantanovepercento di voi intenderà, ma ha deciso di giocare con i suoni come fossero plastilina, distorcendoli, modificandoli, piegandoli al loro volere e soprattutto facendo uso di sintetizzatori, vocoder, theremin, marimba e glockenspiel, unendo quindi qualche strumento più “vintage” (ma comunque poco comune) alla nuova guardia della tecno-musica, qui usata in maniera definibile quasi impropria.
Il primo pezzo, “Air Motel” esplode dopo quattro minuti di noise puro in qualche distorsione, il primo cenno di presenza di alcune timide chitarre mentre fischi quasi di vento in galleria si percorrono in forte effetto stereo. Apprezzabile “ad alto volume”, come suggeriscono. Non c'è traccia in questo primo brano dai sapori lontanamente post-rock da camera del sound molto “abrasivo”, come lo definisce l'etichetta stessa, che li contraddistingue, anche se si percepisce un tentativo di crescendo che non è mai finalizzato, ma resta sempre lì sul filo di esplodere, quasi a voler creare tensione (o confusione) nell'ascoltare più disattento, quello che cerca le soluzioni più prevedibili. Ma a sette minuti un nuovo cambio, nuovo tempo, nuovi riff. Si crea quell'effetto di spiazzamento che perdurerà anche negli altri tre pezzi. In particolare, “Vendramin?”, un viaggio electropop quasi, anche se la batteria non è sintetizzata come una definizione così farebbe presumere, senza punti di riferimento, in continua evoluzione. Le sue linee di basso e di synth precise e mai banali, che si sovrappongono man mano che il pezzo continua creano quasi un senso di straniamento, la rendono un vero capolavoro. Ma non osate spegnerlo prima della fine, o vi perderete le poesie di Laura Pugno, ospite d'onore in questo “In Absentia”.
Ma diciamolo, il brano più interessante di questo disco non esiste. Nel senso che non va cercato. E' un lavoro da digerire interamente, come un'unica opera d'arte (non per niente suonato come “evento collaterale” alla Biennale di Venezia nel Giugno del 2009). Scoprirete in “Détournement”, col suo inizio molto catchy, che continua poi con un giro basso più o meno tirato per tutto il pezzo, salvo alcuni guizzi di “sperimentalismo” che ne annebbia l'orecchiabilità, che non sapete mai cosa aspettarvi da questi Kobayashi. Per ogni cambio di tempo un sintetizzatore in più arriva per stupirvi, il suono annacquato da tastiere flebili che si aggiungono quando pensavate che sarebbe arrivato uno stacco vi può lasciare senza parole. In sé il brano è molto solido, fatto di un corpo unico, ma le innumerevoli variazioni sul tema lo rendono veramente magnifico e teso.
Il disco si conclude con una canzone dall'inizio vagamente post-rock, nel vero senso del termine, crescendo, con numerosi cali di aggressività centrali, fino all'esplosione finale, quasi come una tempesta che sorprende la gente che prima si stava godendo il sole più caldo e luminoso mai visto. Le chitarre si intrecciano in maniera perfetta, quasi sinuosa, nelle distorsioni che puntualmente richiamano Mogwai e gruppi analoghi, senza però riferimenti precisi e senza mai dare l'idea di scopiazzare. Insomma i Kobayashi sono semplicemente i Kobayashi.
Ma diciamolo, il brano più interessante di questo disco non esiste. Nel senso che non va cercato. E' un lavoro da digerire interamente, come un'unica opera d'arte (non per niente suonato come “evento collaterale” alla Biennale di Venezia nel Giugno del 2009). Scoprirete in “Détournement”, col suo inizio molto catchy, che continua poi con un giro basso più o meno tirato per tutto il pezzo, salvo alcuni guizzi di “sperimentalismo” che ne annebbia l'orecchiabilità, che non sapete mai cosa aspettarvi da questi Kobayashi. Per ogni cambio di tempo un sintetizzatore in più arriva per stupirvi, il suono annacquato da tastiere flebili che si aggiungono quando pensavate che sarebbe arrivato uno stacco vi può lasciare senza parole. In sé il brano è molto solido, fatto di un corpo unico, ma le innumerevoli variazioni sul tema lo rendono veramente magnifico e teso.
Il disco si conclude con una canzone dall'inizio vagamente post-rock, nel vero senso del termine, crescendo, con numerosi cali di aggressività centrali, fino all'esplosione finale, quasi come una tempesta che sorprende la gente che prima si stava godendo il sole più caldo e luminoso mai visto. Le chitarre si intrecciano in maniera perfetta, quasi sinuosa, nelle distorsioni che puntualmente richiamano Mogwai e gruppi analoghi, senza però riferimenti precisi e senza mai dare l'idea di scopiazzare. Insomma i Kobayashi sono semplicemente i Kobayashi.
Una recensione così lunga vuole intendere solo che su un disco come questo da dire ce n'è tanto, e conto di aver fatto un ottimo lavoro perlomeno nel riassumere tutto quello che ci sarebbe da dire (poi sul contenuto parola libera al lettore). Quasi come un trattato storico o una lunga dissertazione filosofica si potrebbe parlare per ore di un'opera come questa, ma una recensione deve essere sintetica e così si è tentato di fare. I tre toscani meritano una grande lode per aver prodotto uno dei dischi più innovativi ed artisticamente validi dell'anno, con l'unica nota di demerito, questa non da imputare ad un loro errore, che il disco non sarà apprezzato da tutti, soprattutto ai fan del rock più melodico e da classifica. Ma sono sicuro che non era questo il loro target. Fantastico.
Voto: 9
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