domenica 31 ottobre 2010

I concerti del mese - Novembre 2010 (parte 1)

Novembre 2010 e una penisola triste.
Novembre 2010 e un Nord Italia arrabbiato e razzista che non ha più voglia di musica. Per farvela venire, aiutiamo i locali e i loro prezzi di merda, inconcepibili in un paese normale, pubblicizzando i concerti che reputiamo più interessanti. O, semplicemente, quelli di cui siamo a conoscenza.
Ecco qua.

01.11 BABY DEE & LITTLE ANNIE - Padova
02.11 PREMIATA FORNERIA MARCONI - Bologna
04.11 PUBLIC ENEMY - Bologna
05.11 CINEMATICS - Bologna
05.11 RYAN BINGHAM and THE DEAD HORSES - Madonna Dell'Albero (RA)
05.11 I MIGHT BE WRONG - Udine
05.11 JOYCUT - Bologna
05.11 JAMIE LIDELL - Bologna
05.11 LELE BATTISTA - Padova
05.11 MINISTRI - Ferrara
06.11 FOUR TET - Bologna
06.11 CUT - Bologna
06.11 WORA WORA WASHINGTON - Valdagno (VI)
06.11 CAPTAIN MANTELL - Codroipo (UD)

06.11 PONTIAK e ZEUS - Padova
06.11 PERSIANA JONES - Bologna
06.11 SLOTH MACHINE e MUSIC FOR AIRPORTS - Trieste
07.11 DIAMOND HEAD, GIRLSCHOOL e DEMON - Bologna
07.11 LIARS - Bologna
07.11 GENEVA JACUZZI - Ferrara
09.11 CRYSTAL CASTLES e MALE BONDING - Bologna
10.11 STEVE WYNN - Trieste
11.11 CARL BARAT - Bologna
11.11 ANATHEMA - Bologna
11.11 KOBENHAVN STORE - Porto Viro (RO)
11.11 LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA - Ferrara
12.11 TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - Pordenone
12.11 DILAILA - Padova
12.11 IL PARTO DELLE NUVOLE PESANTI - Trieste
12.11 ADRIAN BELEW - Madonna Dell'Albero (RA)
12.11 MOUNT KIMBIE - Padova
13.11 UOCHI TOKI - Codroipo (UD)
13.11 EINSTURZENDE NEUBATEN - Bologna
13.11 VELVET - Modena
13.11 FRIGHTENED RABBIT - Bologna
13.11 AUCAN - Bologna
13.11 THE SECRET - Trieste

14.11 PAUL SMITH - Mirano (VE)

sabato 30 ottobre 2010

Ochtopus - Niente Apparente (Ethnoworld SRL, 2010)


Tracklist:
1. Pop Corno
2. Cric
3. Turchetto
4. Rumori di Sottomarino
5. Optional
6. Il Sorpasso
7. A Quai
8. Texas
9. Mi Chiudo In Mi
10. La Val Dla Cana
11. Galeron
12. Polka Miselia
13. Matilde

Ravennati. In sette. Storpiano parole inglesi per fare titoli di canzoni e anche per darsi un nome. Ochtopus, cioè Gianluca Gardelli e Fabrizio Sabia (chitarra), Christian Vistoli alle percussioni e poi fagotto, corno, oboe e sax. Una formazione per niente banale. Dove sono il basso e la batteria, diranno i più saccenti? Lasciate stare, e ascoltate il disco. 
Delle tredici canzoni, tre non sono loro, ma sono fighe lo stesso, a partire dalla rivisitazione in chiave comica di Pop Porno de Il Genio, "Pop Corno". E poi il disco si evolve, diventa un'accozzaglia studiatissima di sudore, folk, afro e pop, il tutto avvolto da quell'aura apocalittico-strumentale che solo una band così poteva rendere. Si alternano momenti acustici, prettamente folcloristici e dotati di un anima quasi improvvisazionale, e altri più spinti, ma sempre supportati dalla varietà fornita da strumenti come i già citati oboe e sax. Non che il fagotto si trovi molto spesso in dischi del genere. C'è umorismo nelle "insegne" dei brani, come "Mi Chiudo in Mi" o "Polka Miselia", e viene trasportato con estrema noncuranza anche in musica, con risultati estremamente divertenti e validissimi a livello musicale: basta pensare che in alcuni momenti ricordano Bregovic, in altri musica sudamericana o africana (ma infatti reinterpretano un brano popolare colombiano, intitolato "Galeron"). 
E mentre sul retro della copertina si staglia il più celebre polpo della storia, Paul, noi ascoltiamo uno dei dischi-rivelazione dell'anno, fatto da una delle band che si sono fatte conoscere soltanto nei festival "di strada", come i Buskers, e che hanno intelligentemente costruito un disco vario, a suo modo ermetico, ma easy-listening, appetibile perché circondato da una mistica atmosfera pop che lo potrebbe addirittura far entrare in radio nonostante un songwriting per nulla semplice e banale. Astrazioni a parte, ascoltatevi "Rumori di Sottomarino" e "Matilde", non c'è niente di uguale e il filo comune lo si fatica a trovare, anche se la presenza di quei fiati rende il tutto omogeneo. Manca una consistenza che svolga la funzione di conduttore, ed è proprio per questo che questo disco non si può contestualizzare, sino a poterlo ascoltare in qualsiasi momento o condizione, per ritrovare il buon umore o per scacciarlo, per ballare o per rilassarsi. 
Cosa serviva di più di così ad un Italia stressata come quella del 2010? Un Lucano, o gli Ochtopus. 


Voto: 8.5

venerdì 29 ottobre 2010

Plurima Mundi - Atto I° EP (Autoprodotto, 2010)


Tracklist:
1. Ortus Confusus
2. Nei Ricordi Del Tempo
3. Laboratorio 30
4. Aria

Plurima Mundi è un progetto, vale la pena dirlo subito, molto interessante ma non alla portata di tutti. I sei musicisti che vi prendono parte sono tutti grandissimi strumentisti e in ogni secondo di questo EP lo si può tastare con immensa facilità ed immenso stupore. Massimiliamo Monopoli, al violino, e Francesco Pagliarulo, al pianoforte, danno quel tocco di vivacità in più ad un sound, nonostante tutto, orientato al classico piglio prog-fusion che conosciamo bene. La chitarra, delicata quanto precisa, di Zecca, fa il resto, accompagnata da una sezione ritmica (Massimo Bozza al basso e Pierfrancesco Caramia alla batteria) sempre al passo con il groove della canzone, tecnicamente perfetta e senza la minima traccia di sbavature od imprecisioni. A fare da collante la splendida voce di Grazia Maremonti, e la partecipazione, nel quarto pezzo "Aria" di Lino Vairetti, anche lui un musicista che non ha bisogno di presentazioni, con un curriculum di tutto rispetto. 
Nel disco troviamo quattro brani, tutti difficili da inquadrare con un'unica etichetta, ma che si stagliano senza problemi sopra un universo jazz, prog e fusion che poi si sporca anche di funky, musica etnica, blues e musica classica. Per converso, non si può certo sfuggire dal definire rock lo stampo del sound che viene impresso soprattutto dalla chitarra. Il brano più eccitato ed eccitante è senz'altro "Nei Ricordi Del Tempo", una prolissa ma efficace divagazione classica su ispirazioni progressive che sconfinano nel jazz del piano finale, con ampio spazio a virtuosismi e sezioni solistiche di chitarra e violino. Il brano più funkeggiante è senz'altro "Aria", anche se alcuni rimandi blues lo mantengono su una falsariga molto poco "happy".
 

Il mondo in cui i sei fanno collidere i vari generi citati è senz'altro un'inevitabile motivo di apprezzamento per questo EP. Resta da dire che, però, il modo in cui all'interno della loro presentazione la band considera questo prodotto innovativo e sperimentale rischia di farli sbandare verso l'autocompiacimento. In verità non si parla di nulla di nuovo, ma di un album raffinato, episodico (i brani sono tutti "momenti" a sé stanti), suonato perfettamente, con un'ottimo lavoro sui suoni nonostante sia un'autoproduzione e che lascia intravedere incredibili risvolti per il futuro.
Ottimo.

Voto: 8

giovedì 28 ottobre 2010

Mano-Vega - Nel Mezzo (DomusVega Records, 2010)


Tracklist:
1. Ondanomala
2. La Prova Del Vuoto
3. Nel Mezzo
4. Sfere
5. Sinestesia
6. Dal Rosso Al Blu
7. Opus
8. Magnum Opus
9. Dal Nero Al Bianco

Recensione:
I Mano-Vega sono l'ennesimo capitolo della storia progressive italiana. Siamo arrivati nel 2010 e questa scena non smette di proliferare, anche se, ovviamente, le particolarità e le caratteristiche originali continuano a diminuire, scusatemi il gioco di parole, progressivamente. Piano però, qui non si parla di prog storico influenzato dai magnifici seventies del nostro paese, ma di un prodotto che guarda con occhio piuttosto malizioso agli USA e al prog metal più moderno ed elettronico. In questo genere, tanto di cappello a chi riesce a non essere pallosamente ridondante, ma quando si parla di questo, nel duemiladieci vengono per forza in mente i DreamTheater, band che, è risaputo, sta veramente scoppiando nella continua ricerca di ghirlande e ghirlandine per abbellire un pacchetto ormai squarciato dagli anni. I Mano-Vega, per fortuna, non sono tra quelle band e producono un disco simpatico, nel senso che i fan del prog (più metal che rock, ma anche rock) potranno ascoltarlo e gradirlo senza troppi problemi, soprattutto se non hanno pretese.

Funzionano gli arrangiamenti, i modi in cui si dimostra con palese indifferenza un'abilità tecnica ottima in tutti gli strumenti, le scelte nei suoni (quasi tutte) e nei titoli, talvolta criptici, altre volte abbastanza terra terra da allontanare ogni simbolo retorico (invece chiaramente richiamato in "Sinestesia") che nella loro musica (e siamo alla lista delle cose che Non Funzionano) abbondano, vuoi perchè quando il prog lo vuoi fare ma ascolti troppo le band più moderne ti perdi, vuoi perchè non è cosa da tutti. Sia chiaro, questo disco non è scadente, né banale, anzi contiene degli sprazzi d'ingegno notevoli ed evidenzia un songwriting mai acerbo che questi ragazzi, così talentuosi, sono riusciti a convogliare in nove bellissime tracce. L'attenzione critica è da porre più che altro nella direzione di un'imitazione che qualche volta sconfina nel tributo, vedasi i riferimenti a band come Tool e Porcupine Tree (e perfino la copertina ce li ricorda), abbassando di poco il livello medio di tutto il lavoro. La forte presenza di elettronica richiama alla nostra mente anche alcune sferzate di Trent Reznor, non solo quello dei Nine Inch Nails più celebri ma anche quello del periodo pro-internet che l'ha visto pubblicare la quadrupla release Ghosts, acclamata solo da chi ne capiva davvero qualcosa di quello che lui aveva intenzione di fare. Non diteci che ai Mano-Vega Reznor non piace. Ottimo, in ogni punto, il dosaggio delle componenti elettriche e quelle, invece, elettroniche, con effetti e sintetizzatori, coadiuvati anche da programmazioni, che spuntano improvvisamente senza mai esagerare. Grande presenza anche del theremin, uno strumento difficile da usare ma che viene inserito qui e là tentando di non cadere nel burrone della sovrabbondanza, dal quale ci si salva per poco.

La band compone, in sintesi, un disco fragile ma ricco di spunti, citazioni, riflessioni e segni di un'intelligenza e una maturità artistica che si possono soltanto definire notevoli. Essere già una band "svezzata" al proprio debutto non è cosa da tutti, ma, come dichiarano all'interno del packaging di Nel Mezzo, questo lavoro è stato composto in sei anni. Se è vero, sono troppi. Se non è vero, spiegateci perchè. 
Fatto sta che a noi è piaciuto abbastanza. 

Voto: 7+

mercoledì 27 ottobre 2010

Fotoreport #14: Appino (Zen Circus) Live @ Tambourine, Seregno (MI) 20 Ottobre 2010

Fotoreport a cura di Monelle Chiti del concerto di Appino, cantante degli Zen Circus, al circolo Arci Tambourine di Seregno (MI), tenutosi il 20 Ottobre 2010. Guardatevi un po' di scatti.



 

martedì 26 ottobre 2010

Conqueror - Madame Zelle (Maracash, 2010)


Tracklist:
1. Margaretha
2. Indonesia
3. Occhio Dell'Alba
4. Fascino Proibito
5. Eleganza Perfetta
6. #21
7. Doppio Gioco
8. Da Sola
9. Ad Occhi Alti

Recensione:
I Conqueror sono una band messinese, attiva da qualche anno nel fiorente ma sommerso mondo del prog italiano moderno. Dico moderno perchè bisogna sempre fare le dovute distinzioni dal filone classico che continua con le imitazioni, che non funzionano più di tanto, e da quello moderno, che invece prende dal linguaggio delle grandi band degli anni '70 (in primis Area, PFM e Banco del Mutuo Soccorso, ovviamente) le sue caratteristiche di base per poi espanderle e contaminarle con qualcos'altro, magari di nuovo.
E' il caso di questo interessante quintetto, che ha deciso di elaborare la più alta tradizione progressive con una certa dose di psichedelia pinkfloydiana per proporre un album concettuale che parli di Mata Hari. Ebbene si, questo personaggio intrigante, fascinoso perché misterioso, svolge la triplice funzione di principio e character ispiratore dell'album, concetto base attorno al quale imbastire un lavoro complesso e dinamico, e infine banco di prova per la prosecuzione di un progetto che proprio nella sua ambizione trova anche un punto di forza.
In linea con il prog storico non mancano evidenti tentativi di far visualizzare agli occhi di tutti la bravura tecnica dei singoli, senza le esagerazioni accademiche di band che proprio in questi anni stanno buttando al macero la loro carriera (mi sto riferendo ai DreamTheater, ma non solo), ma con una capacità di adattarsi ai vari canoni del rock e della "canzone italiana" che veramente stupisce. Perchè alcuni momenti riflettono dei scenari pop che proprio nella canzonetta sentimentale sedimentata ormai nelle chart italiane da quando esistono trovano la loro espressione massima, con un trasporto e una vena romantica che i Conqueror sanno esternare e rinvigorire, ma soprattutto aggiornare, con un codice proprio e non dimenticandosi di fornire le chiavi giuste per decifrarlo. Questo può essere considerato un limite, ma il fatto che questo disco sia progressive pur restando accessibile, dà in realtà un punto in più al tutto.

Il disco di per sé è molto equilibrato: non si notano sovrappiù, né di parti strumentali né di parti vocali, ma soprattutto, neanche di barocche evoluzioni che si limitano semplicemente a dare il giusto tocco a certe parti, sottolineandole o andando, di volta in volta, ad alleggerirle o riempirle, colorarle, dipingerle. Come veri artisti, non lasciando in disparte i fiati e le tastiere, strumenti che vanno molto "di moda" ultimamente ma che di certo non sono utilizzati, all'interno delle canzoni dei cinque, con finalità commerciali. Se ci fossero più dischi così, Demetrio Stratos starebbe sorridendo ancora adesso, ma forse preferirà continuare a gorgheggiare con la sua splendida voce nel cimitero di Scipione Castello, abbozzando solo un semplice ghigno di sfida quando band come queste escono dall'anonimato. In un paese artisticamente sepolto, come l'Italia.  

Voto: 8.5

lunedì 25 ottobre 2010

Marcello Capra - Preludio Ad Una Nuova Alba (Electromantic, 2010)


Tracklist:
1. Preludio

2. Danza Verde
3. Omaggio A Lulù
4. Corsari
5. Danza Turchese
6. Gocce
7. Tipsy Guitar
8. Presagio
9. Danza Russa
10. La-Sol-Fa-Mi
11. Bassa Marea
12. Vento Teso
13. Canto Di Mare
14. Tracce Mediterranee
15. Aura

Marcello Capra è un famoso chitarrista torinese che arriva così al suo ottavo lavoro da solista, pubblicando per la prima volta con Electromantic. Un cambio di casa che non corrisponde ad un cambiamento musicale, seguendo un percorso lirico-poetico abbastanza coerente con il suo passato e che, ancora una volta, nonostante la sua imprescindibile abilità alla chitarra, ci fa fermare a riflettere più e più volte sopra le parole, quelle vere, quelle che raccontano di qualcosa di reale e di condivisibile, grazie a un insieme di termini e riferimenti che toccano l'immaginario collettivo con una dolcezza che si può solo equiparare al modo in cui il buon Capra solletica la sua chitarra.
Ma aspettate un secondo, questo è un disco strumentale! E cosa ci sembrava stessero dicendo quelle parole che sentivamo poco fa? Semplicemente, non sono parole. Il modo in cui una chitarra può raccontare una storia è incredibile, così com'è incredibile il modo superbo in cui lo fa Marcello. Entriamo seriamente all'interno del disco, concentandoci sui suoi contenuti.

Il tema dominante è quello dell'acqua, del mare. I corsari la cavalcano, la "Bassa Marea" ne indica lo stato, il "Canto Di Mare" le melodie, così come anche in altri brani si fa riferimento a questo elemento che condiziona, più o meno, la vita di tutta l'italica stirpe, così circondata dal mare da esserne a volte soffocata, altre volte ammaliata. I titoli non sempre riflettono poi la canzone, almeno per il mood che a me hanno provocato alla prima lettura, ma si può comunque parlare di una full immersion all'interno di un'opera che sfugge all'essenza di concept album solo di poco. Diciamo da una porta sul retro. E neanche troppo grande.
Quello che si può ascoltare è vagamente classicheggiante. Ci sono riferimenti piuttosto precisi ad una scena cantautorale ora sommersa ma che negli anni sessanta e settanta si fondeva sobbalzando con il prog degli astri nascenti che popolavano tutto lo Stivale, e la chitarra svolge una funzione d'accompagnamento che comunque ha connotazioni melodiche di tutto punto, sottolineando alcuni passaggi come fosse una vera e propria orchestra a dominare i brani, per provocare risposte emotive precise di fronte all'evocazione di particolari metafore o allegorie. Nonostante la retorica sia comunque ridotta all'osso, o meglio, non esista. Nonostante la musica sia d'autore ma al tempo stesso alla portata di tutti.
"Preludio Ad Una Nuova Alba" è un album che moltissimi appassionati di musica popolare italiana potranno ascoltare senza porsi troppe domande e lasciandosi cullare da quell'energica tenerezza della chitarra dell'artista torinese che tanto lo distingue da molti altri, nell'alternarsi di momenti impetuosi ed altri più rilassati e distesi, trasportati solo dalle parole che fluiscono dalle sei corde. Libere di essere interpretate come il nostro cervello in quel momento vuole sentirsi cullare.
Ancora una volta, l'acqua. Non annegatevi.

Voto: 7.5

domenica 24 ottobre 2010

Domenico Cataldo - The Way Out (Videoradio, 2010)


Tracklist:
1. Limbo

2. Pay Attention
3. Awaiting
4. Land of Desire
5. The Way Out
6. I'm Searching For A New Identity
7. Finally I Can See The Universe

The Way Out.
Un titolo che come dichiarazioni d'intenti potrebbe funzionare, soprattutto se a pronunciare la fatidica frase-titolo è un chitarrista giusto al terzo lavoro, che spera - interpretazione del sottoscritto - di uscire dalla nicchia in cui si ritrova, per portare la sua fusion fuori dal bunker dell'anonimato. Quindi, out. Ma senza esagerare, è meglio dare pane al pane e vino al vino, perchè il buon Domenico Cataldo ha già avuto tutte le lodi del caso quando ha pubblicato i lavori precedenti, accolti in maniera piuttosto calorosa dalla stampa specialistica. Incanalandolo, ovvero, nel settore prog. Quello che di per sé raggruppa, ormai, anche la fusion, in un'Italia che di musica capisce sempre meno. Pistolotti critici a parte, è evidente che chi ha composto The Way Out è un musicista con le palle, e dirlo con la massima schiettezza più che un compito è un dovere vero e proprio che il recensore si deve dare di fronte a una forma d'arte che, come la musica, è sempre soggettività tranne nei rari casi in cui la bellezza di un arrangiamento e la complessità (positiva) di un songwriting vengono sparati in faccia a tutti quanti, senza la possibilità di criticare o di tirarsi indietro. Questo è uno di quei casi, e nonostante ci possa essere senza problemi più di qualcuno pronto a storcere il naso, magari per difficoltà a comprendere quello che si sta insinuando gelidamente nel tuo udito quando ascolti "Awaiting", in tutti i suoi fulgidi sei minuti e quarantacinque, basta anche la più misera briciola di cultura musicale per riuscire ad apprezzarne almeno la vena artistica. Questo pezzo, insieme a "Pay Attention" fa parte di una combo di vecchi brani riscritti e nuovamente registrati proprio per questa nuova release, e anche se devo ammettere di non conoscere le versioni originali, posso comunque esprimere tutta la mia approvazione per la maniera in cui ogni singolo suono è aggiustato al punto giusto per sottolineare passaggi armonici, cambi di tempo, modificazioni melodiche che intervengono anche a dare tagli decisi a parti che, qualche volta, tendono a prolungarsi un po' troppo. Forse troppo solo per me, non abituato a masticare fusion.

Le sette canzoni scorrono tutte piuttosto veloci. L'amalgama di rock classico, funky, progressive, fusion e jazz, tra le influenze più ovvie ed evidenti, è il modo migliore per definire compattamente il tutto. Un disco che più che un insieme di pezzi è un blocco unico di prog-fusion, come la definiscono online, che tutti gli esperti del settore apprezzeranno sia per l'originalità e la scioltezza della composizione in ogni singolo secondo di , sia per l'assenza di momenti pesanti, noiosi e lenti. Questo tuttavia non regala al disco particolari pregi in termini di orecchiabilità, e anche se c'è chi può dire "è prog, non serve mettere il singolo da radio!", c'è chi ripone molte speranze su questo quando prova ad acquistare un disco a scatola chiusa. E qui arriva la verità, a salvare il culo al disco: nessuno compra dischi a scatola chiusa, quindi diventa automaticamente più probabile che sia uno dei pochi lettori di Good Times Bad Times a scoprire Domenico Cataldo rispetto a chi preferisce passare le giornate a ravanare avanti e indietro tra le bancherelle di negozi, scaffalate varie e ceste delle offerte. Dove probabilmente un disco così non lo troverete mai, e non solo perchè non se lo merita. 
Fantastico. 

Voto: 9

sabato 23 ottobre 2010

Pazi Mine - Pazi Mine (Super Fake Recordings/A Buzz Supreme, 2010)


Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist:
1. Witness of Recurring Dream
2. Here
3. Standstill
4. The Waves You're Cradled
5. Dissect
6. Square The Circles
7. Rip Yourself Open, Sew Yourself Shut
8. The Thaw 

E' chiaro fin da quando il disco inizia che se fosse stato cantato in italiano sarebbe stato più interessante. La musica cantata in inglese ha stancato, tanto che se ne stanno accorgendo sempre più band, come gli Zen Circus e, da ultimi, anche i veneti Love in Elevator.
I Pazi Mine invece vengono dai luoghi del Po, quelli della pianura padana "terminale", dispersa nella provincia ferrarese, e trovano comunque spazio per insediare il loro alternative possentemente impregnato di grunge anni '90 che arriva come una sassata sopra una scena che è morta da tempo. Quello che non ci torna è semplicemente il significato, ma chiedersi queste cose è ormai sinonimo di "pretendere troppo" dalla musica italiana. Quindi, lasciando in disparte l'assenza di innovazione, ci possiamo concentrare sul godersi un disco che per il resto non ha nulla da invidiare a grandi mostri di qualche anno fa. 
Non tutto il disco è grunge, non fraintendete, anche se l'atmosfera è quella. Brani come "Standstill" e "Witness of Recurring Dream" ne riprendono solo lo spirito, utilizzando riff che in certi frangenti si accostano più ai Kyuss (in quelle poche schizofrenie melodiche che hanno avuto) che a Mudhoney e band analoghe, nonostante le similitudini si possano senz'altro contare numerose. Un elemento che ti dà la giusta dimensione di cosa accade all'interno di questo self/titled è l'ensemble ritmico. Basso e batteria sembrano costantemente impegnati a trovare il filo giusto da seguire, utilizzando pattern piuttosto granitici e "dritti", per schematizzare al massimo un settore che funge sempre più da cuore pulsante del disco man mano che si continua e si approfondisce l'ascolto. Questo, per chi mastica poco la mia lingua inutile, significa che spaccano di brutto. Proprio così, perchè in brani come "Dissect" la linea di basso svolge più che una semplice funzione di accompagnamento, sostituendo in molti frangenti anche la chitarra come strumento melodico portante. E, per altro, è proprio questo uno dei momenti più alti del disco (lo supererà solo "The Thaw"). L'uso della chitarra regala altre sorprese: in tutte le sue declinazioni dentro le otto tracce che compongono il lavoro regala una letale combinazione di relax ed aggressività che non cede mai alla tentazione dell'esagerazione sempre dietro l'angolo quando si tenta anche di fare i conti con ascolti che sicuramente comprendono tutte le band di Corgan (tranne gli Zwan). E in effetti "Here" e "Square The Circles" ricordano moltissimo i primi Smashing Pumpkins, lasciando però perdere l'aspetto vocale che merita un discorso a parte. Il contributo vocale di Sara Ardizzoni, già al lavoro con Pilar Ternera e altri progetti molto interessanti, in alcuni momenti perde terreno rispetto alla "concorrenza" messa in gioco dal modo in cui tutto il resto è costruito, con una grandissima dote di songwriting dimostrata da tutti i musicisti (ed impreziosita anche da Ferliga degli Aucan, Gionata Mirai del Teatro degli Orrori e Giulio Favero in veste di "collaboratori occasionali", come si usa nel gergo del lavoro giovanile a basso costo) anche quando la situazione si fa più rovente, per esempio nel già citato "The Thaw" che nonostante i suoi sei minuti risulta di facile digestione, proseguendo diritto senza mai incespicare né sostare a fare una pisciatina dietro un lampione. Avevamo lasciato il discorso alla voce, beh nonostante la superiorità di tutto il resto, le linee vocali funzionano e danno il giusto contributo ad un album che ha dalla sua anche una certa orecchiabilità delle metriche e delle melodie, proponendo brani che sappiano conquistare una fetta di pubblico vasta ma controllata, facendo leva anche su una scelta dei suoni congeniale. 
Allora rifacciamo un attimo di conti. Il disco è ben suonato, ben prodotto, ben composto e si piazza nel bel mezzo di un discorso iniziato da molti ma sempre lasciato a metà, e come ricordano anche Warpaint e Beach Fossils si può sempre iniziare. 
Buona prova. 

Voto: 7+

venerdì 22 ottobre 2010

Lingalad - La Locanda Del Vento (Lizard Records, 2010)


Tracklist:
1. Il Profumo Del Tempo

2. Gli Occhi Di Greta
3. Il Colpo E La Cura
4. Toni Il Matto
5. Il Mio Nome
6. La Pietra di Erice
7. Dono Di Maggio
8. Lio
9. Aria Oltre Le Stelle
10. I Boschi Della Luna
11. L'Abbraccio Del Noce
12. Alice
13. Madre Mia
14. Nella Pioggia
15. Il Mio Nome (Strumentale)

Recensione:

I Lingalad sono una band italiana, geograficamente collocata attorno al lago di Como, dove una volta fioriva gloriosa la popolazione degli Orobi. 
Oggi ci sono invece bergamaschi filoleghisti incazzati e musicisti con le palle, una città che artisticamente, vuoi per reazione ad una posizione politica troppo estremista e populista, vuoi per una questione di DNA, ha sempre prodotto grandi band, perlomeno nel settore alternative degli ultimi anni. Per quanto riguarda i Lingalad, il loro universo è un altro, sono al loro terzo lavoro e hanno scelto di pubblicarlo per l'etichetta veneta Lizard Records, una realtà piuttosto viva e che dà ampio spazio a band di questo tipo, come internet insegna.
"La Locanda Del Vento" è un disco piuttosto lungo, composto di 15 brani, che si allarga molto, dando una delicata interpretazione di quello che è il loro mondo, dipingendo già stralci di realtà utilizzando i titoli, che sembrano molto nomi di fiabe di Esopo o di Rodari, o magari anche qualche libro fantasy (innegabile elemento di ispirazione). Vedasi, per questo, nomi di brani come "I Boschi Della Luna", "La Pietra di Erice" o il più poetico "Il Profumo Del Tempo". Tradizionalmente parlando, questo album ha un piglio che sa molto di cantautorato italiano anche se lo fa suo, esprimendolo con un linguaggio completamente diverso. Motivo di lode per tutto il disco. La sua caratura è quella di "album cantastorie", approfondendo un filone tematico abbastanza naturalista, in senso letterale più che letterario, e intimista, facendo leva sui ricordi, sull'immaginario personale che può diventare collettivo, e soprattutto sull'immaginazione, generata sia da specifiche metafore ed allegorie che da suoni ed arrangiamenti particolari. Queste caratteristiche orientano il disco smaccatamente verso un'impronta folk, ed è proprio quello che, dopo due o tre ascolti, si fa chiaro per tutti. Canzoni come "Madre Mia" e "Lio" possono confermarlo a piene mani, qui si tratta di una serie di racconti che trovano rispettivi significati e connotazioni non tanto nell'attualità, ma nella letteratura.
Il tutto rivestito di rock. L'album è prodotto molto bene e i suoni sono sempre azzeccati e ben calibrati, soprattutto quando si mettono in gioco overdrive e distorsioni. Nel disco anche molti ospiti, come il cantautore Davide Camerin e il doppiatore del personaggio tolkeniano Gandalf nella serie di film del Signore degli Anelli Gianni Musy. Fra gli altri.
Un disco completo, semplice ma con delle personalizzazioni non da poco e che gioca molto sullo spirito folk e tradizionalista della musica italiana. Con fioriture celtiche che non lasceranno l'amaro in bocca a nessuno.

Buono. 

Voto: 7.5

giovedì 21 ottobre 2010

Hot Poop - Numero 2 - NaStrasse


Intelligenti, filosofici e colti, i NaStrasse, composti da Marco La Cascia (voce e chitarra), Daniele Baldo (chitarra), Eleonora De Agostini (basso e voce), Alessio Simoni (synth, tastiere e voce) e Paolo Pregnolato (batteria), potrebbero essere definiti come "cantautorato sperimentale".
Il lavoro di cui parliamo oggi è intitolato "Qualcosa è cambiato" ed è il secondo prodotto del gruppo, dopo un primo omonimo disco pubblicato nel 2008. Il disco è composto da cinque canzoni apparentemente semplici e immediate, ma con una componente bizzarra che le rende molto interessanti. Aprono l'album "Ciao" e "Il Militare" due riusciti brani rock dal ritmo coinvolgente e, nel caso del secondo, con una riuscita parte corale. "Tan-Dam" offre un buon contrasto tra una musica prevalentemente allegra e una parte vocale (e di sintetizzatore) abbastanza triste, e ha come ospite Marco Putinato al sassofono, così come nella seguente "Cuki".
I due pezzi più lunghi, però, sono quelli più interessanti, ovvero l'appena citata "Cuki", quasi psichedelica e costituita da una parte quasi dissonante e una eccellente coda nella quale la musica sembra quasi sciogliersi, durante la quale il sassofono offre sonorità molto vicine ai Roxy Music, e "Di tutto e con niente", dalla struttura vagamente a la Captain Beefheart e con un bel finale a sorpresa e ottime voci.
Un buon lavoro, insomma: bizzarro ma non allucinato, orecchiabile ma non banale, colto ma non pomposo. Ben fatto!


GTBT: Sul vostro sito si parla di "5 percorsi diversi, lontani, collaterali, vicini, 5 strade, 5 modi di intendere e fare musica." . Cosa intendete dire precisamente?

NaStrasse: Siamo 5 persone che prima di formare i Nastrasse hanno avuto altre esperienze musicali, altri ascolti, anche molto distanti da ciò che facciamo ora. E’ questo il motivo del nostro correre su parallele, più o meno vicine, poi in un punto, per una qualche ragione, abbiamo deciso di incontrarci e percorrere una strada comune.


GTBT: La componente filosofica nella vostra musica mi sembra abbastanza alta da spingermi a chiedervi quali sono i vostri autori preferiti.

NaStrasse: Per quanto riguarda gli arrangiamenti, tutto è frutto di quella distanza di cui ti dicevamo, che invece di creare scontri o predominanze ha finito, col lavoro e la pazienza, per dar vita a qualcosa di nuovo e diverso, amalgamando il rock, il pop e il folk in uno stile tutto nostro. I testi invece li scrive personalmente Marco e le influenze, oltre a quelle prettamente musicali come Bob Dylan, Francesco De Gregori, Nick Drake, Georges Brassens, John Lennon, Woody Guthrie, Fabrizio De Andrè, per citarne alcuni, da buon lettore ha preso a modello diversi scrittori e poeti come i beat Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac, o altri più o meno moderni come T.S. Eliot, Eugenio Montale, Ezra Pound, Walt Whitman, Charles Bukowsky, Raymond Carver, Dino Campana e altri.


GTBT: Ho apprezzato molto le voci parlate sovrapposte al termine di "Di tutto e con niente". Com'è nata questa idea?

NaStrasse: L’idea era di creare una “scena” sonora...un passaggio tra la prima e la seconda parte del demo. Ci sarebbero dovuti essere altri suoni; bottiglie rotte, una porta che sbatte. L’ascoltatore doveva essere trasportato da un luogo (i suoni in sottofondo sono la registrazione di un vero concerto) con il vocio delle persone (anche queste vere!) in un luogo nuovo...il tutto è stato compiuto a metà!!


GTBT: Nel 2008 avete prodotto un album collegato ad un libro di poesie, tra il 2009 e il 2010 avete realizzato questo "Qualcosa è cambiato". Nel 2011 continuerete su quest'ultima strada oppure cambierete ancora direzione?

NaStrasse: Difficile a dirsi...speriamo soprattutto di continuare. Con il lavoro, le distanze, il tempo, si fa sempre molta fatica. Questo “Qualcosa è cambiato” è quello che siamo ora, quello che sentiamo di dire adesso. Il futuro può essere intravisto, nel senso che idee nuove e diverse ce ne sono però dire che cambieremo ancora direzione è un’affermazione impegnativa che per ora tendiamo ad escludere.




Sito ufficiale
Myspace

martedì 19 ottobre 2010

Shellac & Bellini Live @ Estragon 08 Ottobre 2010


RECENSIONE E FOTOGRAFIE DI ELEONORA VERRI

Sono emozionata, è la prima volta che vedo dal vivo gli Shellac,il gruppo del mitico Steve Albini.
Chi non conoscesse questo signore è pregato vivamente di ritornare nella cameretta ad ascoltare i gruppetti usa e getta che vanno tanto di moda in questo momento.
Steve Albini, dall’aspetto vagamente nerd, è sicuramente una delle figure più importanti della scena musicale mondiale degli anni ’80-‘90. Oltre ad essere il cantante degli Shellac è ben più noto per il suo lavoro di produttore per gruppi come Nirvana, Sonic Youth, The Stooges, Mogwai, The Jesus Lizard, Pixies, Jon Spencer Blues Explosion e molti altri.
Purtroppo il live a Bologna è stato spostato per problemi burocratici dal Locomotiv all’Estragon, noto per avere un’acustica pessima se non la peggiore di tutti i club musicali frequentati nella mia vita.



Per fortuna prendo posto davanti e almeno per questa sera sarò in grado di godermi il concerto anche se sotto la solita cappa fumosa, in barba ai divieti di fumo.
L’apertura del concerto è affidata al gruppo Bellini formato da Agostino Tilotta e Giovanna Cacciola già membri degli storici Uzeda, dal bassista Matthew Taylor (The Romulani) e il batterista Alexis Fleisig (Girls Against Boys, Soulside).
Gruppo sorprendente che mi ha lasciato a bocca aperta sia per l’energia pazzesca del batterista che per la bellissima voce della cantante, a tratti struggente quando esegue la canzone “The Thin Line”.
Numeroso il pubblico che applaude,accorso da più parti d’Italia per vedere gli Shellac ma che premia i Bellini con l’ascolto e il gradimento.
Sono le 23.00 e finalmente vedo spuntare Steve Albini, Bob Weston e Todd Trainer che montano la loro strumentazione.
Il pubblico composto sia da ragazzini di primo pelo che da over 40 non vede l’ora,è impaziente e quando attaccano inizia il pogo.
Fanno pezzi memorabili come “Steady as she goes”, “Crow”, “My Black Ass”, “Prayer to God”, “The End Of Radio”, “A Minute”, “Squirrel Song”, “Boycott”, “ Ghosts”.
Suoni perfetti, la chitarra tagliente di Steve, il basso distorto di Weston,il batterista che picchia duro (e che mi ricorda tanto Jack Skeletron), si divertono e ci danno dentro.
E’ un concerto pazzesco, Trainer è sconnesso dalla realtà e gronda di sudore, il bassista, chiede al pubblico di fargli delle domande e la sottoscritta si imbarazza e non poco per la marea di cagate che la gente riesce a chiedergli tra cui “cosa ne pensi di Lady Gaga?”, decisamente momento FAIL.
Steve Albini ci offre il suo repertorio di conoscenza della lingua italiana composta esclusivamente da bestemmie e dalla parola spaghetti alla bolognese (qualcuno lo avverte che non esistono?).
Il concerto dura un’ora mezza, le mie orecchie fischiano e fischieranno anche i giorni seguenti, ma ne è valsa la pena.

lunedì 18 ottobre 2010

[DOPPIA RECENSIONE] Ministri - Fuori (Universal, 2010)


Tracklist: Qui 

RECENSIONI:
1. A cura di A.B. (nuovo collaboratore)

Fuori è il terzo album studio dei Ministri, gruppo punk-rock milanese, del quale colpiscono subito le tipiche armonie tormentose, i ritmi incalzanti e i testi “impegnati” sempre travestiti da una visione adolescenziale. 

Il singolo e traccia numero uno del disco (Il Sole), si presenta con un caldo rullante elettronico di batteria, sposo ideale per il groove ossessivo di chitarra. Quest’ultimo viene “rivisitato” ed inserito anche nel decimo brano (Che Cosa Ti Manca).
Nella seconda traccia (Gli Alberi) da evidenziare - noi saliremo sopra gli alberi/ sputeremo in testa a chi si avvicinerà/ guarderemo da lontano le guerre che incendieranno la nostra città - frase che mette in luce tutta la filosofia della band disposta anche a veder bruciare la propria casa piuttosto che “scendere dalla pianta”. Libertà non è stare sopra un albero.
- Noi fuori dalle radio - è lo slogan del quarto brano (Noi Fuori), - è dall’alto che inventano il pericolo - quasi commuovente sapendo che il lato oscuro della luna dei Ministri si chiama già da un po’ Universal.
Cosmiche le atmosfere create dal synth usato per accompagnare il brano numero cinque (Tutta Roba Nostra).
Nell’ottava traccia (La Petroliera), risalta la ritmica lineare di batteria elettronica; la melodia dolce e malinconica ha lo scopo di concentrare le riflessioni su di un testo nobile solo per ideali. 

Nel complesso il disco si fa ascoltare, poco impegnativo sia musicalmente che letterariamente, a portata d’ascolto dei più. 

Voto: 4  

2. A cura di Emanuele Brizzante

Il terzo full-length dei Ministri arriva come una sassata sulla testa di chi si aspettava l'album carico che le anteprime ai loro concerti primaverili ed estivi avevano lasciato prospettare. In questo "Fuori" ci sono elementi di continuità con la vecchia produzione dei Ministri (il primo disco e l'EP "La Piazza), infettata di immediatezza punk rock e testi politicizzati e diretti. Nel secondo disco, come tutti ricorderanno, il mostro Universal aveva già iniziato a mietere le prime vittime, cogliendo i tre sul fatto nel tentativo di "commercializzarsi", con alcuni brani carini ma molto più banali come "Tempi Bui" e "E Se Poi Si Spegne Tutto". L'anima di questa nuova uscita è quella più smaccatamente pop, libera da quelle finzioni che prima il trio metteva in atto per nascondere questa loro già presente attitudine, e lo dichiarano in "Una Questione Politica", il manifesto del loro cambiamento e servilismo alle logiche major che viene attestato con la frase "Si, siamo cambiati è vero". L'importante è ammetterlo, in faccia ai fans che tanto ci avevano creduto, ma che sono disposti sempre a credere a tutto quando ci sono davanti le tre giacche più famose d'Italia. Ma, piano, non stizzitevi, piacciono molto anche a me, c'è solo da ammettere in cosa pecca questo nuovo loro lavoro.

I contenuti del disco non meritano una gran discussione. I pezzi si dividono in quelli punk-rock alternativo di "Il Sole", "Noi Fuori", "Io Mangio La Terra" e "Che Cosa Ti Manca", e in quelli pop-tastieristico degli altri brani. L'impressione è che, nei brani lenti come "Vestirsi Male" e "Tutta Roba Nostra", i Ministri abbiano preteso troppo da loro stessi. E' evidente che comporre brani calmi non è il loro forte, anche se "La Petroliera" è una perla da non sottovalutare, forse tra le migliori degli ultimi due album. I testi forniscono la solita dose di qualunquismo demagogico, con la classica serie di frasi "proverbiali" indimenticabili destinate a finire su bacheche di Facebook e commenti di YouTube, pur senza capirne il significato, che non sempre hanno. E lo si vede lontano un miglio. I ritornelli sono tutti molto radiofonici: quello de "Gli Alberi" è il migliore, così come la canzone, la migliore del disco e azzeccatissima come primo singolo, il peggiore è invece quello di "Due Dita Nel Cuore", che non funziona assolutamente, condannato anche dalla parola "cacciati" che più cacofonica di così non poteva essere. L'altra faccia della medaglia è però quella di una grande interpretazione alla voce di Divi (molto più di quella mediocre al basso ovviamente), protagonista di una performance che sottolinea e valorizza pienamente il suo timbro particolarissimo immediatamente riconoscibile a chiunque ascolti il genere in Italia negli ultimi cinque anni. Pollice verso invece per alcune scelte nel sound, in primis l'eccesso di tastiere "senza saperle suonare", il tentativo di utilizzare pattern elettronici di batteria che rovinano qualsiasi canzone dove siano inseriti e un'accozzaglia veramente fanfarona di chitarre e sintetizzatori in alcune sezioni particolarmente cariche, con l'unico risultato di rendere meno potente e comprensibile la parte di canzone in questione.

Il disco funziona ma è assolutamente inevitabile notare la flessione e la diminuzione di qualità rispetto alle prime uscite discografiche. Attenzione per il futuro. 

Voto: 6.5

domenica 17 ottobre 2010

Of Montreal - False Priest (Polyvinyl, 2010)




Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist:
1. I Feel Ya Strutter
2. Out Riotous Defects (ft. Janelle Monae)
3. Coquet Coquette
4. Godly Intersex
5. Enemy Gene (ft. Janelle Monae)
6. Hydra Fancies
7. Like A Tourist
8. Sex Karma (ft. Solange Knowles)
9. Girl Named Hello
10. Famine Affair
11. Casualty Of You
12. Around The Way
13. You Do Mutilate?

Incredibile.
Un disco incredibile.
Liquidarlo così basterebbe a descriverlo perché probabilmente qualsiasi parola si aggiunga non farà che deturparne la natura.
La creatura del policentrico Kevin Barnes, appoggiata da decine di musicisti che contribuiscono al disco da membri (più o meno) della band, continua a sfornare dischi sempre diversi, seguendo un percorso evolutivo che ha ormai toccato qualsiasi declinazione del rock passando anche per funk, pop, brit e alternative. Stavolta ci tocca ballare, con un pizzico di autoironia e svariate divagazioni dall'animo prettamente seventies. Il coloratissimo artwork ci porta immediatamente nel caoticissimo mondo di Kevin, che si espande nella sua musica senza sosta, e il risultato è evidente, nonostante non sia invece evidente il significato della copertina.

Il funk in realtà è rimasto, ricordando in alcuni passaggi vaghe sfumature di Prince "e tutta quella roba lì", rifatto con una qualità che non si sentiva da decenni. Il modo in cui fluttua in ogni singolo pezzo e in cui si congiunge con un rock inteso più come forma d'arte che come genere musicale, lascerebbe stupito chiunque. Anche perchè sembra sempre che ci sia un intento seminascosto di voler vendere e non vendere, insomma un modo di conciliare i fans delle due sponde.
I titoli (e le dinamiche del disco) aprono le strade ad un'interpretazione sessuale delle tematiche di tutti i brani, ed effettivamente in rete si parla di concept album in questo senso. Ma Barnes non è certo un segaiolo, perchè di tempo a comporre (o perlomeno concepire) idee come quelle che troviamo su False Priest ce ne vuole abbastanza.
Si parlava di un'evoluzione. Il concetto funk era già stato sviscerato e l'aspetto di novità che troviamo qui riguarda in realtà l'inserimento, liscio e pertanto lontanissimo dal risultare forzato, di elementi rhythm and blues affilati come un coltello a serramanico che penetra nella carne spolpandola e poi disossando i rimasugli. In sostanza, distruggendo tutto quello che incontra, che poi sarebbe ciò che conoscevamo prima di questo progetto di Athens (e non da Montreal, come potremo credere). Il linguaggio r'n'b, che non è hip-hop, sia chiaro, provoca improvvise manifestazioni di felicità e gaudio, simili a qualcosa che si può definire solo come party-oriented, tra cocktail e sguazzanti balli in piscina, ma con tutti i crismi. Niente pop da classifica per cui, ma un pop che attinge a piene mani dal soul per aggiungere alla nostra esperienza quell'elemento festaiolo che proprio non ci aspettavamo dagli Of Montreal. E aiutano tantissimo le ospiti d'eccezione, Solange Knowles, sorella minore di Beyoncè, e Janelle Monae, un personaggio che sul web è stato anche etichettato come "l'anti-gaga". Questo non ci serve a capire la natura della capatina nel disco, ma almeno un intento iconoclasta a Barnes bisogna riconoscerlo: quello di appropriarsi di linguaggi pop pur non facendo pop, per produrre un disco che alla fine si possa sia definire così sia non farlo. Insomma, un'opera a tutto tondo, prodotta perfettamente da un espertissimo Jon Brion, già produttore di Dido, Keane, Fiona Apple e molti altri (e pure di soundtrack molto interessanti come quella di Magnolia, che gli è valsa un Grammy al fotofinish). Stona solo l'inizio di "Famine Affair", che decollerà successivamente per non lasciare nemmeno una briciola di bruttezza ad un disco che non finisce di stupire neanche dopo cinque, dieci, venti ascolti. Fatene buon uso.

Voto: 8

sabato 16 ottobre 2010

Strip In Midi Side - Your Stripping Experience (New Model Label, 2010)


Tracklist:
1. Your Midi Side
2. Everyday Like This
3. The Dreams
4. Bring Me Down
5. Sweet Bastard
6. You Don't Know
7. I Want
8. Speak Up
9. Vintage Improvisation
10. Art Is Insanity

Giotto, Amon, Maks e Akrid. Questi i nomi di battaglia del quartetto campano che si fa chiamare Strip In Midi Side, con un riferimento, lecito, all'elettronica già nel suo nome. Con Your Stripping Experience puntano a definire a modo loro questo genere, dando una dimensione personale al tutto pur facendo tesoro delle lezioni dei più grandi, Depeche Mode, Nine Inch Nails, i Kraftwerk meno sperimentali e l'industrial più melodico, senza tagliare fuori neanche i Nitzer Ebb, con i quali condividono peraltro lo studio di mastering (lo Streaky Mastering, in Inghilterra).

Nel disco troviamo dieci pezzi, per un totale di 41 minuti, una durata notevole considerati molti lavori simili negli ultimi anni. Ma visto che non si tratta di musica commerciale o uscita sotto major, non bisogna stupirsi. L'elettronica di questi ragazzi è profondamente immersa nel panorama EBM e synth-pop, quindi non si possono escludere dalla rosa né i toni più dark, né quelli 80s che ricordano vagamente anche il pop dell'epoca. In "Everyday Like This" ad esempio si fondono perfettamente i Nine Inch Nails di Pretty Hate Machine con una voce che ammicca raffinatamente a Dave Gahan, soprattutto quello della prima epoca. Il brano è costruito in maniera piuttosto studiata, soppalcando distorsioni e sintetizzatori vari nel migliore dei modi, per ricreare quel tappeto di suoni che negli anni ottanta ha cambiato la storia dell'elettronica. Ma lo si rivive, oggi, con un sound più moderno e stemperato. Il brano che strizza di più l'occhio agli eighties è comunque il singolo "The Dreams", non solo il pezzo più easy-listening, ma il più simile ai Depeche Mode, rasentando in alcuni tratti il plagio. Resta comunque orecchiabile, composto molto bene e funzionale al suo status di singolo.
Le sorprese si trovano con "Bring Me Down", manifesto del loro tentativo d'innovazione, che inserisce stop and go il cui impatto è lasciato in mano alle chitarre elettriche più effettate che si possano sentire sul disco, e "You Don't Know", che in alcuni stralci può ricordare perfino i Devo (li ricorderà molto di più "Vintage Improvisation", che più di un'improvvisazione sembra uno degli episodi più studiati e in questo senso si può interpretare come una provocazione), canzone che non si scrolla mai di dosso quell'attitudine catchy che la rende papabile secondo estratto. "I Want" dà spazio per la prima volta alla chitarra acustica ed è il brano meno elettronico, nonostante una batteria sintetizzata che arriva quasi a spiazzare l'ascoltatore sul più bello della distensione, insieme a quel synth martellante da puro shock industrial.
Poche volte incontriamo elementi di rottura, come "Speak Up", un brano aggressivo ma dagli standard molto radiofonici, fissato su una struttura che ricorda da vicino i brani indie tanto di moda negli ultimi tempi di revival, e la conclusiva "Art Is Insanity", un punto di convergenza tra l'industrial che già citavamo e l'EBM contaminato di new wave (del resto la linea di confine quasi non si vede), "di rottura" perchè più lunga della media del disco e per questo meno facilmente digeribile. Resta un ottimo brano.


Il disco si posiziona svariati gradini sopra molti dei lavori usciti quest'anno nel genere. Ha una forte componente di presunzione che gli permette di uscire vincente dalla sfida con i momenti più deboli della storia dei big che cita e dai quali si lascia influenzare, ed è imbevuto di elementi dalla forte caratura anni ottanta, innestandosi quindi in una scena di rinascita controllata che sta facendo molto successo. Inoltre la composizione dei brani è manovrata dai quattro con una consapevolezza notevole, che si vede particolarmente nella grande bravura nell'incastro di parti più rock con parti più elettroniche, synth che piovono all'improvviso come dal cielo e batterie inarrestabili che tramutano il brano più calmo in quello dai ritmi più frenetici. Se volete un lavoro di elettronica che si distingua da tutti quelli che siete abituati a sentire negli ultimi anni, gli Strip in Midi Side fanno al caso vostro. 

Voto: 8

venerdì 15 ottobre 2010

Canadians @ Covo, Bologna, 09/10/2010


Incuriosita soprattutto dal loro primo lavoro del 2007 “A Star With No Sky“, piuttosto che dall’ultimo del 2010 “The Fall of 1960”, decido di approfittare della tappa bolognese al Covo della band veronese Canadians per vederli suonare dal vivo.
Senza nessuna introduzione il concerto inizia alle 23.30 quasi in sordina, accorgendomi soltanto dopo pochi minuti del brusio provenire dalla stanza adibita ai concerti.
Siamo circa in 70-90 spettatori e per quasi tutta la durata, almeno quelli delle prime file, verranno costantemente accecati dal fotografo della band e dalla sua reflex con mega obiettivo.
Vengono proposti brani sia dal primo che dal secondo lavoro e la loro musica ti rimane in testa al primo ascolto, ma alla fine ti sembra di ascoltare in loop sempre la stessa cosa.
A tratti nella penombra del locale non mi rendo conto del cambiamento di canzone.


Il gruppo mi è parso un po’ anonimo, quasi fosse lì per svolgere i compitini assegnati dal tour management.
Il feeling con il pubblico non è mai stato instaurato e a parte le interazioni di rito come ringraziamenti o l’annuncio che per il batterista era l’ultimo concerto, il clima era quasi statico.
In conclusione anche dopo le numerosi lodi lette sul gruppo Canadians sono rimasta un po’ delusa, in primo luogo dal loro stile che sembra quello da film ambientati nei college americani e non è certo niente di nuovo (vedi per esempio Weezer, Death Cab for Cutie, etc…)
In secondo luogo, e non meno importante, la mancanza di personalità sul palco.
Dunque a chi li chiama i salvatori dell’indie italiano per ora sbaglia in maniera colossale.

giovedì 14 ottobre 2010

(un mese che si chiama) Ottobre pt. 2

E continuiamo con un po' di live di ottobre. Ottobrini, si dice? Beh, in ogni caso, cuccatevi gli Zen Circus a Padova e qualche altra cosa. Leggasi sotto.

15.10 ONE DIMENSIONAL MAN, Brescia
15.10 THE DILLINGER ESCAPE PLAN e CANCER BATS, Roncade (TV)
15.10 MATT ELLIOTT, Padova
15.10 LEVINHURST, Bologna
15.10 ZEN CIRCUS, Padova
15.10 THE NIGHT TERRORS, Trieste
15.10 CALIBRO 35, Modena
16.10 PAUL ARMFIELD, Padova
16.10 CAPTAIN MANTELL, Bologna
16.10 KATZUMA & THE EXPANDING DISCO MACHINE e GARAGE PARADISE, Bologna
16.10 BOLOGNA VIOLENTA, Bologna
16.10 ONE DIMENSIONAL MAN, Sant'Andrea delle Fratte (PG)
17.10 SICK OF IT e MADBALL, Roncade (TV)
17.10 TWEAK BIRD, Trieste
20.10 SONGS WITH OTHER STRANGERS, Ravenna
21.10 ONE DIMENSIONAL MAN, Roma
21.10 SQUADRA OMEGA, JC SATAN e THE MEATARDS - Bologna
22.10 PAIN OF SALVATION, Milano
22.10 SAMUEL KATARRO & HIS TRAGIC BAND, Trieste
22.10 COLLE DER FOMENTO e BLACK DREAD in BLOCK PARTY, Bologna
22.10 AMOR FOU, Bologna
22.10 MOTEL CONNECTION, Bologna
22.10 ONE DIMENSIONAL MAN, Pescara
22.10 SONGS WITH OTHER STRANGERS, Torino
23.10 ONE DIMENSIONAL MAN e SPEEDY PEONES, Madonna Dell'Albero (RA) 
23.10 THE MANGES, Bologna
23.10 MOTEL CONNECTION,  Roncade (TV)
23.10 LINDSTROM, Bologna
23.10 SONGS WITH OTHER STRANGERS, Firenze
24.10 BLACK FRIDAY, Ariano Nel Polesine (RO)
24.10 SONGS WITH OTHER STRANGERS, Roma
26.10 RED SPAROWES e HEAD OF WANTASTIQUET, Bologna
26.10 BLANK DOGS, Bologna
26.10 GRINDING HALT, Trieste
27.10 CARLA BOZULICH e MASSIMO PUPILLO, Padova
28.10 ONE DIMENSIONAL MAN, Segrate (MI)
28.10 DENTE, Bologna
28.10 HEIKE HAS THE GIGGLES, Porto Viro (RO)
29.10 MONOLITHIC e KNUT, Padova
29.10 ONE DIMENSIONAL MAN, Torino
29.10 JONATHAN RICHMAN ft TOMMY LARKINS, Madonna Dell'Albero (RA)
29.10 CHARLATANS, Rimini
30.10 ONE DIMENSIONAL MAN e AUCAN, Roncade (TV)
30.10 NO AGE, Bologna
30.10 BALMORHEA, Madonna Dell'Albero (RA)
31.10 WASP, Roncade (TV)
31.10 BOLOGNA VIOLENTA, FUZZ ORCHESTRA, ARABROT e ESTEL, Rimini
31.10 DENTE e IL GENIO, Madonna Dell'Albero (RA)
31.10 CRISTINA D'AVENA e I GEMBOY, Bologna
31.10 MASSIMO VOLUME (presentazione nuovo disco), Ferrara
31.10 ONE DIMENSIONAL MAN, Firenze

Dare un impulso alla musica emergente

Oggi parliamo di un fatto abbastanza atipico da discutere, ma che invece ha sicuramente grande risonanza all'interno dei più importanti addetti ai lavori della musica, cioè i musicisti stessi. A partire dagli emergenti. L'argomento è la difficoltà di avere spazi dove esibirsi e far conoscere la propria musica, qualora sia originale.
Per farlo prendiamo ad esempio un evento, o meglio di un insieme di eventi, o meglio ancora di un'idea, partorita in quel di Stanghella (PD) da poche persone che condividono una sfrenata passione per la musica e un incredibile voglia di cambiare questo marcio mondo musicale sommerso che si muove solo per le cover band, per raccomandazioni, per vie traverse. Per superare questo aspetto piuttosto tragico della realtà underground, in un locale molto in voga qualche decennio fa, si è cercato di riaccendere la scintilla attrezzandolo per i concerti e contattando band emergenti, e non, che hanno riempito di musica l'aria della provincia di Padova per tutta l'estate e continuano a farlo ad oltranza per tutto l'inverno.
Il nome dell'evento è GRIDO UNDERGROUND. Cliccando sul nome vi recherete alla pagina Facebook che potete aprire per vedere di cosa si tratta. Qui invece trovate tutte le prossime date che si svolgeranno alla prestigiosa Enoteca da Luciano, in Via Roma, a Stanghella, insieme all'elenco di tutte quelle già passate.
Non è pubblicità pagata, né un favore personale, si tratta semplicemente di un appello ai nostri lettori nel partecipare a questi eventi e, perchè no, nel prenderli a modello per proporre anche nei locali del proprio centro, sia esso una grande metropoli o un paesino di campagna, delle manifestazioni artistiche costruttive simili, magari concentrandosi anche su quel panorama emergente che tanto risente della "crisi discografica" che, a bassi livelli, significa soldi zero per le band "originali", e tutto il resto alle cover band e alle agenzie paramafiose che ci girano attorno.
Del resto a quanti di voi sarà successo di non trovare un locale che faccia suonare la sua band e di vedere sempre il "paraculato" di turno saltargli davanti, magari con un repertorio fatto di cover? Bene, è arrivato il momento del riscatto e indovinate un po? GTBT è dalla parte dell'originalità, per rendere noto questo disagio e provare a fare qualcosa a riguardo. 

L'Italia è piena di locali da colonizzare, agite indisturbati, non lasciatevi condizionare, entrate in cinquanta alla volta con decine di CD demo in mano, proponete party, feste, eventi, promozioni "concerto+aperitivo 5 euro", fate vedere che avete proposte per cambiare le cose nei locali che frequentate. Se non sono adatti per l'attività live lavorate per attrezzarli in qualche modo, inizialmente con qualcosa di low-cost, poi migliorando col tempo la strumentazione fino a raggiungere i livelli massimi permessi dalla struttura. Grido Underground insegna che ne vale la pena

mercoledì 13 ottobre 2010

Kipple - The Magical Tree And The Land of Plenty (I Dischi Del Minollo, 2010)


Tracklist:
1. Baby Kisser Baby Killer
2. Fisting (Homes For Heroes)
3. Ex Boyfriend
4. Brandon
5. On Cloud Nine
6. So Deep In The Back Of The Closet
7. Before Heroine
8. Missing Children's Day

Kipple. Siciliani, poi padovani. Ora bolognesi, per attirare più attenzione, come del resto dovrebbero fare tutti (Milano e Bologna capitali italiane della musica senza ombra di dubbio). E' Ottobre ed esce questo "The Magical Tree And The Land of Plenty", un disco del quale non si riesce a dire niente prima di ascoltarlo. Il suo nome non ha nulla a che vedere con i titoli dell canzoni, che seguono tutte piste differenti, nonostante uno scrosciare lontano di rivoli di provocazione, quando si parla di un "baby killer", di "fisting" o di eroina. Ma, direbbero certi, anche questo è rock. Ma quanto i titoli abbiano a che fare con la musica resta in dubbio, e una full immersion lo conferma.

Il disco è curato in ogni suo aspetto. Ascoltandolo si può percepire in ogni secondo l'estrema attenzione riposta dalla band nel mettere apposto ogni dettaglio, limando e smussando le imperfezioni, strutturando il tutto nel modo migliore. Un lavoro di assemblaggio che è perfettamente riuscito. 
Si dice la band sia influenzata, per il nome, da Philip K. Dick, scrittore chicaghese che già è penetrato nel mondo della musica fungendo da terreno fertile per un album dei Sonic Youth. Che in qualche punto assomigliano anche ai Kipple. Quello che ascoltiamo qui in realtà è un miscuglio più compatto, dove le diverse componenti sono separate da sottilissime linee che intravediamo appena, e questo grazie a una capacità incredibile di composizione dimostrata dalla band. Non serve nessun track-by-track per analizzare l'album, brani come "Ex Boyfriend", "Before Heroine" e "On Cloud Nine", diventano presto un tutt'uno al resto dell'album, per quell'immensa abilità della formazione "ora emiliana" di incastrare ogni tassello perfettamente. C'è shoegaze, noise popolato di strutturalismi post-rock, elettronica, alternative, il bisogno continuo di coinvolgere nuovi elementi che creino contesti totalmente inediti per l'ascoltatore, che in un momento sta passeggiando tra flebili gridolini che arrivano dall'orizzonte, in un ambiente gelido, siberiano, nel momento successivo si trova in un forno, a cuocere a temperature altissime nonostante si trovi nel bel mezzo di un'era glaciale. O in una centrale nucleare appena esplosa. Sensazioni che possono variare in base a chi sta subendo la loro musica ma che proprio per le loro molteplici chiavi di interpretazione rivelano la piacevolezza e la buona riuscita di un disco "strano" ma mai pesante come questo, dove ogni secondo può essere una sorpresa e tutto quello che è stato già ascoltato diventa parte integrante di un percorso che terminerà solo dopo trentotto minuti buoni. 
La produzione non sarà certo delle migliori, a livello di suoni e mixaggio, però il concetto arriva dritto come una stilettata in pieno volto. Questa è come una colonna sonora di un film che decidiamo noi, lasciando lavorare l'immaginazione. Le strutture dei brani, mai prevedibili, ci aiutano perfettamente in questo e il risultato finale è, semplicemente, l'obbligo ineluttabile di considerare questa gemma uno dei dischi dell'anno. Con due mesi d'anticipo, come dire, un regalo che non si fa a tutti. Consigliatissimo. 

Voto: 9

martedì 12 ottobre 2010

Diaframma Live @ Velvet, Rimini 02 Ottobre 2010 + "Quanto costa la nostra musica"

RECENSIONE a cura di ELEONORA VERRI
FOTO a cura di ELEONORA VERRI (ne trovate altre qui)
EDITORIALE a cura di EMANUELE BRIZZANTE

Premesso che chi scrive è una grandissima fan di Fiumani e la sua band, purtroppo c'è da dire che in quel di Rimini eravamo un pubblico non molto numeroso.
Il costo per entrare nel locale non era certamente a buon mercato, essendo di ben 14 euro, e questo credo abbia influito sull'afflusso di persone al Velvet.

Il concerto inizia verso le 23.30 e per una buona oretta e mezza Fiumani e soci snocciolano il loro migliore repertorio, senza quasi mai una pausa.
Vengono eseguite canzoni storiche come "Siberia", "Gennaio", "Blu Petrolio", "Vaiano", "L'Orgia", "Diamante Grezzo", "Un Temporale In Campagna" e, tra le altre, la stupenda "Caldo".
Niente da eccepire a livello musicale, sempre perfetti e senza sbavature, anzi il leader della band Federico Fiumani si scusa con il pubblico essendo non in forma a causa di un raffreddore, cosa che a mio modesto parere non ha influito per niente sul concerto.
Da notare nelle prime file del pubblico, vicino alla sottoscritta, uno scatenato Max Collini, cantante dei reggiani Offlaga Disco Pax e grandissimo estimatore dei Diaframma. 
In conclusione, per chi non ha visto un loro concerto, consiglio vivamente di partecipare almeno una volta e pollice giù alla politica dei prezzi del locale romagnolo, che si avvicina alle logiche di mercato invece che al pubblico in questi tempi di crisi.


EDITORIALE: "Quanto costa la nostra musica".
Il divertimento principale per molti musicofili resta andare ai concerti, gustarsi anteprime di dischi in live, serate in club poco blasonati ma che propongono la "giusta musica" e, perchè no, un po' di sano pogo. E cantare, è sottinteso. La vita live è però resa difficile da una serie di fattori che in questo editoriale non ho intenzione di sviscerare uno per uno, concentrandomi invece su quello che ritengo il più grave, facendo leva anche alla gradevole recensione di Eleonora sul concerto dei Diaframma.
E' possibile che un concerto dei toscani, in un locale semi-importante come il Velvet, costi 14 euro? E' possibile che un gruppo storico ma che ha sempre avuto un seguito alquanto ristretto chieda così tanti soldi da costare come band più importanti e commerciali come Le Vibrazioni, Caparezza o i Verdena? A quanto pare, per il Velvet, si. Lasciando stare le singole gestioni dei vari locali è evidente come negli ultimi mesi si stia assistendo a dei veri e propri furti ai danni dei consumatori di musica live. 38 euro per vedere Serj Tankian, oltre trenta euro per i Fear Factory, oltre 20 euro in tutti i teatri per il progetto di Manuel Agnelli Songs With Other Strangers, 46 euro "minimo" per vedere Ligabue nel prossimo tour invernale. E non solo, anche 50 fottutissimi euro per vedere i fottutissimi Kings of Leon, quasi 40 euro per i 30 Seconds To Mars e quasi 20 euro per l'anteprima del disco di Vasco Brondi.
C'è qualcosa che non va. Non mi si venga a dire che le band chiedono di più perchè "c'è la crisi" e neppure che le agenzie e i promoter dei live ne risentano. Se c'è una cosa che dal crack finanziario del 2008 ad oggi non è cambiato è proprio l'afflusso del pubblico ai concerti, sia grandi che piccoli, sempre incredibilmente grande e capace di sovraffollare locali e stadi come mai si era riuscito nella storia della musica live. Inoltre anche le piccole realtà underground stanno trovando sempre più spazio, a dimostrare che, nonostante vengano sottopagate, sui concerti si investe. Come si giustifica allora il salasso?
Semplice. Chi ha degli interessi economici in questo ha deciso di metterlo nel culo a tutti quanti, detto con molta semplicità. E' evidente che le politiche dei locali e dei grandi organizzatori di eventi siano tutte in linea con queste scelte che sono diventate un vero e proprio ladrocinio, e come avviene nei piccoli centri urbani dove alzare il prezzo del caffé significa provocare un aumento dei prezzi anche negli altri bar, la reazione a catena sta facendo sprofondare tutto ciò che riguarda i concerti in Italia. L'unica soluzione? Disertare locali, palazzetti e stadi per almeno un anno, per fargli capire cosa significa davvero "la crisi". A quel punto, forse, ci libereremo da questo peso, anche se risulta evidente, in un paese come l'Italia, come una sfida come questa, non sia alla nostra portata. Allora, riposi in pace, musica live.