venerdì 29 gennaio 2010

No Seduction - S.P.U.P.P.A. (autoprodotto, 2009)

I No Seduction, trio della provincia di Venezia (Chioggia per la precisione), rilascia un EP dal titolo ironico, “S.P.U.P.P.A”, sparando in faccia al potenziale ascoltatore appena cinque tracce (più cinque remix) di dance-punk come qualche band inglese già ha fatto, ma con un approccio minimale e volutamente “simpatico” che stupisce. A chi ha ascoltato i Klaxons o i nostri connazionali Trabant, un po' di electro rock come si deve, sempre dal Triveneto.
C.I.A., primo pezzo, è una ballata dal piglio molto commerciale, che difficilmente ci si toglierà dalla testa. Interessante anche nei due remix, anche se la migliore resta l'originale suonata direttamente dai tre. Si continua con Spend Money, Stay Cool che inizia con un ritmo semplice molto synth-pop, per poi prorompere in quell'electro rock caro ai già citati triestini, suonando in qualche frangente vicini anche ai Bloc Party. Paragoni a parte, un pezzo con un tiro pazzesco. Lo stesso potremo dire di Fried Fish, con una linea vocale che si insinua nella memoria in maniera indelebile. Tanto di cappello per We Won't Ever Find A Job e 1 2 3 4 5 6 7 8, dove la definizione di dance-punk all'inglese non si potrebbe dire più appropriata. Due brani ballabilissimi, complici comparto ritmico e linea vocale eccezionali e un apporto assolutamente azzeccato di sintetizzatori e distorsione. I remix sono un po' troppo dance, e rischiano di far travisare il senso di un EP come questo, però si riconosce una certa qualità nella rielaborazione dei brani. Solo per fanatici.

I No Seduction probabilmente non puntano neanche troppo in alto, ed ecco perché si meritano molta attenzione. Sanno le loro potenzialità e le mettono in gioco, utilizzano gli strumenti della rete per diffondersi, e con la loro simpatia e i loro beat da panico stanno facendo ballare tutti quelli che incontrano. Meglio di così? 

Voto: 7.5 

giovedì 28 gennaio 2010

Kobayashi - In Absentia (Corasong, 2009)



KOBAYASHI IN ABSENTIA non si esprime comprimendosi sui vostri altoparlanti, ma è un invito a tornare ad un ascolto più reale e dinamico della musica e dei suoni. Se non avete problemi a riguardo alzate il volume del vostro impianto stereofonico.

Quasi naturale era aprire la recensione con questa descrizione che la band stessa da del progetto all'interno della confezione. In effetti i Kobayashi (all'anagrafe Flavio Andreani, Nicola Bogazzi e Andrea Marcori) non fanno musica come il novantanovepercento di voi intenderà, ma ha deciso di giocare con i suoni come fossero plastilina, distorcendoli, modificandoli, piegandoli al loro volere e soprattutto facendo uso di sintetizzatori, vocoder, theremin, marimba e glockenspiel, unendo quindi qualche strumento più “vintage” (ma comunque poco comune) alla nuova guardia della tecno-musica, qui usata in maniera definibile quasi impropria.
Il primo pezzo, “Air Motel” esplode dopo quattro minuti di noise puro in qualche distorsione, il primo cenno di presenza di alcune timide chitarre mentre fischi quasi di vento in galleria si percorrono in forte effetto stereo. Apprezzabile “ad alto volume”, come suggeriscono. Non c'è traccia in questo primo brano dai sapori lontanamente post-rock da camera del sound molto “abrasivo”, come lo definisce l'etichetta stessa, che li contraddistingue, anche se si percepisce un tentativo di crescendo che non è mai finalizzato, ma resta sempre lì sul filo di esplodere, quasi a voler creare tensione (o confusione) nell'ascoltare più disattento, quello che cerca le soluzioni più prevedibili. Ma a sette minuti un nuovo cambio, nuovo tempo, nuovi riff. Si crea quell'effetto di spiazzamento che perdurerà anche negli altri tre pezzi. In particolare, “Vendramin?”, un viaggio electropop quasi, anche se la batteria non è sintetizzata come una definizione così farebbe presumere, senza punti di riferimento, in continua evoluzione. Le sue linee di basso e di synth precise e mai banali, che si sovrappongono man mano che il pezzo continua creano quasi un senso di straniamento, la rendono un vero capolavoro. Ma non osate spegnerlo prima della fine, o vi perderete le poesie di Laura Pugno, ospite d'onore in questo “In Absentia”.
Ma diciamolo, il brano più interessante di questo disco non esiste. Nel senso che non va cercato. E' un lavoro da digerire interamente, come un'unica opera d'arte (non per niente suonato come “evento collaterale” alla Biennale di Venezia nel Giugno del 2009). Scoprirete in “Détournement”, col suo inizio molto catchy, che continua poi con un giro basso più o meno tirato per tutto il pezzo, salvo alcuni guizzi di “sperimentalismo” che ne annebbia l'orecchiabilità, che non sapete mai cosa aspettarvi da questi Kobayashi. Per ogni cambio di tempo un sintetizzatore in più arriva per stupirvi, il suono annacquato da tastiere flebili che si aggiungono quando pensavate che sarebbe arrivato uno stacco vi può lasciare senza parole. In sé il brano è molto solido, fatto di un corpo unico, ma le innumerevoli variazioni sul tema lo rendono veramente magnifico e teso.
Il disco si conclude con una canzone dall'inizio vagamente post-rock, nel vero senso del termine, crescendo, con numerosi cali di aggressività centrali, fino all'esplosione finale, quasi come una tempesta che sorprende la gente che prima si stava godendo il sole più caldo e luminoso mai visto. Le chitarre si intrecciano in maniera perfetta, quasi sinuosa, nelle distorsioni che puntualmente richiamano Mogwai e gruppi analoghi, senza però riferimenti precisi e senza mai dare l'idea di scopiazzare. Insomma i Kobayashi sono semplicemente i Kobayashi.

Una recensione così lunga vuole intendere solo che su un disco come questo da dire ce n'è tanto, e conto di aver fatto un ottimo lavoro perlomeno nel riassumere tutto quello che ci sarebbe da dire (poi sul contenuto parola libera al lettore). Quasi come un trattato storico o una lunga dissertazione filosofica si potrebbe parlare per ore di un'opera come questa, ma una recensione deve essere sintetica e così si è tentato di fare. I tre toscani meritano una grande lode per aver prodotto uno dei dischi più innovativi ed artisticamente validi dell'anno, con l'unica nota di demerito, questa non da imputare ad un loro errore, che il disco non sarà apprezzato da tutti, soprattutto ai fan del rock più melodico e da classifica. Ma sono sicuro che non era questo il loro target. Fantastico. 

Voto: 9 

mercoledì 27 gennaio 2010

Fish and Clips #3

Salve a tutti.
Nel numero di oggi di Fish and Clips, rubrica arrivata già al suo terzo numero, postiamo cinque video casuali che l'autore (non mi va di nominarmi sempre...) ritiene "interessanti". Non sono video sconosciuti per cui non tacciatemi di banalità. Spero vi piacciano. Ecco un po' di nomi e link. L'embed è solo di un video per non intasare troppo il layout. Siamo per il risparmio.

Beastie Boys - Sabotage
Blur - MOR
The Verve - Bitter Sweet Symphony
Verdena - Isacco Nucleare (fan video) 

Radiohead - Paranoid Android



I registi dei video riportati meritano una menzione a loro volta. "Sabotage" dei Beastie Boys è stato diretto dal regista americano Spike Jonze, che tra gli altri videoclip degni di nota ha diretto anche Weapon of Choice di Fatboy Slim e Feel the Pain dei Dinosaur Jr. MOR dei Blur invece è stato girato da John Hardwick, che ha lavorato anche con Bluetones, Keane, Travis, Arctic Monkeys e per la versione due del video di The Saint degli Orbital (guardatelo).

martedì 26 gennaio 2010

Palkosceniko Al Neon - Disordine Nuovo (BJS Autoproduzioni/Box Populi, 2010)


Qualcuno ha detto che in Italia non esiste ricambio generazionale. Quest'idea effettivamente è uno stereotipo che viene aiutato a riprodursi anche dalla politica, che più che mai rappresenta il prevalere dei “soliti noti” e la sottomissione dei giovani. Ma nella musica la situazione com'è? In Italia l'attivismo musicale è passato tra i testi di cantautori (De André, Guccini, Gaber, ecc.), le scene punk “ribelli”(Banda Bassotti, Los Fastidios, i più orecchiabili Punkreas), penetrando qualche volta nel metal e nella commerciale. I Palkoscenico al Neon, di Roma, suonano come il giusto punto d'incontro tra tutto questo. La cultura politica e la grinta punk dei Punkreas (in frasi come “il terrore fascista non smette”) con basi musicali punk metal e sonorità tra il crossover e il thrash, pochi assoli, tanta potenza, testi impegnati e assolutamente di parte, senza paura di dire la propria. In sostanza, “Disordine Nuovo” è un disco in cui convergono perfettamente il piano ideologico e quello artistico della band.
Ogni brano rappresenta una sferzata d'aggressività, sia per il cantato e le parole (per lo stile paragonabili in qualche frangente ai sempre nostrani Linea 77) che per le grosse quantità di distorto che riempie ogni pezzo, con qualche passaggio che ricorda addirittura vecchie glorie metal come i Pantera (l'inizio di Lungo la Strada, alcuni riff in A Un Passo Da Me). Incubi rappresenta uno dei pezzi più potenti dell'opera, con una parte finale veramente d'impatto, di quelle che ti lasciano con un pungente senso d'interesse diretto alle esecuzioni live dei ragazzi, che chi scrive non ha avuto la fortuna di sentire. Tutti i testi sono storie a sé, dirette a temi sociali come la prigione, i più deboli, le persone in difficoltà. Lo stesso gruppo ammette che l'idea di fondo del disco è che questo mondo è dominato dalla massoneria, dalla religione e dal potere (idee di per sé facilmente collegabili l'una all'altra). Più che un'idea, un dato di fatto.
Valore musicale, ma anche “culturale”, quindi, in questa musica. Agli ascoltatori “dell'altra parte” che non gradiscono sentire i testi che non li riguardano più da vicino l'unico invito è quello di aprire gli occhi, e dare una chance ad una band che comunque ha voglia di spaccare e comunicare qualcosa. E forse le persone che hanno veramente bisogno di sentire le parole dei Palkosceniko al Neon sono proprio quelle che a primo impatto storcerebbero il naso. Un ottimo disco, di sicuro impatto, che si apprezzerà sicuramente nei concerti della band. 

Voto: 7.5 

lunedì 25 gennaio 2010

Francesco Guccini Live @ Padova 22 Gennaio 2009



Davanti a un mostro sacro come Francesco Guccini le generazioni scompaiono, con loro le differenze d'età e la storia che hai alle spalle diventa semplicemente una graziosa cornice alla grande poesia contenuta nei suoi testi. Settant'anni sul groppone e la voglia di divertirsi e di divertire come quella di un ragazzino, forse un attitudine un po' più “giovanile” per stare al passo con chi lo segue, qualche anzianotto e qualche famiglia con bambini nel pubblico a suggellare quell'aura di “assenza di tempo” che solo il cantautore modenese può dare.
Musicisti come Ellade Bandini alla batteria, Juan Carlos Biondini (il celebre Flaco) alla chitarra e Vince Tempera alle tastiere, ti garantiscono arrangiamenti ed esecuzione magistrali, così come il clima assolutamente caloroso e quasi “casalingo” che i “gucciniani” del pubblico sanno creare non può che migliorare l'atmosfera di un concerto già di per sé molto intenso. Nella scaletta non mancano le hit senza tempo La Locomotiva, in chiusura, Canzone per un Amica e Dio E' Morto, tra le poche canzoni in cui il buon vecchio Francesco si diletta ancora alla chitarra acustica. Le migliori per intensità live sicuramente la recente Don Chisciotte, Non Ci Saremo e gli inediti Il Testamento del Pagliaccio e Su In Collina, dedicata ad alcuni personaggi realmente esistiti della Resistenza bolognese. Un'esecuzione vocale notevole nonostante l'età, con poche imprecisioni nonostante l'approccio quasi d'improvvisazione che il cantautore tenta nel cantare i suoi brani, che rischia di tanto in tanto di mandare fuori tempo i musicisti. Ma con i nomi di cui sopra è impossibile, e il risultato è a dir poco eccezionale.
Spazio anche a qualche chiacchierata solitaria, sulla storia dei brani, sulla nostra situazione politica, freddure sulla statura di Brunetta. Insomma, un Guccini in grande stile, che non si stanca davvero mai di fare ciò che più che un lavoro sembra una vocazione (avevate qualche dubbio?) e che viene subito dal pubblico come il comportamento più naturale di una figura paterna, che con oltre quarant'anni di carriera ha fatto cantare e commuovere tutte le generazioni che ci sono passate, parlando non solo di politica ma anche di temi che toccano da vicino le vite di tutti. E questa sera, qualche lacrima, a qualcuno, sarà anche scappata. Francesco, essenzialmente, il miglior cantautore italiano ancora vivente. 


* foto di Martina Milan 

sabato 23 gennaio 2010

Simona Gretchen - Pensa Troppo Forte (Disco Dada Records, 2009)



Il panorama cantautorale italiano è, secondo i meno esperti, circoscritto a pochi nomi. I vecchi classici come Battisti, De André, Guccini, Gaetano, De Gregori, Tenco e Gaber (tra gli altri), e i nuovi giovani che si stanno aprendo una strada in questa categoria, in primis Vasco Brondi (che verrà citato altre volte in questa recensione). Si ignora una scena più sotterranea, con potenzialità più “complete” e possibilità di espressione praticamente infinite, figli delle porzioni di società da cui provengono (basti pensare a cosa racconta Dario Brunori nel suo primo disco post-Blume). Simona Gretchen da raccontare ne ha tante. Con una sincerità che, fusa con una rabbia giovanile dall'animo adolescenziale ma abbastanza matura da risultare “adulta” non solo nel sound, spiazza l'ascoltatore anche al primo “incontro”, ci consegna undici brani di imprescindibile valore artistico. Musicalmente vicina a Carmen Consoli e alla tradizione italica menzionata sopra, scrive testi a metà tra ira e lucidità (Cera), tra poesia e diario personale (Due Apprendisti), con riferimenti piuttosto frequenti alle esperienze di vita e agli stati di disagio che murano la via all'uomo davanti ad alcune situazioni che tutti possiamo capire e condividere (testi impegnati come O Nostre Pelli e Ieri ne sono un esempio lampante).
L'anima del disco è rock, anche se musicalmente i toni sono sempre piuttosto pacati, esprimendo tensione solo in pochi rari episodi come nella già citata Ieri e tramite la distorsione leggera ma graffiante di Fockus, dove spicca una rabbia paragonabile a quella di Brondi e le sue Luci della Centrale Elettrica (e nondimeno al suo mentore Canali). Un confronto mica da poco, nonostante si possa considerare il songwriting di Simona molto più profondo (a livello di testi e tematiche) e più originale anche musicalmente, utilizzando una gamma di accordi e di suoni molto più vasta del giovane ferrarese.
La Gretchen ha già ricevuto una discreta attenzione dalla critica e questo disco ne è una conferma assoluta, una tela da pittore scarabocchiata da parole messe in fila con una violenza verbale degna di nota e frutto di una voglia di dire la propria che ha pochi rivali in questa scena italiana che, per quanto riguarda la cantautorale, si sta ampiando notevolmente, complice magari questo periodo di crisi. Disco bellissimo. 
Voto: 8.5 

venerdì 22 gennaio 2010

Ok Go - Of The Blue Colour Of The Sky (Capitol Records, 2010)


Se siete di quelli che giudicano un gruppo dal singolo di debutto o dall'estetica, passate parola. Gli OK GO non fanno per voi. Il panorama indie inglese (americano se parliamo di loro) partorisce sempre progetti interessanti impacchettati già per passare di moda, ma gli OK GO di QUESTO disco non fanno certo parte di quel gruppetto. Se parlassimo del periodo “tapis roulant”, seppur buono, saremo ancora in quell'ambito abbastanza “indie rock insipido” da gustare solo se sei un lettore di NME, ma qui si inizia a sperimentare. Non come hanno fatto gli Strokes per il terzo disco. Di più, molto di più.
Il singolo, WTF?, in apertura di disco, spiazza immediatamente. Il gruppo è completamente cambiato. Poco commerciale per essere uno degli estratti, ma con un groove da paura (un cinque quarti come non se ne sentivano da tempo nelle chart), anacronistico, elegante. Salti nel passato continui (All Is Not Lost e Back From Kathmandu), intermezzi da country del triste cantastorie di turno (Last Leaf), giochi di vocoder neanche troppo aggraziati (Before the Earth Was Round). L'unico pezzo che si avvicina al vecchio stile della band è Needing/Getting, anche se non contiene nulla di quel power pop fin troppo melodico da essere ricordato. In effetti brani come questi ci fanno capire dove sta la differenza: i coretti quasi beatlesiani, i tempi più complessi, una struttura generalmente molto studiata, suoni incredibilmente pieni. Tutto quadra. Anche la semi-elettronica assolutamente fuori dal tempo (citiamo i Bluvertigo su un disco americano, eh beh?) di White Knuckles e End Love stupisce, e il caleidoscopio un po' si scalda con toni di reminiscenza nostalgica da eighties. Con i suoni dei novanta. Ma ve lo aspettavate? Psichedelia in ogni forma. A concludere In The Glass, tra Grandaddy e Wilco, duo comprensibile se pensate che poteva cantarla Bjork e sarebbe stato comunque un brano memorabile (nulla contro l'eccentrica islandese, per essere chiari).
Esperimento riuscito, azzeccato in ogni dettaglio, colpevole di venire fuori dalle menti di quattro musicisti simpatici, con una particolare attenzione ai videoclip che li ha catapultati nello star system prima ancora di poter dimostrare la loro vera vena artistica, la maturità che questo “Of The Blue Colour of the Sky” dimostra appieno. Superdisco. 

Voto: 8.5 

sabato 16 gennaio 2010

Alec Ounsworth - Mo Beauty (Anti, 2009)


Mo Beauty” è come una tavola cromatica. Un'occhiata gettata velocemente ti fa vedere qualche sfumatura, le nuances più evidenti, quelle che balzano all'occhio, ma scrutandola attentamente si riesce a cogliere qualcosa di più. Questo per dire che assimilare questo disco ed associarlo ad un giudizio non è cosa da fare al primo approccio, sebbene non si parli certo di musica complessa, progressive o roba simile. La pop-wave, come alcuni la definiscono, panorama rifiorito in America anche grazie ai lavori precedenti di Alec, ha tra i suoi maggiori esponenti proprio Ounsworth, anche se non per questo si può parlare di un disco eccellente o di quelli che “vadano” ricordati. Se lo si ricorda, sarà per gusto personale, niente di più.


E' come un filo che passa dalla nostalgia new-wave, ai giubili di Mika interrotti da Thom Yorke e la sua malinconica, psicotica e quantomai teatrale voce (in Idiots in the Rain, mentre altri echi di Radiohead risuonano in Bones in the Grave, quasi un pezzo espulso a forza dal vecchio, ormai, “Ok Computer), impregnandosi anche della tenerezza del British pop di Holy, Holy, Moses, che strizza comunque l'occhio a quelle atmosfere sudiste che si apprezzano nella cantautorale statunitense (e ancor di più in South Philadelphia). Ballad country come What Fun sono difficili da scordare, e forse si possono classificare come singoli pregni di una tristezza sommessa che raggiungerà emotivamente molti ascoltatori. Il problema è che il disco emoziona solo in alcuni frangenti, risultando spesso freddo, ed oltre al momento appena indicato sono pochi gli altri attimi di contatto musicista-ascoltatore (certo, è importante solo per alcuni...) e forse bisogna aspettare Obscene Queen Bee #2, con le sue reminiscenze eighties e nineties, per togliersi il sorriso, ancora una volta.

Il disco è vario, tra il country, la musica popolare, il brit-pop e la new wave, sempre con i contorni rock che delineano praticamente tutta la carriera di Alec Ounsworth. Non si tratta certo di un capolavoro (anche se si può parlare di una produzione ben sopra la media), ma ascoltarlo più volte può comunque far scoprire una vena compositiva notevole (non una novità), una necessità di variare il suono anche quando gli accordi di base delle canzone “sono i soliti” (grazie a fiati, tastiere, ecc.), e testi da vero rocker d'oltreoceano. Citare Philadelphia e New Orleans serve a poco quando la tua vera ispirazione è Tom Waits, dalla California (Pomona), ma non chiudiamola qui. Diamogli una possibilità, il disco ha il suo valore, al di là del già sentito che comunque pervade tutte e dieci le tracce.
E nel lettore il disco gira, gira, gira. 

Voto: 7- 

giovedì 14 gennaio 2010

Githead - Landing (Cargo Records, 2009)


I Githead sono una di quelle band che si forma dall'unione più o meno sincera di componenti provenienti da frontiere simili (mah...come gli Alter Bridge? Si ok non c'entrano proprio niente avete ragione, però ci siamo capiti), in questo caso dal mondo del post-punk. Bastava dire superband o supergruppo, ma sono troppo abusate come espressioni. Un po' come l'accezione “indie”. Si tratta di Spigel e Franken direttamente dai Minimal Compact, Colin Newman dei celeberrimi Wire e Scanner, cioè Robin Rimbaud, famoso ormai da quasi trent'anni nella scena dell'elettronica per le diavolerie elettroniche che porta sul palco (in primis cellulari, quando ancora non erano un fenomeno di massa).
Questo disco non ha di per sé niente di cui sorprendersi se non l'onestà con cui Wire e Minimal Compact si fondono, creando un prodotto volendo simile ma forte di suoni più moderni, al passo coi tempi, più vicini alle sonorità alternative che nel 2009 vanno tanto di moda anche per chi tenta di proporre ancora generi “vecchi”. Il vintage fa sempre figo. E' così che si apre l'album, con Faster, primi quattro minuti strumentali del disco, incipit ballabile ad un lavoro poco vario ma che riesce comunque a dare una visione a 360° del progetto Githead (anche per chi non ha ascoltato i tre album precedenti). E' un pop elettronico, quasi krautrock, a fare da cornice alla musica, con groove di batteria e di basso molto lineari, squadrati e che in alcuni tratti ricordano addirittura i primi lavori dei Devo (l'intro di Before Tomorrow). So che non serviva dirlo, ma occorre specificarlo: i rimandi e le reminiscenze prettamente eighties non mancano, come in Landing e in From My Perspective, che racchiude anche qualche sprazzo di new wave nei sintetizzatori molto aggraziati che ornano il brano. Riff easy-listening zero, nonostante gli schemi compositivi abbastanza semplici. Sprazzi di Stereolab negli echi della conclusiva Transmission Tower e in Lightswimmer, dove prevale, come nel resto del disco, un assetto quasi minimalista nella costruzione dei brani, senza fronzoli e con gli accenti posizionati su alcune parti che si devono, questo nelle intenzioni della band, marchiare a fuoco nella mente dell'ascoltatore.
Questo “Landing” è un disco di per sé emblematico. Va digerito con qualche ascolto ponderato e libero da stereotipi, perché etichettarlo post-punk è veramente riduttivo. Gli ingredienti sono molto più numerosi e i Githead hanno fatto un gran lavoro a trasformarli con un loro approccio personale in un prodotto valido e dall'aria nuova, nonostante le influenze affondino tutte le loro radici in percorsi seguiti particolarmente negli anni delle zeppe e dei pantaloni a zampa. Insomma, tanto tempo fa. Ormai lo possiamo dire.
Un disco apprezzabile, magari non il capolavoro che ci si aspetta da certi nomi, ma senza sbavature.

Voto: 7+

domenica 10 gennaio 2010

Them Crooked Vultures - Them Crooked Vultures (Interscope, 2009)


Un disco pieno di hype per i nomi che lo hanno composto. Un disco pieno di attrattiva, sempre per lo stesso motivo. E dopo l'ascolto, un disco figo.
I Them Crooked Vultures sono l'ennesima superband che non ha motivo di esistere ma che si fa subito perdonare appena ti spedisce in faccia tutta la potenza che sa tirar fuori (nonostante l'età media non li classifichi proprio come gli adolescenti picchiatori di turno), che di per sé è solo un nuovo disco dei Queens Of The Stone Age, soprattutto se alla batteria c'è Dave Grohl come sul vecchio Songs For the Deaf (peraltro il migliore di QOTSA proprio per l'apporto dell'ex Nirvana alle pelli). Ma le influenze che John Paul Jones al basso, e le esperienze musicali più diverse dei componenti di questa band lo rendono molto più variegato. Come in Elephants con un inizio quasi-tributo a Jack White che poi esplode in un mega tirato stoner rock dalle influenze punk, o nell'opener track No One Loves Me, Neither Do I, un classico pezzo da Josh Homme con un tiro da paura (come Mind Eraser, No Chaser, Gunman e Reptiles, e tutti gli altri pezzi del resto). Ci si stupisce di come picchia ancora Grohl, col gusto che solo lui possiede alla batteria nonostante una tecnica non proprio superba, confermandolo come uno dei musicisti più appropriati a rivestire il ruolo di rockstar nel 2010. E resta evidente che la band ha una vena compositiva notevole, anche nei brani più lunghi (come Warsaw Or The First Breath You Take After You Give Up e Spinning in Daffodils), nei rari assoli di tastiera, nei riff mai banali. Scumbag Blues è un pezzo vagamente ledzeppeliniano ma suonato con il solito piglio ultrapestato di Dave. Insomma l'album è quasi un Odissea di hard rock influenzato da stoner, heavy, punk, e chi più ne ha più ne metta, senza mai dimenticare quella vena da blues distorto del 2000 che tutte le Desert Sessions di Josh hanno sempre partorito. Un puzzle di esperienze ma soprattutto di esperienza, che conta magari alcuni difetti solo se pensiamo che non ci stanno proponendo niente da nuovo (o la lunghezza esagerata di certi brani?). Ma cosa aspettarsi da una band nata quasi da una jam session?
Disco tutto sommato, seppur senza sorprendere, imperdibile. 


Voto: 8 

sabato 9 gennaio 2010

Rec.Tangle - Heavy Maple (Melodic, 2009)


Appena si infila questo disco nel lettore CD e le prime note vibrano fuori dalle casse fino ai timpani dell'ascoltatore si ha come l'impressione di ascoltare una cover strumentale dei Radiohead. E' “Square One”, in apertura, a scandire i ritmi e lo stile dell'intero disco, quaranta minuti di musica da background, atmosferica, quasi da colonna sonora. Il progetto Rec.Tangle, nato dalla mente del compositore anglo-francese Adrien Rodes si concretizza con questo lavoro di ottima fattura, dove è una sola persona a scrivere e realizzare la musica, e a decidere quindi quali emozioni dovrà comunicare. Le prime impressioni vengono presto spazzate via dalle atmosfere più ambient di pezzi come “Balloon Ascending” e “Ethylic Fugue in Q Minor”, magari condizionati da qualche ascolto sperimentale à-la-Sigur Ròs et similia. Ma anche no. Tra arpeggi e scale che creano gradevoli armonie (la strana “The Meadow Green”), melodie più catchy che in “Seaharp” sono però fagocitate dal troppo “rumore” di sintetizzatori ed altri strumenti (notevole la varietà di suoni che viene utilizzata in questo “Heavy Maple”) e atmosfere quasi di viaggio (“Dominohead”), la sensazione d'interesse che il disco inizialmente suscita sembra svanire, complice un tipo di songwriting che tende ad evidenziare poco le varie parti e a mescolare (mélanger, direbbe un francese) tutti gli elementi di suono utilizzati, i quali, in un contesto più elaborato (magari progressivo od elettronico) avrebbero potuto essere sviluppato in maniera più personale ed interessante. E' così che un brano come “Copper Dunes” risulta insapore, privo di forma, di colore. E lo stesso discorso si potrebbe fare per altri brani.
A salvare il disco è comunque un tipo di composizione che rende onore all'artista in sé. Difficile immaginare e realizzare un album come questo da soli, probabilmente con pochi mezzi (perché non si tratta di una produzione major e i suoni lo confermano), ma sarebbe stato apprezzabile uno sforzo maggiore nel dipingere atmosfere più palpabili, più concrete. Insomma, un lavoro che come soundtrack risulterebbe semplicemente perfetto ma che da solo è destinato a sfumare nel sottofondo, senza essere ascoltato ed apprezzato con il peso che la qualità della scrittura meriterebbe. Risultati amari per grandi sforzi. Capita.
Voto: 5.5

giovedì 7 gennaio 2010

Waiting for Memories - Waiting for Memories (autoprodotto, 2009)



I Waiting for Memories sono tre giovanissimi connazionali di Milano. Strano? La capitale dell'indie italiano, come la chiamano in molti (anche se più che indie sarebbe preferibile “underground”), sforna sempre gruppi emergenti pronti per il decollo, anche se la grande hype brianzola tende a smorzarsi TROPPO in fretta. Sarà il caso anche dei WfM?
Con questo self-titled come debutto dimostrano subito una cosa: vogliono spaccare il culo a tutti, senza mezzi termini. Esplode subito Spider Web, brano d'apertura del disco, col suo ritornello che ricorda parzialmente (a noi italiani) i The Fire, ma con un accompagnamento di derivazioni punk, in senso più moderno (si insomma, Foo Fighters et similia). Si osa di più però con The Promise e Crossroads, con dei momenti in cui fa capolino qualche incursione post-punk, garage, e fortemente alternative, poi ancora in As Sweet As Honey, lontani però dagli stereotipi dell'emo e del punk da classifica che ci vogliono propinare Finley e soci/cloni. Riff sempre graffianti, una voce che ben sostiene la pienezza del suono (nonostante il disco non sia assolutamente “overproduced”) con alcuni passaggi più urlati, altri più melodici. Earth, The Sky sembra un singolo di quelle band americane più appartenenti al filone screamo o post-hardcore, come gli Underoath, con una vena melodica volutamente integrata da veri e propri balzi distorti, a confermare l'aggressività del sound evidente praticamente in tutti i pezzi (lo stesso poi in “Red Silence”). L'album si conclude con una cavalcata dal gusto molto Thrice, forse anche Silverstein (quando non strillano), In The Eye of A Storm, brano corto ma emotivamente molto coinvolgente, con alcuni arpeggi di sicuro effetto.
I Waiting for Memories non sono certo la rivelazione dell'anno, e forse nemmeno pretendono di esserlo. Non è un genere nuovo, ma in Italia si tende ad inflazionare sempre un filone troppo melodico, lasciando da parte dischi come questo, che invece meriterebbero grande attenzione (sarà anche colpa della scelta un po' esterofila della lingua inglese?). Un album completo, ruvido, quasi grezzo, probabilmente di grande impatto in concerto (che peralto tecnicamente non sembrano per niente male!). Date a questi ragazzi una chance, vi sapranno far divertire. 
Voto: 7.5 

martedì 5 gennaio 2010

IN PILLOLE #1: Quintessenza - Nei Giardini di Babilonia (Autoproduzione, 2010)

La nuova rubrica IN PILLOLE esce con il primo numero dedicato ai Quintessenza, un progetto veramente molto interessante di cui vi parla "in pillole" il nostro recensore misterioso A.B.




Un opera seria. L’unico vero melodramma di questi fottuti anni “zero”. Un opera d’arte di elevata qualità letteraria e musicale. Un viaggio mozzafiato da seguire dal primo all’ultimo secondo (consigliatamente in acido). Difficile poter cogliere tutti i contenuti nemmeno dopo quasi dieci ascolti. Credo fermamente che l’opera “Nei Giardini Di Babilonia” dei Quintessenza dovrebbe essere oggetto di studio approfondito da parte di qualsiasi musicista che si rispetti. Invece a malincuore penso, che questi artisti saranno sempre sottovalutati e poco considerati a causa della sottocultura artistica italiana. E’ in questi momenti, più di altri, che mi vergogno di essere italiano. Non ci resta che ascoltare, ulteriori commenti sarebbero superflui, ascoltate in silenzio!

Voto: 10

lunedì 4 gennaio 2010

Kiddycar - Sunlit Silence (RAI Trade, 2009)



I Kiddycar, band toscana attiva da anni ed arrivata così al loro secondo disco dopo gli onori del primo (hanno riscosso un discreto successo anche oltremanica), propone un'interessante commistione di generi che ruotano attorno al pop e all'elettronica d'autore, tra atmosfere da camera che pulsano di un cuore post-rock e shoegaze, senza mai sembrare imitazione di nessun gruppo.
La voce quasi angelica, molto soft (per usare un banale inglesismo), della frontwoman Valentina Cidda fa la spola tra inglese e francese per raccontare, con testi piuttosto intimi (e resi tali anche dall'interpretazione della cantante), quasi una storia, che si sviluppa per tutto l'album. Resa verosimile dalla musica, che cambia tono quasi per sottolineare alcuni momenti e lasciarne al caso altri, dalla partenza prettamente dream-pop di Drop by Drop, poi spezzata dall'elettronica che quasi in crescendo contamina prima la ballad You Save Me From Understanding More (simile ad alcuni lavori dei Notwist) e poi la più elettrica (in particolare dopo la prima metà) Shapeless Clocks, per lasciare spazio di nuovo al pop, questa volta con un background più vicino a certo post-rock da camera (Balmorhea?), di Another Life, con la complicità di alcuni archi veramente atmosferici. Gli accenni shoegaze, noise e post-rock continuano in Shadow Butterfly, vissuta però con un animo più facilmente accostabile ai lavori solisti di Dave Gahan (Depeche Mode) o, ancora di più, di Thom Yorke (Radiohead), e, giunti a metà disco iniziamo ad apprezzare anche il lavoro sui suoni e sulla composizione che è veramente notevole. L'altra faccia della medaglia è però un songwriting originale in relazione a questo tipo di musica, ma ripetitivo se riferito alla musica degli stessi Kiddycar. In effetti l'album manca di una freschezza che ne permetta una digestione leggera e senza rallentamenti, e superata Hungry Sky Swings On The Deep e le sue chitarre che ci ingannano sui primi accordi di essere all'interno di un disco dei Pink Floyd, ascoltiamo altri cinque brani sicuramente tutti sopra la sufficienza (in particolare la ballad-pop C'est Drole, dai toni più sostenuti, quasi ballabili) ma senza quell'effetto sorpresa che calamitava l'attenzione sulle prime note del disco. La conclusione soffusa di Light Blue Sleep, con un sottofondo di pioggia battente, è comunque azzeccata e ci lascia con un bel ricordo di questo disco, malinconico e quasi downtempo, da vivere in maniera emozionale più che musicale, perché nonostante un songwriting che evidenzia le abilità compositive di Valentina è probabile che i Kiddycar debbano puntare più in alto nei lavori futuri per non rischiare di stagnare in un genere sicuramente apprezzabile ma che va approfondito seguendo altre strade. Per ora un disco discreto e che raggiunge picchi di eccellenza solo se ascoltato in certe situazioni.
Sunlit Silence”, tutt'altro che silenzioso, ha il suo perché. 
Voto: 7

sabato 2 gennaio 2010

Cosa ci porterà il 2010?


E' arrivato il nuovo anno e del 2009 già ho scritto, e come me gli altri autori del presente blog, ciò che ho apprezzato e cosa invece mi ha deluso nel panorama delle uscite musicali in ambito rock e dintorni.
Come per ogni anno che comincia gradirei mettere per iscritto quali sono le mie aspettative, musicalmente parlando, così magari anche chi legge può commentare e dire cosa gli piacerebbe sentire o magari vedere recensito su queste pagine.

Cominciamo dai live dato che ho appreso in questi giorni che avremo in Italia gli AC/DC (in maggio saranno a Udine) e che non si fermeranno i Pearl Jam durante il loro tour europeo.
Mi piacerebbe tornassero i Coldplay, che quest'anno me li son persi, o che passassero i Creed anche se per ora non ho trovato nuove in tal senso.
Ci sono invece date certe per i Muse e Mark Knopfler che arriveranno in estate rispettivamente con il “Revelations Tour” e con il “Get Lucky Tour” mentre faranno due concerti (6 agosto a Torino e 8 ottobre a Roma) gli U2 dopo il tutto esaurito di quest’anno.
Ritorno importante sarà anche quello dei Pixies, pietre miliari del rock indie a stelle e strisce, che saranno a Ferrara il 6 giugno: una bella occasione per vedere uno dei gruppi che hanno influenzato gente come i Nirvana e, più in generale, tutta quella scena di grunge e alternative rock nato negli anni novanta.
Per gli amanti del metallo arriveranno anche i Mastodon, questa volta con un proprio tour e non di spalla a qualche mostro sacro (leggi Metallica ad esempio), per portare in giro “Crack the Skye”: un album che non si ferma al metal ma che spazia anche nel progressive e nella psichedelìa.
Notizia interessante è anche quella, sempre restando in argomento di concerti, che i Litfiba si riuniranno per un pugno di date il prossimo aprile (Milano, Firenze, Roma e Acireale), anche se al momento non ci sono rumors riguardo un nuovo disco.
Staremo a vedere!

Per quanto riguarda le uscite discografiche mi piacerebbe sentire un nuovo disco targato Tool, ma ho paura che anche questa volta faranno aspettare a lungo i loro fans.
In rete ho invece trovato anticipazioni sulle uscite di Stereophonics (gennaio) e HIM (febbraio).
L’album dei primi si intitolerà “Keep Calm & Carry On” , mentre il nuovo della band finlandese si chiamerà “Screamworks” e verrà anticipato dal singolo “Heratkiller”; il loro tour partirà a marzo dalla Gran Bretagna.
L’artiglieria pesante si farà sentire con Deftones (in uscita a febbraio il loro “Eros”), Soulfly (“Omen” in arrivo dalla Roadrunner ad aprile), Limp Bizkit (“Gold Cobra” in stampa a maggio) e nientemeno che Rob Zombie, che uscirà a febbraio con il nuovo lavoro che si annuncia ricco di ospiti.
A fine gennaio poi si tornerà a parlare di Beatles (è di questa fine 2009 il disco dal vivo di Paul McCartney) perché uscirà per la Universal un nuovo lavoro di Ringo Starr.

E in Italia?
In Italia si parla di Pino Scotto (!!!) perché sembra sia in studio per registrare un nuovo album insieme a misteriosi quanto interessanti ospiti…
Di italiano non ho trovato altro in ambito rock, ma mi auguro emerga qualche realtà nuova che non arrivi dai soliti talent show, che a mio parere servono solo a far pubblicare brani ad autori di secondo piano che altrimenti dovrebbero andare a lavorare per davvero.
Magari uscisse anche qualcosa di Afterhours, Marlene o Subsonica, gruppi italiani considerati alternativi (ma alternativi a che?) ed eterni emergenti malgrado abbiano alle spalle ormai anni di successi.

E per concludere prego (per quanto conti la mia opinione) gli artisti mainstream di qualunque nazionalità a non pubblicare cover inutili solo per vendere dischi altrimenti vuoti di idee e contenuti: prendetevi un anno sabbatico per far surf come fa Eddie Vedder tra un disco e l'altro e forse qualche buona idea verrà anche a voi che suonate “Personal Jesus” in mille salse.

venerdì 1 gennaio 2010

Appaloosa - Savana (Urtovox, 2009)



La savana degli Appaloosa è un ambiente molto ospitale. Altamente diversificato. Ci possono convivere le specie più diverse, all'interno di alcune condizioni che bisogna riconoscere per la sopravvivenza. L'elettronica, il funk, il noise, l'alternative. Sono le premesse per costruire un sottobosco dai toni vivaci, e la costruzione è iniziata da anni. E in questo loro ultimo lavoro, tra le piante e le bestie di questo strano habitat, fanno capolino nove brani, della durata media di quattro minuti l'uno e dai toni molto, davvero molto vari.
All'interno della complessità della composizione dei brani si denota un filo comune nel basso sempre potente e preciso, che collega tutte le varie sfaccettature del disco con l'orecchiabilità dei riff che proietta dritti sullo schermo piatto degli ascoltatori. La traccia d'apertura, Minimo, ne è un esempio assoluto, con i suoi quattro minuti di follia elettronoise, ballabile al punto giusto da non sembrare troppo pop. Chinatown Panda, sempre con un giro di basso ritmicamente molto coinvolgente, ricrea bene con suoni da vera giungla l'ambiente che questo disco sembra voler rappresentare (come nella title-track Savana, un pezzo gutturale, quasi da soundtrack, dove però i rumori della foresta continuano per tutto il brano, diventando indistinguibile elemento del coriaceo sfondo musicale di questo strano episodio). Il disco è quasi interamente strumentale, con la voce che compare, anche se in maniera piuttosto timida, solo in due brani, tra cui Mons Royal Rumble, dove, lo si può dire anche piuttosto schiettamente, era anche evitabile (la canzone è di per sé completa anche così). Andrea Appino degli Zen Circus presta la sua voce in Glù, piccolo angolino rock del disco, composto di sei minuti di pestone riservati al finale shock che potremo gradire sicuramente anche nelle setlist dei loro live. Ottimi i toni quasi hardcore delle chitarre e della batteria dopo la metà e gli spunti punk del secondo quarto di pezzo (non vi ricorda il Teatro degli Orrori?). Ritmi più sostenuti in Genny, già ascoltabile in anteprima sul loro MySpace da tempo, in cui i livornesi si avvicinano all'elettronica più movimentata di band straniere come gli Holy Fuck, punto di riferimento di molti negli ultimi tempi. Qualche accenno al prog spazza via la prima metà di Tg, prima della sezione centrale che sancisce la calma definitiva del pezzo prima della martellata conclusiva. Il groove, sempre sostenuto principalmente dal basso, parte con una sgommata verso il traguardo in Civilizzare, una vera e propria cavalcata di funk che si accende all'improvviso; l'elettronica riproposta con questi suoni, più grossi e più rock, sa essere veramente interessante. E' forse il pezzo più riuscito del disco.
Gli Appaloosa si sono dimostrati band valida e quantomai indispensabile nel panorama underground italiano già con il lavoro precedente (e i travolgenti live in cui lo hanno suonato), e questo “Savana” conferma la loro accentuata vena compositiva, spietata ed egocentrica, puntuale ed originale (con l'eccelsa produzione dell'ormai collaudatissimo ed onnipresente Giulio Favero). Una band che si potrebbe benissimo considerare punto di riferimento di una scena che in Italia non ha mai avuto un grande sviluppo e che forse potrebbe individuare in loro il ruolo di “iniziatori”.
Tutti in viaggio verso la savana degli Appaloosa.  

Voto: 8+