Questa volta, al quinto numero di Fish and Clips, vi presentiamo il nuovo video, appena terminato, dei DEVOCKA, nota band ferrarese.
Il pezzo si chiama "Corri" e la regia e il montaggio sono curati dal cantante della band, Igor Tosi.
Il loro disco, uscito nel 2009, intitolato "Perché Sorridere" è stato recensito per Good Times Bad Times. Questo il link.
Alla prossima.
venerdì 30 aprile 2010
giovedì 29 aprile 2010
Maggio ftw
Non avete niente da fare a maggio, lo so. Vi aiuto io a reperire qualcosa, in questa stanca melmosa Italia.
30/04/2010 - TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - Bologna
30/04/2010 - PUNKREAS - Roncade (TV)
01/05/2010 - ZEN CIRCUS - Venezia
01/05/2010 - ZEN CIRCUS - Venezia
01/05/2010 - PUNKREAS - Ferrara
02/05/2010 - JAPANESE GUM - Ferrara
06/05/2010 - SERENA MANEESH e A PLACE TO BURY STRANGERS - Padova
06/05/2010 - SERENA MANEESH e A PLACE TO BURY STRANGERS - Padova
06/05/2010 - SAMUELE BERSANI - Bologna
07/05/2010 - NO MEANS NO - Bologna
07/05/2010 - NO MEANS NO - Bologna
07/05/2010 - PAOLO BENVEGNU' - Roncade (TV)
07/05/2010 - DEVOCKA e PENELOPE SULLA LUNA - San Giuseppe di Comacchio (FE)
08/05/2010 - IL TEATRO DEGLI ORRORI e OVERUNIT MACHINE - Mortegliano (UD)
14/05/2010 - LOMBROSO e TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - Mortegliano (UD)
14/05/2010 - LOMBROSO e TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - Mortegliano (UD)
15/05/2010 - VANILLA SKY, MY LAST FALL e ROMANTIC EMILY - Roncade (TV)
15/05/2010 - LOU RHODES - Bologna
15/05/2010 - I MELT - Schio (VI)
15/05/2010 - GLI ATROCI - Ronchi dei Legionari (GO)
15/05/2010 - BUZZ ALDRIN e THEE OH SEES - Bologna
15/05/2010 - BUD SPENCER BLUES EXPLOSION - Ferrara
19/05/2010 - AC/DC - Udine
19/05/2010 - AC/DC - Udine
20/05/2010 - DEVOCKA e LA TEORIA DEL PROIETTILE - Bologna
21/05/2010 - DEVOCKA - Codigoro (FE)
21/05/2010 - ACID MOTHERS TEMPLE e STEARICA - Mortegliano (UD)
22/05/2010 - MOTEL CONNECTION - Mortegliano (UD)
24/05/2010 - GOGOL BORDELLO - Bologna
25/05/2010 - PAVEMENT - Bologna
25/05/2010 - WOLF EYES - Padova
24/05/2010 - GOGOL BORDELLO - Bologna
25/05/2010 - PAVEMENT - Bologna
25/05/2010 - WOLF EYES - Padova
28/05/2010 - AMOR FOU - Bologna
31/05/2010 - THE GOSSIP - Bologna
31/05/2010 - WILCO e RETRIBUTION GOSPEL CHOIR - Ferrara
31/05/2010 - THE GOSSIP - Bologna
31/05/2010 - WILCO e RETRIBUTION GOSPEL CHOIR - Ferrara
mercoledì 28 aprile 2010
Mascara - L'Amore e la Filosofia EP (autoprodotto, 2010)
I Mascara sono un sestetto (cinque su disco) di Varese che debutta con un EP autoprodotto registrato a Milano. Un'autoproduzione assolutamente di qualità, con un sound deciso e un livello dei suoni eccellente. "L'Amore e la Filosofia EP" ha tutti gli ingredienti che dovrebbe avere un buon debut album in Italia. La componente melodica, testi in italiano di tutto rispetto, suoni limpidi aiutati da una produzione quasi da major e un progredire coerente e mai fine a sé stesso. Superando l'assenza di momenti di stacco che sorprendano il lavoro si definisce infatti come una massa per nulla informe di new wave e pop sporcati di elettronica, dove a farla da padrone sono i toni quasi dark e i testi con citazioni poetiche e filosofiche, come il nome dell'EP suggeriva. Ci sono i Coldplay tramutati immediatamente in Interpol e post-punk act vari in Il Gesto di Ettore, combinazione sapientemente continuata anche in Fiore del Male, con la sua venatura baudelariana che non si sente solo nel titolo e nelle liriche. Elettronica poi fusa con momenti dall'impeto rock in Andromeda dove le linee vocali, che la rendono un potenziale singolo, si avvicinano in alcuni momenti a quelle degli alfieri della new wave italiana, i Frigidaire Tango, lasciando comunque spazio a delle impennate prese proprio dal pop commerciale. Si rallenta e ci si distende in Oltre Il Nero, con dei momenti quasi pinkfloydiani ma non abbandonando mai le atmosfere dark che come una nube compatta aleggiano su tutto l'EP.
E infine il momento acustico, più immancabile che indimenticabile, per la scontatezza del suo inserimento che ormai sembra essere presenza obbligata in ogni disco o extended play. La canzone non è male, ma tutto sommato se ne poteva fare a meno.
I Mascara hanno le carte in regola per andare oltre, fare un disco più personale, con qualche momento che ti lasci a bocca aperta, un cambio inaspettato. Per ora un modesto tentativo di farsi notare, con qualità tecniche e compositive sicuramente sopra la media e le possibilità di essere riconosciuti in futuro come una buona realtà italiana che si concretizzano senza ritorno. Buono.
Voto: 7.5
E infine il momento acustico, più immancabile che indimenticabile, per la scontatezza del suo inserimento che ormai sembra essere presenza obbligata in ogni disco o extended play. La canzone non è male, ma tutto sommato se ne poteva fare a meno.
I Mascara hanno le carte in regola per andare oltre, fare un disco più personale, con qualche momento che ti lasci a bocca aperta, un cambio inaspettato. Per ora un modesto tentativo di farsi notare, con qualità tecniche e compositive sicuramente sopra la media e le possibilità di essere riconosciuti in futuro come una buona realtà italiana che si concretizzano senza ritorno. Buono.
Voto: 7.5
martedì 27 aprile 2010
Death By Pleasure - Death By Pleasure (Mashhh! Records, 2009)
Tracklist
A Trento ci sono due ragazzi che si annoiano. E hanno deciso di spaccare il culo con un prodotto che alla fine lo spacca solo in parte. Ma non per questo non lo spacca. Essere un po' esterofili va bene, ma a volte c'è come l'impressione che fuggire dall'Italia sia diventata una moda ("scappiamo su a Berlino", eccetera), non cogliendo "il bello" che c'è qui. I Death By Pleasure, in ogni caso, propongono un buon disco, verniciato di fresco senza coprire perfettamente quello che c'era sotto, lasciando un prodotto finale nel quale traspaiono piccole macchie di garage rock (alla White Stripes, per intenderci, lontani dai fasti dell'amico dei White, Captain Beefheart), in brani come la seppur buona (e per certi versi, maestosa) Fuck Up e post-rock, in questo caso meglio definibile shoegaze (fanculo sigle, marchi ed etichette, please), sia un po' "slintiano" ma anche un po' più moderno, volendo, inserito in un contesto più lo-fi che non guasta mai, in puro stile demo/mixtape dello scantinato più sfigato, mixato però con una strumentazione moderna (Too Much Of You). Ecco la fregatura. Un po' di anacronismo non sarebbe guastato, tanto i revival fanno sempre figo. E infatti ecco l'indie-devasto iniziale di The Dusty Carpet, uno dei brani migliori del disco insieme alla riuscitissima 90s Loser, con un titolo tanto insipido quanto fico e la voglia di alzare il volume del distorto come i vecchi Blur, o i Nirvana del periodo buio (l'ultimo) se non i primi Weezer. Ma chi se ne frega dei paragoni.
Il master di Gianni Peri rende il disco molto prezioso, in tutte le sue sfaccettature, per la grande varietà che emerge dal risultato finale, pregevole anche in vinile con il suo suono crepitante sullo sfondo a ricordare dei fastosi bei tempi del microsolco. Produzione abbastanza bruttarella, quanto basta per risaltare in quell'effetto di "stanza chiusa e imbottita di cartoni delle uova", anche perché il retrò è di moda. Più probabilmente mancavano i soldi, ma a noi piace pensarla così. I Death By Pleasure, dal nord più estremo dello Stivale, buttano fuori un disco di grande qualità, che con i suoi alti e bassi imbocca tutti i sentieri del rock più menzionato dalla critica, senza mai riverirsi troppo né perdersi in rivoli di inutile autocelebrazione. A questo ci pensiamo noi.
Disco per affezionati del garage. Per chi ascolta shoegaze, attenzione a che tracce scegliete. Alcuni secondi potrebbero farvi schifo. Tutto il resto è noia.
Voto: 7+
Etichette:
Death By Pleasure,
garage rock,
sperimentale
venerdì 23 aprile 2010
LetHerDive - The Closet (Disco Dada, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies.
Tracklist
Un disco trip-hop in Italia. Non ci credevo neanch'io. Eppure è così.
Da Bologna un disco che ha cuore, che a tutti gli effetti ha un suo perché. Non è facile imbattersi in lavori del genere in Italia, parlo del genere e del tipo di atmosfera proposta. Un album che inizia con un'introduzione già di per sé al culmine della tensione, spezzandosi d'istante in istante in momenti di rilassatezza e viaggi unici, un'esperienza che coinvolge quasi tutti i sensi del nostro corpo. Come quando un urlo su Almost tocca frequenze di rado colpite dal ventaglio sonoro di un album trip-hop, quasi una balena che risuona e viene captata da un radar che sono i nostri incudine, martello e staffa, sopra un tappeto di suoni che arrivano addirittura ad inquietare in un brano come The Bravest il quale ricorda, senza copiare, i migliori Portishead (quelli di Dummy, ovviamente). Il cantato femminile tanto caro ai fenomeni trip-hop ed elettronici funziona appieno in questo brano come in Repentance, dove il languore della voce quasi ricorda certi momenti nostalgici degli album più quieti dei grandissimi Radiohead. Cos'hanno in comune con i LetHerDive? Non molto, ma la grande malinconia diffusa da queste canzoni li accosta praticamente in tutti i punti, con la voce che qualche volta strizza l'occhio al buon Thom Yorke, soprattutto nei suoi lavori da solista. Marcette quasi balbettate (Swords) e ballate che mischiano clacson annacquati e scintillanti beat memori della più grande tradizione synth-pop anni '80/'90 (Laka, assurdamente bjorkiana). Ancora tensione in Grace, che a un certo spreca un urlo horror per inserire poi campionamenti indistintamente presi da collezioni di suoni da cinematografo, cigolii di ascensori pronti a scivolare nel vuoto, passi sgraziati che inseguono altri passi impauriti, piatti sintetizzati ad incepparsi quasi come un ingranaggio che non può più girare nel verso per il quale era stato concepito. E arrivati alla fine con Overcome, l'unico pezzo ad avere una struttura radio-friendly, espressione da prendere comunque con le pinze in un disco come The Closet, si avverte un'impalpabile sensazione di sazietà, come arrivati alla fine di una grande abbuffata ingiustificata ma di grande qualità. In effetti è questo il senso di questo album: non serviva perché il trip-hop non si può più rinnovare tanto, ma esplora le strade già percorse in una maniera del tutto personale, aprendo un capitolo tutto italiano che si spera porterà da qualche parte. I suoni e la produzione di ottima qualità troveranno la loro giusta dimensione in live e, aspettando quel momento, si può pregustare questo ottimo disco solo se dotati di un buon impianto. Per non perdersi le piccole sfumature, i suoni più nascosti, le frequenze più celate.
Buona fortuna, LetHerDive.
Voto: 8
mercoledì 21 aprile 2010
Fuh - Dancing Judas (Escape From Today/Canalese/Smartz, 2010)
Tracklist
In Piemonte c'è sempre tanta voglia di spingere forte sull'acceleratore, e sul distorsore, prendere, e spaccare tutto. Bastavano già i Dead Elephant e qualche altro a dimostrarlo ma poi sono arrivati anche i Fuh, il cui rito d'iniziazione li aveva fatti passare per derive hardcore fuse con il noise più grezzo dei Sonic Youth meno studiati, per poi finire col tempo ad evolversi in maniera molto ampia, mirando verso orizzonti di cui stupisce soprattutto l'ambizioso tentativo di raggiungerli. E anche il verdetto, positivo, della ricerca.
Cosa c'è in Dancing Judas? Qualche elemento (o più che elemento, rimasuglio) del loro "beginning" hardcore, un po' di incontri con l'anima più pop dei Motorpsycho, violentati dalla cattiveria piemontese, le forme istintive della composizione metal o prog, le distorsioni che sembrano grunge o di chi il grunge lo ha comunque masticato per tanto, troppo tempo. Ed ecco per l'appunto Luca Ferrari, ospite al synth in H7-25, un pezzo che sa quasi di Jesus Lizard più rallentati, più disillusi, in ogni caso abbastanza pesante da darti l'idea che lo sludge dei Cult of Luna più potenti sia lì dietro l'angolo, ma con una voce migliore. Magnus Ryan e soci di nuovo in Gordon, Rest In Peace, ma con un tappeto sonoro che ricorda molto i Russian Circles. Noise assolutamente ambient, quasi shoegaze, in Canalese Landscape, così come un po' di post-punk si nasconde neanche troppo velatamente nei distorti e nel comparto ritmico di Distance. Non dimentichiamo poi le impennate più potenti del disco, che con quell'anima hardcore che dicevamo ci va a nozze, nonostante i tentativi di distaccarsene. Ecco infatti che la furia di Miniver ti spara dritta in faccia tonnellate di fuzz, overdrive esagerati, un lavoro di batteria ottimo e un gusto per i suoni che in Italia si può ritrovare raramente.
I Fuh hanno deciso di puntare in alto. C'è la voglia di non ripetere niente che fosse già stato detto, fatto o scritto. C'è poi la consapevolezza che non è cosa facile, ma ci provano lo stesso, regalando alla scena italiana un gioiello di cui aveva davvero bisogno. Milioni di sfumature diverse riunite in un unico grande prodotto finale, come cinquanta sottilissimi fili fatti passare per un'unica cruna d'ago. Eccezionali, sfrontati, pazzeschi.
Voto: 8.5
In Piemonte c'è sempre tanta voglia di spingere forte sull'acceleratore, e sul distorsore, prendere, e spaccare tutto. Bastavano già i Dead Elephant e qualche altro a dimostrarlo ma poi sono arrivati anche i Fuh, il cui rito d'iniziazione li aveva fatti passare per derive hardcore fuse con il noise più grezzo dei Sonic Youth meno studiati, per poi finire col tempo ad evolversi in maniera molto ampia, mirando verso orizzonti di cui stupisce soprattutto l'ambizioso tentativo di raggiungerli. E anche il verdetto, positivo, della ricerca.
Cosa c'è in Dancing Judas? Qualche elemento (o più che elemento, rimasuglio) del loro "beginning" hardcore, un po' di incontri con l'anima più pop dei Motorpsycho, violentati dalla cattiveria piemontese, le forme istintive della composizione metal o prog, le distorsioni che sembrano grunge o di chi il grunge lo ha comunque masticato per tanto, troppo tempo. Ed ecco per l'appunto Luca Ferrari, ospite al synth in H7-25, un pezzo che sa quasi di Jesus Lizard più rallentati, più disillusi, in ogni caso abbastanza pesante da darti l'idea che lo sludge dei Cult of Luna più potenti sia lì dietro l'angolo, ma con una voce migliore. Magnus Ryan e soci di nuovo in Gordon, Rest In Peace, ma con un tappeto sonoro che ricorda molto i Russian Circles. Noise assolutamente ambient, quasi shoegaze, in Canalese Landscape, così come un po' di post-punk si nasconde neanche troppo velatamente nei distorti e nel comparto ritmico di Distance. Non dimentichiamo poi le impennate più potenti del disco, che con quell'anima hardcore che dicevamo ci va a nozze, nonostante i tentativi di distaccarsene. Ecco infatti che la furia di Miniver ti spara dritta in faccia tonnellate di fuzz, overdrive esagerati, un lavoro di batteria ottimo e un gusto per i suoni che in Italia si può ritrovare raramente.
I Fuh hanno deciso di puntare in alto. C'è la voglia di non ripetere niente che fosse già stato detto, fatto o scritto. C'è poi la consapevolezza che non è cosa facile, ma ci provano lo stesso, regalando alla scena italiana un gioiello di cui aveva davvero bisogno. Milioni di sfumature diverse riunite in un unico grande prodotto finale, come cinquanta sottilissimi fili fatti passare per un'unica cruna d'ago. Eccezionali, sfrontati, pazzeschi.
Voto: 8.5
martedì 20 aprile 2010
Trabant - Trabant (Moscow Lab, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
A volte per recensire un disco ci vorrebbe un termine di paragone azzeccato. Che poi significa anche che “questi assomigliano a quelli”, il che non è sempre il massimo per un gruppo. I Trabant a chi li possiamo raffrontare? Provando un po' a pensare un nome mi verrebbe in mente: i Trabant. Quelli di qualche anno fa, quelli di "Music 4 Losers", così diversi ma così uguali, molto maturati ma anche tanto “scottati”, cauterizzati da quella voglia di irrompere sul mercato discografico italiano anche al di là del giro alternative/indie in cui già hanno avuto i loro meritati riconoscimenti. Sarà per questo che tutto ciò che hanno prodotto finora è stata una montagna di potenziali singoli? Ma della deriva new wave del precedente, bellissimo, disco, è rimasto ben poco. Ora ci sono nuovi ingredienti, più freschi, più attuali ma anche denotanti una certa fuga verso gli anni ottanta. Sarà vero che da lì non si scappa?
L'album si apre con un trittico di tutto rispetto: Sofa, che introduce i primi elementi estranei al sound tipico dei triestini, con un irruento e indimenticabile ritornello. Vero e proprio “refrain” da marchio a fuoco come succede con la successiva (già leakata per internet da mesi, con il benestare della band) Ah Oh Aficionados, che potrebbe, con un attimo di spinta, dare a questi ragazzi lo stesso push che hanno avuto i Subsonica dei tempi d'oro. Ma la musica dei torinesi, ora, non c'entra nulla. Un disco per fare festa, lo hanno definito. Ascoltare infatti So Proud, il suo testo da veri festaioli degli anni zero, e il suo tiro assurdamente spensierato e una pacca incredibile, la stessa che come una botta che lascia più di un livido, una cicatrice, ti colpisce e ti spaventa alla partenza di Hostile Commando DIY, il pezzo più aggressivo nonostante la gran parte della sua durata sia occupata da memorabili intermezzi melodici e cambi di tempo neanche troppo scontati (grande caratteristica di questo disco, più vario e suonato meglio rispetto al primo), con tanto di momento latineggiante. E un sound che non dimentichi. Cosa estremamente nuova per i Trabant, lenti e neanche troppo felici nella radiofonicissima As A Weekend, ancora lenti e quasi addormentati in un sopore quasi trip-hop, nella penultima Hahaha, ottimo titolo per gli affezionati di chat e manie da nerd dell'ultimo millennio. Rimanendo nelle tracce più innovative scopriamo Scorpio vs Gemini, il brano meglio composto, con suoni abbastanza ricercati o comunque ben assemblati, una vera e proprio antitesi vista la presentazione del disco alla stampa in cui si parla di sperimentazioni con strumenti antitradizionalisti come un sintetizzatore del Nintendo DS, la celebre console giapponese. Il filo conduttore di questa self-titled release è la spensieratezza di certe bombe da radio, come Social Weapon o Mademoiselle PMD, con la loro carica fusa con la loro gaudente autorevolezza, quasi a voler dimostrare che fare musica figa e orecchiabile non è appannaggio dei musicisti più “cazzoni” ma che anche grandi strumentisti come loro lo possono fare, dimostrando a più riprese abilità tecniche che fanno spiccare in particolar modo batteria e tastiere (senza trascurare l'ottima voce, anche a livello di timbrica). Stessa tiritera si potrebbe ripetere per i brani seguenti, Sarah Diane in primis, brani con una loro struttura ben ponderata, mai banali, ma con una formula che non lascia scampo: impennate al fulmicotone, inserimenti di synth senza logica apparente (tutto ritorna però nel quadro complessivo) e testi ironici pur senza il bisogno di offendere o dissacrare.
Tracklist
A volte per recensire un disco ci vorrebbe un termine di paragone azzeccato. Che poi significa anche che “questi assomigliano a quelli”, il che non è sempre il massimo per un gruppo. I Trabant a chi li possiamo raffrontare? Provando un po' a pensare un nome mi verrebbe in mente: i Trabant. Quelli di qualche anno fa, quelli di "Music 4 Losers", così diversi ma così uguali, molto maturati ma anche tanto “scottati”, cauterizzati da quella voglia di irrompere sul mercato discografico italiano anche al di là del giro alternative/indie in cui già hanno avuto i loro meritati riconoscimenti. Sarà per questo che tutto ciò che hanno prodotto finora è stata una montagna di potenziali singoli? Ma della deriva new wave del precedente, bellissimo, disco, è rimasto ben poco. Ora ci sono nuovi ingredienti, più freschi, più attuali ma anche denotanti una certa fuga verso gli anni ottanta. Sarà vero che da lì non si scappa?
L'album si apre con un trittico di tutto rispetto: Sofa, che introduce i primi elementi estranei al sound tipico dei triestini, con un irruento e indimenticabile ritornello. Vero e proprio “refrain” da marchio a fuoco come succede con la successiva (già leakata per internet da mesi, con il benestare della band) Ah Oh Aficionados, che potrebbe, con un attimo di spinta, dare a questi ragazzi lo stesso push che hanno avuto i Subsonica dei tempi d'oro. Ma la musica dei torinesi, ora, non c'entra nulla. Un disco per fare festa, lo hanno definito. Ascoltare infatti So Proud, il suo testo da veri festaioli degli anni zero, e il suo tiro assurdamente spensierato e una pacca incredibile, la stessa che come una botta che lascia più di un livido, una cicatrice, ti colpisce e ti spaventa alla partenza di Hostile Commando DIY, il pezzo più aggressivo nonostante la gran parte della sua durata sia occupata da memorabili intermezzi melodici e cambi di tempo neanche troppo scontati (grande caratteristica di questo disco, più vario e suonato meglio rispetto al primo), con tanto di momento latineggiante. E un sound che non dimentichi. Cosa estremamente nuova per i Trabant, lenti e neanche troppo felici nella radiofonicissima As A Weekend, ancora lenti e quasi addormentati in un sopore quasi trip-hop, nella penultima Hahaha, ottimo titolo per gli affezionati di chat e manie da nerd dell'ultimo millennio. Rimanendo nelle tracce più innovative scopriamo Scorpio vs Gemini, il brano meglio composto, con suoni abbastanza ricercati o comunque ben assemblati, una vera e proprio antitesi vista la presentazione del disco alla stampa in cui si parla di sperimentazioni con strumenti antitradizionalisti come un sintetizzatore del Nintendo DS, la celebre console giapponese. Il filo conduttore di questa self-titled release è la spensieratezza di certe bombe da radio, come Social Weapon o Mademoiselle PMD, con la loro carica fusa con la loro gaudente autorevolezza, quasi a voler dimostrare che fare musica figa e orecchiabile non è appannaggio dei musicisti più “cazzoni” ma che anche grandi strumentisti come loro lo possono fare, dimostrando a più riprese abilità tecniche che fanno spiccare in particolar modo batteria e tastiere (senza trascurare l'ottima voce, anche a livello di timbrica). Stessa tiritera si potrebbe ripetere per i brani seguenti, Sarah Diane in primis, brani con una loro struttura ben ponderata, mai banali, ma con una formula che non lascia scampo: impennate al fulmicotone, inserimenti di synth senza logica apparente (tutto ritorna però nel quadro complessivo) e testi ironici pur senza il bisogno di offendere o dissacrare.
Un ottimo disco in questo prolifico duemiladieci, che pecca solo di una fuga verso l'elettronica e la lingua inglese, motivi di “vergogna” della cadente scena italiana che però trovano nei Trabant il miglior modo di esprimere tutta la loro effettività ed effervescenza.
Voto: 8.5
Voto: 8.5
Etichette:
alternative,
dance,
elettronica/pop,
Trabant
sabato 17 aprile 2010
Rummer and Grapes - Every Damned Friday (New Model Label, 2009)
Tracklist
I Rummer and Grapes sono un quartetto di Terni. Voce femminile, riff alla Placebo, sonorità quasi brit nonostante le influenze dell'alternative che si sentono vadano oltre questo semplice accostamento, e una certa vena melodica che rende le canzoni abbastanza catchy.
In questo disco di debutto, Every Damned Friday, non manca nulla. La produzione non è malvagia, nonostante qualche suono troppo "da garage" (magari anche voluto), i brani sono composti in maniera quasi mai superficiale nonostante l'uso di cliché abusatissimi nei cambi di batteria e nelle linee vocali e nel complesso la band lascia presagire delle belle prove live, sperando che gliene venga data ampia possibilità.
Nel disco troviamo nove brani tutti della durata media di tre minuti, qualcuno qualcosa di meno, a sottolineare anche il target a cui si rivolgono. In Stay si sentono delle impronte quasi post-grunge a sovrastare una vena new wave, che compare preminente invece in Not Far Away, con qualche accenno post-Sonic Youth (Placebo, infatti). La voce mai banale di Simona si sente nelle vicinanze a Dolores O' Riordan e Cristina Scabbia di Back To My Control, per deviare altre volte verso lidi più simili a Courtney Love o alle 4 Non Blondes. Paragoni a parte dimostra una versatilità notevole, e in brani più melodici come My Princess Anna emerge anche una certa tecnica. Una probabile ottima resa live traspare invece dalle potenti e quasi post-punk Room On Fire (il titolo non vi ricorda niente?), la fichissima Short Drink, nel ritornello di Why e Inauspicious Love, quest'ultima un incrocio impeccabile tra Molko, i Paramore e i Franz Ferdinand.
Nel disco si trovano molte influenze, più o meno simili a tutte quelle delle band che vogliono emergere (ed alcune ce l'hanno anche fatta) negli ultimi anni. Perché il punk, la new wave e il brit-pop sono di moda e questo si sa (in generale è di moda il sound UK). In Italia non sono in molti a rappresentare "degnamente" il nuovo settore di rielaborazione di queste vecchie e stanche etichette, ma volendo ci possono pensare benissimo i Rummer and Grapes. Una produzione all'altezza, qualche riff leggermente più radio-friendly e una composizione meno "copiata" potrebbero portare a risultati davvero eccellenti. Ma questo disco, nel totale, ha il suo perché. Pecca principale, il cantato in inglese. Per il resto, un buon sette su dieci glielo si può anche dare.
Voto: 7-
I Rummer and Grapes sono un quartetto di Terni. Voce femminile, riff alla Placebo, sonorità quasi brit nonostante le influenze dell'alternative che si sentono vadano oltre questo semplice accostamento, e una certa vena melodica che rende le canzoni abbastanza catchy.
In questo disco di debutto, Every Damned Friday, non manca nulla. La produzione non è malvagia, nonostante qualche suono troppo "da garage" (magari anche voluto), i brani sono composti in maniera quasi mai superficiale nonostante l'uso di cliché abusatissimi nei cambi di batteria e nelle linee vocali e nel complesso la band lascia presagire delle belle prove live, sperando che gliene venga data ampia possibilità.
Nel disco troviamo nove brani tutti della durata media di tre minuti, qualcuno qualcosa di meno, a sottolineare anche il target a cui si rivolgono. In Stay si sentono delle impronte quasi post-grunge a sovrastare una vena new wave, che compare preminente invece in Not Far Away, con qualche accenno post-Sonic Youth (Placebo, infatti). La voce mai banale di Simona si sente nelle vicinanze a Dolores O' Riordan e Cristina Scabbia di Back To My Control, per deviare altre volte verso lidi più simili a Courtney Love o alle 4 Non Blondes. Paragoni a parte dimostra una versatilità notevole, e in brani più melodici come My Princess Anna emerge anche una certa tecnica. Una probabile ottima resa live traspare invece dalle potenti e quasi post-punk Room On Fire (il titolo non vi ricorda niente?), la fichissima Short Drink, nel ritornello di Why e Inauspicious Love, quest'ultima un incrocio impeccabile tra Molko, i Paramore e i Franz Ferdinand.
Nel disco si trovano molte influenze, più o meno simili a tutte quelle delle band che vogliono emergere (ed alcune ce l'hanno anche fatta) negli ultimi anni. Perché il punk, la new wave e il brit-pop sono di moda e questo si sa (in generale è di moda il sound UK). In Italia non sono in molti a rappresentare "degnamente" il nuovo settore di rielaborazione di queste vecchie e stanche etichette, ma volendo ci possono pensare benissimo i Rummer and Grapes. Una produzione all'altezza, qualche riff leggermente più radio-friendly e una composizione meno "copiata" potrebbero portare a risultati davvero eccellenti. Ma questo disco, nel totale, ha il suo perché. Pecca principale, il cantato in inglese. Per il resto, un buon sette su dieci glielo si può anche dare.
Voto: 7-
giovedì 15 aprile 2010
Mogul Thrash - Mogul Thrash (RCA Records, 1971)
I Mogul Thrash sono un gruppo rock con venature jazz e prog (dovute anche all'ottimo uso dei fiati), che come frontman aveva l'ex Colosseum James Litherland alla chitarra e alla voce solista. Gli altri musicisti, all'epoca erano misconosciuti, ma alcuni di loro avrebbero guadagnato la meritata fama: di John Wetton, geniale bassista dalla voce calda e personale del quale abbiamo parlato un sacco di volte, non c'è bisogno di alcuna presentazione, ma comunque ricordiamo che ha suonato con artisti illustri quali King Crimson, UK, Roxy Music, Family, Asia e tanti altri e citiamo anche Malcolm Duncan e Roger Ball (entrambi sassofonisti), futuri membri degli Average White Band. A completare il tutto, il disco è stato prodotto dal jazzista (ma anche rockettaro) Brian Auger, che suona anche il piano su un brano.
Gli altri membri del gruppo, ovvero il talentuoso Michael Rosen (mellofono, tromba e chitarra) e il batterista Bill Harrison, invece, non hanno avuto la fama che avrebbero meritato e sono in seguito praticamente spariti.
Anche i Mogul Thrash, un gruppo ancora acerbo ma con potenzialità enormi, hanno avuto una triste fine: infatti problemi con il managment hanno costretto la band a sciogliersi precocemente (anche se forse per Wetton è stato un bene, così ha potuto continuare la sua carriera entrando nella miriade di gruppi citati sopra).
Quindi i Mogul Thrash ci lasciano con un solo disco, molto interessante, suonato estremamente bene e sicuramente trascinante. Dicevo prima che il gruppo nonostante tutto è ancora acerbo, e questo si nota in alcuni brani ("Elegy", "Going North, Going West" e "What's This I Hear"), che nonostante siano ben composti (specialmente il secondo, la cui melodia è davvero notevole) sono un po' troppo stiracchati e risultano più lunghi del dovuto.
Ma sono difetti minimi, con i quali si può convivere benissimo. A parte i tre lunghi brani citati, il resto del disco contiene "Something Sad", un trascinantissimo hard rock (con i fiati con la parte da leone), "Dream of Glass and Sand" con venature funky (ma anche jazz negli assolo) e il mio brano preferito "St. Peter", l'unica cantata da solista da Wetton (che comunque fa i cori nel resto dell'album), un'affascinante ballata supportata dal piano (suonato appunto da Auger) che si discosta notevolmente dal resto del disco. Molte edizioni CD contengono anche il 45 giri "Sleeping in the Kitchen", un brano molto trascinante, più riuscito di molti di quelli sul disco (Wetton in persona, tramite il suo forum, mi ha detto che secondo lui quello era il brano dove stavano cominciando a capire che direzione prendere, prima che i problemi legali li costringessero a sciogliersi).
Non è un disco facile da trovare, e a dire il vero la mia edizione sembra anche presa da vinile, ma se lo trovate le vostre fatiche saranno ricompensate, perché questo disco è veramente trascinante e interessante.
Voto: 7/8
mercoledì 14 aprile 2010
...A Toys Orchestra - Midnight Talks (Urtovox, 2010)
Tracklist
Negli ultimi anni in Italia sono uscite ben poche band migliori degli ...A Toys Orchestra. La formazione salernitana ha compiuto imprese mirabolanti componendo alcuni dei dischi più completi ed originali dell'ultimo decennio, sospesi a metà tra le magie del pop, dell'alternative e di quella musica d'atmosfera che è meglio non definire. Le toglierebbe molto significato.
In questo nuovo "Midnight Talks" ci si rilassa ma si trova anche molto "sale" nell'aspetto ritmico. Una band che non si è mai distinta per la potenza dei brani, ma più che altro per quel senso di distensione che riesce a trasmettere, incarna questa volta in maniera perfetta lo spirito dei Beatles. Ballad dal forte sapore pop, duetti piano/voce, ma anche qualche pezzo più spinto, senza mai esagerare né con le distorsioni né con la cattiveria, parola abolita in toto dal vocabolario della band. Per il bene del risultato finale.
I Beatles sono onnipresenti in queste "chiacchiere di mezzanotte". In Celentano, bellissima ballata dai sapori sixties e Brit più che mai, così come in Red Alert e Frankie Pyroman, che in Inghilterra, con una produzione più da chart sarebbe un singolone. Insieme agli strumenti classici della band, sui quali spiccano anche sintetizzatori e qualche effettino per chitarra, arrivano stavolta ospiti come Enrico Gabrielli dei Mariposa e soprattutto dei Calibro 35, in veste di arrangiatore di fiati ed archi, e Rodrigo d'Erasmo degli Afterhours al violino. La band si abbandona ad un relax quasi da camera nelle atmosfere soffuse e sommesse di Sunny Days, titolo che è quasi un'antitesi del contenuto del brano, e Plastic Romance Part Two, seconda parte del pezzo più rock del disco. A stupire ci pensa anche la potenza contenuta ma fortemente energica di Mystical Mistake, con i suoi momenti catchy e anche quelli da viaggio nello spazio e nel tempo. Un po' Woodstock, un po' Liverpool. Ma senza esagerare. L'anima pop del disco è assolutamente evidente in ogni secondo del suo running time, ma The Golden Calf e Summer rappresentano improvvisamente come una "visione", la composizione del pezzo perfetto degli ...A Toys, a metà tra un nuovo sentiero pop da percorrere e ripercorrere ora e in futuro e quello che i campani sono sempre stati, quella band capace di sorprendere con arrangiamenti mai troppo complessi ma di tutto rispetto, una capacità tecnica sopra la media e una produzione eccellente. Non ci sarà Dustin O' Halloran ma il sound del disco è assolutamente ineccepibile.
Gran disco, l'Italia c'è. Col suo Moog e i suoi Rhodes.
Voto: 8.5
Negli ultimi anni in Italia sono uscite ben poche band migliori degli ...A Toys Orchestra. La formazione salernitana ha compiuto imprese mirabolanti componendo alcuni dei dischi più completi ed originali dell'ultimo decennio, sospesi a metà tra le magie del pop, dell'alternative e di quella musica d'atmosfera che è meglio non definire. Le toglierebbe molto significato.
In questo nuovo "Midnight Talks" ci si rilassa ma si trova anche molto "sale" nell'aspetto ritmico. Una band che non si è mai distinta per la potenza dei brani, ma più che altro per quel senso di distensione che riesce a trasmettere, incarna questa volta in maniera perfetta lo spirito dei Beatles. Ballad dal forte sapore pop, duetti piano/voce, ma anche qualche pezzo più spinto, senza mai esagerare né con le distorsioni né con la cattiveria, parola abolita in toto dal vocabolario della band. Per il bene del risultato finale.
I Beatles sono onnipresenti in queste "chiacchiere di mezzanotte". In Celentano, bellissima ballata dai sapori sixties e Brit più che mai, così come in Red Alert e Frankie Pyroman, che in Inghilterra, con una produzione più da chart sarebbe un singolone. Insieme agli strumenti classici della band, sui quali spiccano anche sintetizzatori e qualche effettino per chitarra, arrivano stavolta ospiti come Enrico Gabrielli dei Mariposa e soprattutto dei Calibro 35, in veste di arrangiatore di fiati ed archi, e Rodrigo d'Erasmo degli Afterhours al violino. La band si abbandona ad un relax quasi da camera nelle atmosfere soffuse e sommesse di Sunny Days, titolo che è quasi un'antitesi del contenuto del brano, e Plastic Romance Part Two, seconda parte del pezzo più rock del disco. A stupire ci pensa anche la potenza contenuta ma fortemente energica di Mystical Mistake, con i suoi momenti catchy e anche quelli da viaggio nello spazio e nel tempo. Un po' Woodstock, un po' Liverpool. Ma senza esagerare. L'anima pop del disco è assolutamente evidente in ogni secondo del suo running time, ma The Golden Calf e Summer rappresentano improvvisamente come una "visione", la composizione del pezzo perfetto degli ...A Toys, a metà tra un nuovo sentiero pop da percorrere e ripercorrere ora e in futuro e quello che i campani sono sempre stati, quella band capace di sorprendere con arrangiamenti mai troppo complessi ma di tutto rispetto, una capacità tecnica sopra la media e una produzione eccellente. Non ci sarà Dustin O' Halloran ma il sound del disco è assolutamente ineccepibile.
Gran disco, l'Italia c'è. Col suo Moog e i suoi Rhodes.
Voto: 8.5
martedì 13 aprile 2010
Wild Turkey - Battle Hymn (Chrysalis, 1971)
"Glenn Cornick! Chi era costui?" ruminava tra sè don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti. "Glenn Cornick! Questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?". Se Don Abbondio avesse un minimo di cultura musicale saprebbe che Glenn Cornick altri non è che il primo mitico bassista dei Jethro Tull di Ian Anderson, colui che ci ha regalato (oddio, insomma, dopotutto l'album lo paghiamo!) il bellissimo assolo di basso sulla celeberrima composizione di Bach riarrangiata in chiave jazz "Bourée".
Cornick lasciò i Jethro Tull nel 1970, mentre questi componevano il loro album più famoso "Aqualung" (sul quale avrebbe suonato Jeffrey Hammond-Hammond, compare e compagno di scuola di Anderson) e subito si diede da fare per formare un nuovo gruppo. Dopo alcuni cambi di formazione (da notare che la prima mark aveva alla batteria John "Pugwash" Weathers, che nel 1972 diventerà il batterista dei Gentle Giant), i Wild Turkey esordiscono con il loro primo lavoro, questo "Battle Hymn" di cui parliamo ora.
Dal suo playing molto jazzato (ma a volte con venature rock), quello che ci si aspetterebbe è un disco jazz rock. Invece i Wild Turkey pestano di brutto, fanno un rock duro, incentrato sulla chitarra e sulla voce.
E forse è proprio questa la causa della mia delusione. Chiariamoci, la musica non è di cattiva fattura, i musicisti sono bravi e tutto, ma non riesco ad apprezzare come vorrei questo album, forse per il fatto che la musica, ben costruita e tutto, manca di originalità o forse anche a causa della voce del cantante Gary Pickford-Hopkins, che in certi punti (vedi il finale di "Butterfly") mi ricorda vagamente Paperino, anche se non è stonato per niente.
Ma l'album ovviamente non è niente male. Alcuni pezzi, come le mordaci "Twelve Streets of Cobbled Black" e "One Sole Survivor" o la trascinante "Sentinel" sono sicuramente superiori alla media, e la prova chitarristica di Tweke Lewis (futuro membro dei Man) è senza dubbio molto buona.
Oltre ad altri episodi rock meno riusciti (l'opener "Butterfly", non male ma un po' disorganizzata, "Battle Hymn" e "Easter Psalm", che suonano un pochino incerte), l'album offre anche alcuni buoni brani melodici, come la ballata rock di "To The Stars", le semiacustiche e un po' folkeggianti "Sanctuary", "Dulwich Fox" e "Gentle Rain".
Dopo di questo "Battle Hymn", che fato attende i Wild Turkey? Dopo aver registrato un secondo album ("Turkey", dal quale uscirà un 45 giri "Good Old Days / Life Is a Symphony", notevole la B-side, non presente su LP, e ripubblicata in CD nel 2002. Forse una risposta alla "Life is a Long Song" dei Jethro Tull dello stesso anno?) ed essere apparsi in un sampler della Chrysalis intitolato "Don't Dare To Forget", i Wild Turkey si sciolgono nel 1974 e Cornick va a suonare prima con i Karthago e poi con i Paris. I Wild Turkey si riformano brevemente nel 1996 con un album ("Stealer Of Years") e dieci anni dopo con un altro ("You & Me in the Jungle"), intervallati da live album tratti da registrazioni degli anni 70 ("Final Performance" e "Live In Edinburgh") e un disco con rarità ("Rarest Turkey"). Al momento, a quanto pare, Cornick sta preparando un nuovo album.
Per tornare al disco, si tratta di un lavoro carino, nonostante qualche punto fiacco qua e là. Se siete curiosi procuratevelo, e se vi piace l'hard rock... beh, perché non dargli una chance?
Voto: 7
domenica 11 aprile 2010
Baustelle - I Mistici dell'Occidente (Warner Bros, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist
I Baustelle, porca miseria i Baustelle...
Sono anni che ci propinano dischi identici e stanno comunque avendo una crescita non indifferente, portati in trionfo da un generale apprezzamento popolare e da collaborazioni eccellenti come la stesura di testi per Irene Grandi e la colonna sonora per il film "Giulia Non Esce La Sera". La band non è di certo famosa per la sua creatività, ma ha perlomeno saputo consacrarsi come un punto di riferimento per il suo stile caratteristico, inconfondibile, che ha i suoi punti fermi nella voce e nei testi di Bianconi, nelle influenze quasi classiche che risalgono, sforzandosi un poco, anche a Morricone, e nell'alternanza con la voce femminile di Rachele Bastreghi, abile anche alla tastiera nel ricavare suoni di un certo spessore, suoni che ormai possiamo definire a tutti gli effetti suoni da Baustelle. I senesi (montepulcianesi per la precisione) collocano piuttosto spesso il tiro delle canzoni su un tono "storico", parlando di personaggi del passato, letteratura (il titolo del disco è quello di un romanzo di E. Zolla) e qualche volta, politica. Non c'è satira, solo qualche riferimento, cinico e vagamente "spietato" (come sentivamo in "Charlie fa Surf"), nella title-track, che inizia quasi come un plagio di De André per poi accendersi in puro stile Baustelle, come tutte le altre tracce del resto. In apertura il brano L'Indaco, uno dei migliori del disco, fa il verso ai Pink Floyd con una struttura che ricorda vagamente alcuni dei brani più famosi della formazione inglese. Si prosegue con San Francesco, dedicata al santo che Bianconi sembra apprezzare particolarmente, e Groupies, che porta invece in grembo qualche germe elettronico/synth-pop, in puro stile Depeche Mode, con tanto di cori anni '80 a coronare il tentativo di svolta. Le Rane, uno dei brani più commerciali, con un riff già sentito milioni di volte nella musica pop italiana, risulta comunque abbastanza orecchiabile da essere apprezzabile, così come L'Estate Enigmistica, nella quale spiccano le liriche, in puro stile Bianconi dei tempi de "La Moda Del Lento". Rituale che si ripete anche in Follonica, Groupies e Il Sottoscritto. Poco da sottolineare nel primo singolo estratto, Gli Spietati, radio-friendly fin che vuoi ma manchevole di qualche elemento degno di essere ricordato, troppo scontata e identica a centinaia di altri brani dei toscani. Il miglior episodio del disco è La Canzone Della Rivoluzione, cioè anche la più rock, che denota una certa violenza se paragonata allo standard "baustelliano" e si colloca in quel tipo di alternative che la band non rappresenta ma nel quale ogni tanto vuole fare stereotipata incursione.
Il disco dei Baustelle in verità non è particolarmente uguale ad Amen, per esempio. Questo problema forse viene aggravato dallo stile piuttosto banale (ed ultimamente, scontato) di Bianconi nell'inventare linee vocali, mentre musicalmente solo qualche volta ci si sofferma nella copia di sé stessi. Nei vari brani si fondono pop e rock, cantautorale, tentativi di arretramento negli anni '80, synth-pop, psichedelia e alternative in maniera piuttosto omogenea, creando un tappeto di sonorità decisamente interessante da ascoltare. Ma il fatto che anche dopo decine di ascolti la voce ancora sembri rincorrersi ricopiandosi da brano a brano, rovina veramente un disco che poteva essere molto migliore, se interpretato, che ne so, da un Paolo Benvegnù dei bei tempi?
A questo punto, mistici di cosa?
Voto: 7-
Tracklist
I Baustelle, porca miseria i Baustelle...
Sono anni che ci propinano dischi identici e stanno comunque avendo una crescita non indifferente, portati in trionfo da un generale apprezzamento popolare e da collaborazioni eccellenti come la stesura di testi per Irene Grandi e la colonna sonora per il film "Giulia Non Esce La Sera". La band non è di certo famosa per la sua creatività, ma ha perlomeno saputo consacrarsi come un punto di riferimento per il suo stile caratteristico, inconfondibile, che ha i suoi punti fermi nella voce e nei testi di Bianconi, nelle influenze quasi classiche che risalgono, sforzandosi un poco, anche a Morricone, e nell'alternanza con la voce femminile di Rachele Bastreghi, abile anche alla tastiera nel ricavare suoni di un certo spessore, suoni che ormai possiamo definire a tutti gli effetti suoni da Baustelle. I senesi (montepulcianesi per la precisione) collocano piuttosto spesso il tiro delle canzoni su un tono "storico", parlando di personaggi del passato, letteratura (il titolo del disco è quello di un romanzo di E. Zolla) e qualche volta, politica. Non c'è satira, solo qualche riferimento, cinico e vagamente "spietato" (come sentivamo in "Charlie fa Surf"), nella title-track, che inizia quasi come un plagio di De André per poi accendersi in puro stile Baustelle, come tutte le altre tracce del resto. In apertura il brano L'Indaco, uno dei migliori del disco, fa il verso ai Pink Floyd con una struttura che ricorda vagamente alcuni dei brani più famosi della formazione inglese. Si prosegue con San Francesco, dedicata al santo che Bianconi sembra apprezzare particolarmente, e Groupies, che porta invece in grembo qualche germe elettronico/synth-pop, in puro stile Depeche Mode, con tanto di cori anni '80 a coronare il tentativo di svolta. Le Rane, uno dei brani più commerciali, con un riff già sentito milioni di volte nella musica pop italiana, risulta comunque abbastanza orecchiabile da essere apprezzabile, così come L'Estate Enigmistica, nella quale spiccano le liriche, in puro stile Bianconi dei tempi de "La Moda Del Lento". Rituale che si ripete anche in Follonica, Groupies e Il Sottoscritto. Poco da sottolineare nel primo singolo estratto, Gli Spietati, radio-friendly fin che vuoi ma manchevole di qualche elemento degno di essere ricordato, troppo scontata e identica a centinaia di altri brani dei toscani. Il miglior episodio del disco è La Canzone Della Rivoluzione, cioè anche la più rock, che denota una certa violenza se paragonata allo standard "baustelliano" e si colloca in quel tipo di alternative che la band non rappresenta ma nel quale ogni tanto vuole fare stereotipata incursione.
Il disco dei Baustelle in verità non è particolarmente uguale ad Amen, per esempio. Questo problema forse viene aggravato dallo stile piuttosto banale (ed ultimamente, scontato) di Bianconi nell'inventare linee vocali, mentre musicalmente solo qualche volta ci si sofferma nella copia di sé stessi. Nei vari brani si fondono pop e rock, cantautorale, tentativi di arretramento negli anni '80, synth-pop, psichedelia e alternative in maniera piuttosto omogenea, creando un tappeto di sonorità decisamente interessante da ascoltare. Ma il fatto che anche dopo decine di ascolti la voce ancora sembri rincorrersi ricopiandosi da brano a brano, rovina veramente un disco che poteva essere molto migliore, se interpretato, che ne so, da un Paolo Benvegnù dei bei tempi?
A questo punto, mistici di cosa?
Voto: 7-
sabato 10 aprile 2010
Slayer - World Painted Blood (American Recordings, 2009)
Tracklist
La carriera degli Slayer, lunga ormai ventinove anni, giunge ad un importante traguardo con questo "nuovo" disco. No, piano, ma questo è il nuovo disco degli Slayer? "World Painted Blood" suona come qualsiasi disco degli Slayer pubblicato nell'ultimo trentennio. Questo è il giudizio dato da molti, ma occorre, anzi sarebbe meglio, sprecare qualche parola in più per descrivere questo piccolo gioiellino metal di fine duemilanove.
Araya e soci sono stati accusati ad ogni uscita discografica di auto-plagio, assenza di evoluzione, sterilità. Anche di antisemitismo, ma questo è un altro discorso. La verità è che ai metallari losangelini non fotte veramente un cazzo di cambiare, e vogliono semplicemente spaccare il culo come hanno sempre fatto. Gli anni che passano si fanno sentire in concerto, ma non certo in un disco come questo, con una produzione eccelsa (ancora una volta affidata all'ormai produttore storico Rick Rubin, affiancato però dal celebre Fidelman), più moderna rispetto alla produzione più nota ma comunque sempre abbastanza "metallica", graffiante e sporca al punto giusto da non risultare troppo "major". La batteria di Lombardo è sempre martellante, precisa, veloce, con la doppia cassa esagerata a riempire ogni secondo vuoto con quel colpo "di troppo" che è caratteristica di molti batteristi thrash, di cui Dave è il più grande rappresentante. Basta sentire Public Display of Dismemberment (col suo nome molto black metàl, per citare gli Elio) per capire di cosa sto parlando. Il thrash dei primi dischi, passando per tutte le fasi e i successi di South of Heaven e Reign In Blood, prima di gettarsi a capofitto negli anni novanta e nei più stanchi anni zero, si ritrova tutto concentrato in brani veloci e potentissimi come la title-track, in apertura di disco e con un'introduzione d'assoluto impatto. Sugli assoli non serve dire niente, tutti sanno come sono i loro assoli. E Snuff non è da meno, con un riff quasi "arabeggiante". L'altro tipo di canzoni "storicamente" proposto dagli Slayer è quello più lento e pesante, lo sappiamo. E infatti eccole in Human Strain, con alcuni riff particolarmente estranei all'universo slayeriano, soprattutto a metà pezzo, Americon e Playing With Dolls, queste ultime due quasi simili a quelle band melodic death metal sempre più popolari (ma anche agli ultimi Slipknot, no?) in America e non solo, per concludersi poi con alcuni cambi non troppo banali, se consideriamo da chi provengono.
World Painted Blood non è né una sorpresa, né una delusione. Il suo unico fine è confermare la vena compositiva degli Slayer, sempre eccellenti nel forgiare pezzi metal graffianti e che ti prendono a calci in faccia. Piacciono a tutti quelli che capiscono qualcosa di metal, e hanno capito che ripetendo sempre le stesse cose per una vita non faranno mai morire questo genere. Se lo fanno altri li staremo ammazzando di critiche, ma chi siamo per parlare male degli Slayer.
Un ottimo disco metal, ancora.
Voto: 7.5
La carriera degli Slayer, lunga ormai ventinove anni, giunge ad un importante traguardo con questo "nuovo" disco. No, piano, ma questo è il nuovo disco degli Slayer? "World Painted Blood" suona come qualsiasi disco degli Slayer pubblicato nell'ultimo trentennio. Questo è il giudizio dato da molti, ma occorre, anzi sarebbe meglio, sprecare qualche parola in più per descrivere questo piccolo gioiellino metal di fine duemilanove.
Araya e soci sono stati accusati ad ogni uscita discografica di auto-plagio, assenza di evoluzione, sterilità. Anche di antisemitismo, ma questo è un altro discorso. La verità è che ai metallari losangelini non fotte veramente un cazzo di cambiare, e vogliono semplicemente spaccare il culo come hanno sempre fatto. Gli anni che passano si fanno sentire in concerto, ma non certo in un disco come questo, con una produzione eccelsa (ancora una volta affidata all'ormai produttore storico Rick Rubin, affiancato però dal celebre Fidelman), più moderna rispetto alla produzione più nota ma comunque sempre abbastanza "metallica", graffiante e sporca al punto giusto da non risultare troppo "major". La batteria di Lombardo è sempre martellante, precisa, veloce, con la doppia cassa esagerata a riempire ogni secondo vuoto con quel colpo "di troppo" che è caratteristica di molti batteristi thrash, di cui Dave è il più grande rappresentante. Basta sentire Public Display of Dismemberment (col suo nome molto black metàl, per citare gli Elio) per capire di cosa sto parlando. Il thrash dei primi dischi, passando per tutte le fasi e i successi di South of Heaven e Reign In Blood, prima di gettarsi a capofitto negli anni novanta e nei più stanchi anni zero, si ritrova tutto concentrato in brani veloci e potentissimi come la title-track, in apertura di disco e con un'introduzione d'assoluto impatto. Sugli assoli non serve dire niente, tutti sanno come sono i loro assoli. E Snuff non è da meno, con un riff quasi "arabeggiante". L'altro tipo di canzoni "storicamente" proposto dagli Slayer è quello più lento e pesante, lo sappiamo. E infatti eccole in Human Strain, con alcuni riff particolarmente estranei all'universo slayeriano, soprattutto a metà pezzo, Americon e Playing With Dolls, queste ultime due quasi simili a quelle band melodic death metal sempre più popolari (ma anche agli ultimi Slipknot, no?) in America e non solo, per concludersi poi con alcuni cambi non troppo banali, se consideriamo da chi provengono.
World Painted Blood non è né una sorpresa, né una delusione. Il suo unico fine è confermare la vena compositiva degli Slayer, sempre eccellenti nel forgiare pezzi metal graffianti e che ti prendono a calci in faccia. Piacciono a tutti quelli che capiscono qualcosa di metal, e hanno capito che ripetendo sempre le stesse cose per una vita non faranno mai morire questo genere. Se lo fanno altri li staremo ammazzando di critiche, ma chi siamo per parlare male degli Slayer.
Un ottimo disco metal, ancora.
Voto: 7.5
venerdì 9 aprile 2010
I Got A Violet - Backwash (New Model Label, 2009)
Tracklist
Tra garage e post-punk si trova un'instancabile sequela di imitatori e parainnovatori che cercano sempre più uno scampo allo svanire d'originalità collettivo che sta investendo il rock in tutte le sue derivazioni. Duole collocare i rodigini (miei conterranei) I Got A Violet in un contesto così tetro, ma c'è anche da dire che non stiamo parlando di un disco così banale e "diroccato" da non valere neppure qualche parola di più. A dire il vero il delta del Po, che ha ispirato non solo il booklet ma anche il nome del disco (Backwash vuol dire "risacca") sembra aver dato una buona carica a questo power trio di tutto rispetto, e il risultato non è per niente male.
Si comincia con una coppia di tirate garage da fare invidia ai White Stripes, ispirati come queste tracce dalle vecchie e fortunatamente non troppo coverizzatissime glorie di Captain Beefheart. Trattasi di Ghost Ranch e Priest Pube, seguite a distanza ravvicinata (per la breve durata del disco), seppur si parli dell'ultimo brano, dalla tanto semplice quanto d'impatto Junky's Elevator. Tutti e tre i brani sono composti con schemi "classici" del genere, non rifuggendo in divagazioni particolari ma attenendosi sempre ad un'accostamento tradizionale di elementi strofa e ritornello, pur con riff che riferendosi vagamente a contesti del passato (soprattutto anni settanta e ottanta), si collocano su una linea particolarmente catchy ed apprezzabile anche da chi non digerisce generi come questi. Il decollo avviene però con gli inserimenti melodici, quelli della buona e quasi "pop" (nella struttura) Brand New Dance e nel penultimo episodio della risacca, Candy Floss, con il suo piglio psichedelico e un senso di malinconia che neanche i Radiohead. Si retrocede nella banalità di quel filone tanto amato quanto detestato, rispettivamente da pubblico e critica, quello del post-punk e della new wave del dopo-suicidio di Curtis, con il singolo Swing Swang e Glitter Hairspray, dotate di una particolare potenza nonostante la poca originalità dei riff e dell'apporto vocale. Nonostante questo, fanno presa, eccome se fanno presa.
In un disco così non si tratta di salvare il salvabile, ma di trovare il giusto equilibrio tra novità (non ce ne sono) e contaminazioni/influenze/tributi utilizzati in maniera saggia e produttiva. Effettivamente alla mancanza di innovazione gli I Got A Violet pongono intelligentemente un contraltare enormemente funzionale, per il loro scopo. Trattasi dell'uso di uno schema compositivo sì classico, ma anche personale, creando così un sound da "demotape" di vecchia data, con quel gusto vintage che fa molto "scantinato", propria di questo genere a volte imprecisamente definito garage, che, se proseguiranno (come si spera) nella loro carriera potranno approfondire, far crescere e cristallizzare come una loro caratteristica.
Meritano.
Voto: 7.5
giovedì 8 aprile 2010
Errors - Come Down With Me (Rock Action Records, 2010)
Tracklist
Gli Errors sono nientepopodimenoche una formazione scozzese, da Glasgow, pupilli dei Mogwai che se li sono coccolati per un tour europeo facendoli conoscere anche a chi non aveva mai scartabellato tra il loro MySpace e social network vari. Dopo un disco assolutamente brillante, fresco ed innovativo, propongono un altro prodotto di grandissimo livello, con un pizzico di sperimentalismo in più, pur senza creare generi o modificarne altri.
Contiene, in ordine sparso: qualche grammo di eighties spremuti bene, una manciata di semi post-rock quasi connaturati pronti a germogliare in un probabile follow-up, arpeggini sottobosco di ballate elettroniche strumentali pseudo-progressive, suoni neanche troppo lo-fi ma che ricordano qualche vecchio sintetizzatore per Commodore 64. Bei tempi andati, con tutto il ben di Dio che nasceva. Va beh...
Definirli post-electro serve a poco, talmente poco che la definizione sarebbe sprecata. Però ci va vicino. Prendono con saggezza qualche cliché synth-pop ed elettronico per sistemarlo su nuovi canali, più vicini a quel tipo di colonna sonora che ti aspetteresti per una pubblicità d'auto (o una puntata di Top Gear). Provate voi, adesso, a rimanere impassibili davanti allo spettacolo che vi si pone davanti: ballad spezzate in momenti di furia drone, momenti di inesorabili rallentamenti da trip in acido, e forse anche la voglia di fuggire in un altro mondo, nella "spaziale" The Black Tent o nei toni smaccatamente post-cultura di Sorry About The Mess, con un suono di synth che ricorda colorazioni iridescenti e caleidoscopiche dai Grandaddy meno marcescenti e dai nostrani ...A Toys Orchestra. Lo so, gli Errors non li conoscono. Frenesia electro-dance con tunes particolarmente ballabili in Supertribe e A Rumor In Africa, quest'ultima facilmente riconducibile ai fasti del disco precedente, dove non mancavano le qui diffusissime possibilità di accostamento ai Battles o ai più commerciali LCD Soundystem. Si, ma quando non erano commerciali. Come suggerisce la partenza assolutamente azzeccata di Bridge or Cloud? con il suo nome vagamente psichedelico ed un accavallarsi di sintetizzatori quasi "console 16-bit".
L'album si fregia in ogni caso di una produzione che dire eccelsa sarebbe riduttivo. Ascoltate un brano qualunque, poniamo Germany, ed esponete le vostre tesi su come sia possibile ottenere un sound così limpido e "al passo coi tempi" senza spendere mesi e mesi a registrare in studi ipertecnologici. Roba da major, lontana dagli Errors. E infatti ci hanno messo molto meno tempo, e sicuramente non ci hanno speso una fortuna. Ecco un'altra figata.
Gli Errors non hanno ancora la stoffa per farsi conoscere dal grande pubblico però con un prodotto del genere, che rispetto al precedente garantisce una presa assoluta non solo su una forchetta di ascoltatori più ampia ma anche una miglior resa in studio (prima la differenza tra live ed album era veramente abissale), non possono far altro che assicurarsi un posto in prima fila per vedersi crescere nel numero di seguaci, magari rimanendo anche un po' interdetti. Perché la musica figa, negli ultimi anni, diventa sempre più appannaggio di tutti. Per me, problemi zero. Per voi? Gran disco.
Voto: 8.5
Gli Errors sono nientepopodimenoche una formazione scozzese, da Glasgow, pupilli dei Mogwai che se li sono coccolati per un tour europeo facendoli conoscere anche a chi non aveva mai scartabellato tra il loro MySpace e social network vari. Dopo un disco assolutamente brillante, fresco ed innovativo, propongono un altro prodotto di grandissimo livello, con un pizzico di sperimentalismo in più, pur senza creare generi o modificarne altri.
Contiene, in ordine sparso: qualche grammo di eighties spremuti bene, una manciata di semi post-rock quasi connaturati pronti a germogliare in un probabile follow-up, arpeggini sottobosco di ballate elettroniche strumentali pseudo-progressive, suoni neanche troppo lo-fi ma che ricordano qualche vecchio sintetizzatore per Commodore 64. Bei tempi andati, con tutto il ben di Dio che nasceva. Va beh...
Definirli post-electro serve a poco, talmente poco che la definizione sarebbe sprecata. Però ci va vicino. Prendono con saggezza qualche cliché synth-pop ed elettronico per sistemarlo su nuovi canali, più vicini a quel tipo di colonna sonora che ti aspetteresti per una pubblicità d'auto (o una puntata di Top Gear). Provate voi, adesso, a rimanere impassibili davanti allo spettacolo che vi si pone davanti: ballad spezzate in momenti di furia drone, momenti di inesorabili rallentamenti da trip in acido, e forse anche la voglia di fuggire in un altro mondo, nella "spaziale" The Black Tent o nei toni smaccatamente post-cultura di Sorry About The Mess, con un suono di synth che ricorda colorazioni iridescenti e caleidoscopiche dai Grandaddy meno marcescenti e dai nostrani ...A Toys Orchestra. Lo so, gli Errors non li conoscono. Frenesia electro-dance con tunes particolarmente ballabili in Supertribe e A Rumor In Africa, quest'ultima facilmente riconducibile ai fasti del disco precedente, dove non mancavano le qui diffusissime possibilità di accostamento ai Battles o ai più commerciali LCD Soundystem. Si, ma quando non erano commerciali. Come suggerisce la partenza assolutamente azzeccata di Bridge or Cloud? con il suo nome vagamente psichedelico ed un accavallarsi di sintetizzatori quasi "console 16-bit".
L'album si fregia in ogni caso di una produzione che dire eccelsa sarebbe riduttivo. Ascoltate un brano qualunque, poniamo Germany, ed esponete le vostre tesi su come sia possibile ottenere un sound così limpido e "al passo coi tempi" senza spendere mesi e mesi a registrare in studi ipertecnologici. Roba da major, lontana dagli Errors. E infatti ci hanno messo molto meno tempo, e sicuramente non ci hanno speso una fortuna. Ecco un'altra figata.
Gli Errors non hanno ancora la stoffa per farsi conoscere dal grande pubblico però con un prodotto del genere, che rispetto al precedente garantisce una presa assoluta non solo su una forchetta di ascoltatori più ampia ma anche una miglior resa in studio (prima la differenza tra live ed album era veramente abissale), non possono far altro che assicurarsi un posto in prima fila per vedersi crescere nel numero di seguaci, magari rimanendo anche un po' interdetti. Perché la musica figa, negli ultimi anni, diventa sempre più appannaggio di tutti. Per me, problemi zero. Per voi? Gran disco.
Voto: 8.5
domenica 4 aprile 2010
Linea 77 e Diva Scarlet @ Estragon, Bologna, 1 Aprile 2010
Alla faccia dell'invecchiamento. Qualche pezzo rallentato si, ma questi pestano fin troppo per l'età che hanno (non sono ancora agli -anta però si sa che per questo genere finire i venti è già traumatico).
Un concerto breve, come hanno sempre fatto. Intenso, come hanno sempre fatto. Distruttivo, come hanno sempre fatto. Peccato per l'Estragon semivuoto, anche se all'inizio sembrava la situazione dovesse andare molto peggio (e mi sembrava anche logico, visto che era giovedì e la gente che non si chiama come me dovrebbe anche lavorare). I Linea 77, formazione torinese ormai in giro da quasi vent'anni, hanno spaccato il culo, veramente. Tra la presentazione del nuovo disco, con canzoni di grande presa (il singolo Vertigine live è una bomba atomica), e le vecchie glorie come Fantasma, Evoluzione, Touch e Inno All'Odio, pogare era d'obbligo. Non mancavano neanche tutti i singoli del disco "Horror Vacui", dal quale citiamo le potentissime Il Mostro e Mi Vida, suonate impeccabilmente.
Sarà che le voci di Emo e Nitto sono sempre più stanche, ma i piemontesi sono veramente un'inarrestabile macchina da guerra, complici un basso ed una batteria che sparano fucilate, ed un suono pieno e carico come poche band italiane possono vantare. E infine, il movimento quasi tellurico dei fans divisi tra ragazzine abbracciate al fidanzato e pogatori folli che sprizzano sudore e voglia di far casino, a rendere il concerto ancora più intimo. Si sa che il pogo può essere tanto devastante quanto fraterno. Lungi da me decidere quale delle due per cui lascio a chi c'è stato l'ardua sentenza.
Quello che posso dire è che i Linea 77 nonostante l'avanzare inesorabile degli anni rimangono la crossover band più all'avanguardia in Italia, memori dei bei tempi in cui coverizzavano i Rage Against The Machine. In attesa del disco nuovo, veramente un gran inizio di tour.
ps. Il concerto è stato aperto dal quartetto femminile bolognese Diva Scarlet, che hanno proposto venti minuti di alternative rock davvero potente, con un paio di cover (Bjork e Il Teatro degli Orrori) a completare l'opera. Ottimo il sound, più che buona la tenuta di palco. Eccellente il sound. Pollice alzato.
venerdì 2 aprile 2010
The Maniacs - The Maniacs (Against 'Em All Records, 2009)
Tracklist
C'è chi si diverte a dare una durata temporale a un genere, come se gli stili musicali appartenessero solo e soltanto a certi periodi storici diventando poi così vecchi e fuoriluogo da dover essere abbandonati da chi li suona e, soprattutto, da chi li ascolta. Se per il punk rock non è mai così, essendo un genere che spopola più o meno da quando è stato creato, in tutte le sue neanche troppo diversificate sfaccettature, c'è però da ammettere che si sta sempre più stabilizzando, insieme alle due grandi famiglie dell'hard rock e del metal, come un'etichetta incapace di trovare scappatoie per evolversi, sempre troppo simile a sé stessa e che continua ad inciampare sugli stessi difetti.
I The Maniacs hanno qualche caratteristica diversa dai soliti Green Day, Offspring e nomi vari del panorama commerciale, e nonostante il genere sia quello (con qualche variante più hard rock) non tutte le canzoni hanno una struttura così "banale" come quelle delle band sopracitate. E' un punk/hard rock granitico, squadrato, senza tante variazioni sul tema ma molto diretto, che ha trovato in Olly degli Shandon/The Fire un produttore (e non che le band siano tanto diverse tra loro, peraltro), speranzoso di far ottenere la fama a questa formazione. Di meriti ce ne sono: una bella cover della celeberrima Maniac di Michael Sembello (avanti, la conoscete tutti...), un paio di potenziali hit per le stanche rotazioni di Virgin Radio (soprattutto Everyday) e un'attitudine pop nella composizione di alcuni passaggi comunque sempre potenti e all'altezza del genere proposto, come ad esempio My Idiot Dog e Money, Money, Money. C'è qualche incursione grunge, che li accosterebbe più ai Foo Fighters o ai Silverchair, ma non esageriamo con i paragoni. Parlasi di canzoni come Changing Myself, Crash e R. Democracy, dove non manca quello spirito punk rock che in questo caso è proprio ciò che trattiene le canzoni ad un livello qualitativo più basso rispetto a quanto potrebbero.
Niente in questo disco è particolarmente originale, neppure i testi. C'è da dire però che in un genere come questo, bistrattato in Italia e più generalmente in Europa, non avendo più niente da inventare, si gioca sull'orecchiabilità e sulla potenza, caratteristiche che i The Maniacs incarnano molto bene, proponendo quindi un lavoro fresco e a passo coi tempi. Se poi volevate sentire del "nuovo" punk rock, non so proprio dove lo potreste cercare. Ma non certo qui. Strumentalmente niente di eccellente, ma la produzione è piuttosto buona e nei pezzi più "calmi" (si fa per dire) si possono gradire particolarmente anche la qualità dei distorti più leggeri e del mix di batteria, simile a quello del gradevolissimo debut album dei The Fire, "Loverdrive".
In sostanza un bel disco che non ti propone niente di nuovo. E cosa vuoi farne di un disco così? Se sei un fan del genere, non lasciartelo scappare.
Voto: 6+
giovedì 1 aprile 2010
Marti Franco - Se Un Lupo In Una Giornata D'Estate... (Bibione Records, 2010)
Il 2010 è un grande anno per la musica italiana. Ogni genere ha i suoi musicisti a rappresentare quel filone, ma come la mettiamo quando si parla di un artista polivalente, impegnato a sfuggire da ogni etichetta per reinventare definizioni e delimitazioni varie. Trattasi di Marti Franco, icona della musica sperimentale rodigina, proveniente da una lunga tradizione familiare di suonatori di cornamusa presso bande militari e canto corale Le fondamenta della sua proposta vengono messe giù con intrigante genialità partendo dai tempi migliori del minuetto e passando per i toni del blues nero e della disco music, senza tralasciare l'industrial e la musica da camera.
Nel suo nuovo disco, dodicesimo della sua carriera per la Bibione Records, intitolato ironicamente "Se Un Lupo In Una Giornata D'Estate..." (torneremo poi sui testi per un'analisi più approfondita), nove brani più una bonus track particolare, una suite di nove minuti di clarinetto registrata al contrario il cui titolo, Introspezione Notturna, dalle forti vocazioni mozartiane, si può leggere mettendo in controluce il libretto. Parlando delle altre canzoni, spicca sicuramente Gratta e Perdi, geniale e dissacrante critica sul mondo delle lotterie e del bingo, con una coda di glockenspiel influenzata dal reggae, con inserimenti di chitarra elettrica in puro stile black metal. Oppure Guerra di Montanari, richiamo ai partigiani in una chiave storicamente "nuova". La ballad folk-pop d'ispirazione islandese (Bjork, Sigur Ros, ecc.) contaminata da heavy metal e un incedere che ricorda lontanamente le musiche utilizzate per la danza del ventre, è supportata da un commovente e passionale testo sulla dipendenza da cioccolata di un partigiano vicentino. L'emozionalità legata alle liriche continua sconfinata in Quindici Donne Sulla Cassa Del Porto, in cui la vita di coppia è parafrasata in una specie di vecchio ballo di gruppo celtico in cui quindici donne danzavano a ritmo di tanghi e mazurche sfrenate suonate da bonghi e tamburelli. Il vero lato sperimentale-virtuoso di Marti Franco emerge con prepotenza nel grido di disperazione di Luna di Miele In Kosovo, un canto di protesta che parte con un classico giro di sol su chitarra acustica, il cui suono viene poi sovrapposto a sintetizzatori techno e un gran lavoro di doppia cassa alla batteria, di chiara ispirazione thrash metal. Il finale post-rock crea l'atmosfera giusta, lasciando spazio ai 90 secondi di rumori di onde che si infrangono sugli scogli (registrate con un microfono al largo delle scogliere croate personalmente dal cantautore) che fanno da incipit allo spettacolare strazio di Siamo Tutti Luca, una suite in quattro parti della durata di quattro minuti l'una, contro la discriminazione verso gli omosessuali, scritta in risposta a Povia (dichiaratamente, vedasi booklet), in cui si parte da un chiaro inizio space rock, passando per improvvisazioni jazz, impennate di archi a citare Beethoven e Chopin, per poi terminare in un assolo di xilofono suonato, come ogni strumento presente sul disco, dal buon Marti.
I testi meritano un'attenzione in più. Si parla di quotidianità, come nella lode al caffè Senza Zucchero o nello sperticato elogio al pollice verde, Il Giardino Fiorito, che contiene un'imponente sezione di fiati a coprire un manto di tastiere registrate su due canali separati per creare un effetto cascata. Si parla poi anche di problematiche legate al sociale, come la presenza di barriere architettoniche per il protagonista di Il Tramonto del Minotauro, il quale non è il personaggio mitologico bensì un anziano signore che si ritrova montagne di multe perché l'ufficio dove doveva recarsi per pagarle non possiede una rampa per disabili. Franco usa un lessico volgare ma accostato a termini più raffinati ed eleganti, con un grande uso di metafore e metonimie legate ai campi degli alimentari e del lavoro, con qualche citazione di prodotti tecnologici per sottolineare il target "universale" del disco, rivolto sia a giovani inesperti che ad attempati cultori della musica sperimentale più d'avanguardia. Un disco per tutti i gusti. Da avere.
Voto: 8.5
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