Ogni tanto bisogna ammettere il fallimento delle cose che ti stanno più a cuore. La musica, un'arte che nessuno di "importante" considera tale, un insieme di diverse componenti che una volta unite sanno convogliare sentimenti, emozioni, storie, e chissà cos'altro a persone che quasi solo in questi casi si dimostrano tanto ricettive. Un insieme di diverse componenti che si stanno sgretolando, ed è innegabile.
Sono passati gli anni in cui tutti i generi avevano una loro fetta di pubblico, caratteristiche proprie, àmbiti propri, locali propri. La globalizzazione ha colpito anche questo. Il punk non è più punk, il grunge, il metal, il pop non sono più quello che dichiaravano di essere, o di voler essere del rap non parliamone. Tutto è fruibile da tutti, tutto è pop. Se Fare il Cantante, unico pezzo che reputo accettabile della band italiana Le Strisce, è un modo perfetto di dipingere la vita dell'artista italiano, lontano da quando il musicista viveva in maniera molto bohemienne, tra droga, sesso e il proverbiale rock'n'roll (ci si ricorda sempre e solo degli eccessi dei soliti noti, Sex Pistols, Rolling Stones, ma tutti gli altri dove li lasciamo? Janis Joplin? Jimi Hendrix? John Bohnam?), sempre più omologato e adagiato sul lusso che diventa appannaggio di pochi. L'industria mangia tutto, dal basso e dall'alto. La mafia musicale, quella degli agenti, del booking, dei promoter, dei talent scout, del talent show, della TV mainstream, dei discografici, delle riviste à-la-Rolling Stone, decide per tutti, anche per chi detiene diritti di guadagno e di immagine che ormai non significano più niente. Ad organizzare, gestire, decidere, ci pensano loro. Spesso decidono anche cosa devono vestire gli artisti, o cosa devono dire sul palco, le setlist dei concerti, le date d'uscita dei dischi. Un rinvio di una data d'uscita che sul calendario della major ha un significato economico, magari opposto a quello del povero artista che della musica non ci campa più, al contrario di quello che l'immaginario collettivo vuole essere "giusto" per un musicista, sempre dipinto come un riccone, sprecone, pronto a mostrarsi in giro agghindato come un pazzo e con la sua Lamborghini gialla, magari con qualche neon di sotto. Non siamo nell'America dei rapper, ma il rap (o meglio l'hip hop) da una chiave di lettura molto importante anche qui. In Italia tra i prodotti più anomali della mafia musicale nel genere del rap ci sono Mondo Marcio, Marracash, Nesli e soprattutto suo fratello, il buon Fabri Fibra. Dico "buon" perché prima di arrivare al successo era un rapper di grande nomea nel circuito underground prima marchigiano e poi milanese, ma dopo essersi venduto all'Universal ha pensato bene di correre ai ripari, passando dal suo linguaggio violento, dissacrante, irrispettoso di tutto e tutti, a un linguaggio graffiante ma omologato, parlando di star system, veline, personaggi dello spettacolo diffamati solo perché ormai "è di moda" (per non far mai tramontare la moda del dissing, forse), denunciando a volte lo stesso sistema che ha accettato integralmente per guadagnare qualche euro di più. Il fatto che anche i prodotti stessi di questa grande organizzazione criminale ne parlino senza uscirne è la più grande sconfitta della musica italiana ed internazionale, dove ci si compromette per i soldi. E non si tratta di "vendersi", come accusano alcuni detrattori del settore, per fare una soundtrack o un featuring, ma di "svendersi", un termine ben diverso per la spiegazione del quale vi rimandiamo al buon Zanichelli 2011, che dovrebbe essere in uscita.
Un'altro segno evidente del declino è il tracollo del compromesso. Una volta fare musica politicizzata significava guadagnarsi una forbice di pubblico abbastanza specializzata ma fedele, perché impegnandoti in cause che loro condividevano, esplicitando e musicando punti di vista in cui loro si riconoscevano, avresti reso un'arte, che pertanto tende, per sua natura, ad essere più decorativa che contenutisticamente valida, veramente utile a raccontare qualcosa, a cambiare qualcosa. In questo senso aveva uno scopo quasi missionario, ma non fraintendetemi. L'impegno sociale della musica che è passato dai sessantottini, alla storia nera dell'Italia (chi ha guardato indietro agli anni del fascismo, al terrorismo rosso e nero degli anni settanta ed ottanta, all'Anonima Sequestri, alla mafia, ecc.) alle condizioni esasperanti della politica italiana (e non solo) odierna, si vede oggi esaurito in piccole canzonette simil-rivoluzionarie, solo perché è di moda etichettarsi tale così come essere emo, gabber, rapper, skater, fascista, comunista, o tutto il resto. Incredibile, ma vero. Dove ancora una volta i veri portavoce della cultura, gli artisti e gli organizzatori di eventi in associazioni, locali, festival, sono sempre quelli, le facce note dell'Italia di sinistra che però si vende all'economia facile del risparmio, dove ad ogni concerto rischi di essere schiaccato sotto al palco montato male per tagliare le spese. Dove la crisi si è portata via anche la nostra fottutissima musica.
Se fare musica significa questo, forse erano meglio i tempi in cui per divertirsi le band lanciavano i televisori degli alberghi sulle macchine di passaggio mettendo tutto sul conto delle case discografiche. Insieme alle spese per l'eroina. Bei tempi quelli, vero Metallica?
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