Abbiamo già parlato di Geddo su queste pagine, di quanto le sue origini liguri traspaiono, forti di quella vocazione cantautorale che si respira in quelle terre fin dal primo vagito, e del suo viaggio dentro e fuori di sé, nuovamente centrale come ben si intuisce dalla presentazione di questo lavoro. Sì perché "Fratelli"è un'esplorazione del "rapporto con gli altri", in particolare dei contrasti e dei sentimenti di fiducia e sfiducia che regolano le relazioni umane, con tutte le delusioni, pur senza tralasciare una luce in fondo al tunnel che per fortuna si intravede ancora tra le pieghe di questi tredici brani.
L'album è inaugurato, infatti, da un pezzo di buon auspicio, basato sull'amicizia e la coralità. "Su La Testa" potrebbe infatti essere elevato a manifesto di questo lavoro, non solo perché uno dei momenti meglio arrangiati, ma soprattutto perché trasuda convivialità e voglia di raccontarsi con onestà e sincerità, solo un attimo prima di iniziare la discesa verso tematiche vissute con maggiore trasporto e in grado di toccare, per forza di cose, più in profondità. La passione e i fraintendimenti amorosi compaiono infatti prepotenti, anche questi sempre con le giuste parole e la perfetta adeguatezza delle musiche, in "Come Un Pazzo", "Differenze", "A Colpi di Karate", "La Tua Finestra", con un linguaggio talvolta crudo e altre volte più universale e leggero, schietto ma alla portata di tutti. Sonorità più blues in "Parlandone dal Vivo" mettono al centro anche un ottimo Paolo Bonfanti alla chitarra, mentre è la tromba di Raffaele Kholer ad impreziosire e dare maggiore lustro alle liriche di "Anna Vorrei", dov'è ancora una volta protagonista la coesistenza necessaria (per molti) con un'anima gemella. L'opera è comunque principalmente romantico-sentimentale, concludendosi proprio con il più bello dei pezzi d'amore, "Amore tra Parentesi", forse quello dove le parole sono più forti e quasi poetiche. Da segnalare anche il featuring con Roberta Carrieri in uno dei frangenti di maggiore tensione, "Condominio Terzo Piano Scala B", dove non è solo il rapporto di coppia ma anche la vita familiare ad essere sviscerata e musicata dall'autore. In generale, non è il lessico, ricco quanto basta ma senza mai arrivare ai grandi picchi di tanti suoi conterranei, ma l'interpretazione a suscitare quell'emotività che porta l'ascoltatore nel mondo di Geddo, espediente necessario in un disco che basa tutto sul racconto di scene di vita, riflessioni e confessioni in cui chiunque può ritrovarsi anche senza averlo mai conosciuto personalmente.
Senza svolazzi, inutili virtuosismi barocchi e con il giusto equilibrio tra strumenti e voce, "Fratelli" è finora l'uscita discografica più rilevante tra quelle che abbiamo potuto ascoltare del nostro Geddo, ed è un piacere scoprire che nel duemilaventi della trap e del ritorno dell'italo disco fusa con l'hip hop ci sia ancora chi porta in alto la bandiera di una tradizione cantautorale che ci riconoscono in tutto il mondo.
Progetto caratteristico quello di Beppe Dettori, di cui abbiamo già parlato su queste pagine, e Raoul Moretti, arpista italo-svizzero, in omaggio all'artista folk sarda Maria Carta, concepito insieme alla Fondazione Maria Carta di Siligo, paese natale dell'interprete. Il frontman dei Tazenda ha la possibilità, in questo contesto sonoro pesantemente influenzato dal folklore mediterraneo, di fare sfoggio di tutto lo studio applicato nei decenni alla sua voce ed evocare anche così, oltre che con le parole, immagini oniriche e molto colorate, dotate anche di un'aura quasi sacrale, sempre eleganti e ben dosate per una massima resa. L'arpa impreziosisce il tutto, in particolare con il calore e la ritmica dei pizzicati.
I brani sono otto, sette già interpretati dalla Carta, l'ultimo un inedito ("Ombre") che, anche se suona strano dirlo per il suo ruolo naturale di pesce fuor d'acqua, potrebbe essere il più riuscito del lotto (o sicuramente il più radiofonico). "A Bezzos de Iddha Mia" potrebbe essere il manifesto del disco, un contrasto continuo tra un'anima tradizionale e dagli orizzonti ristretti, e una più moderna e affacciata in un mondo ormai cosmopolita. Non mancano contaminazioni elettroniche (loop gestiti da Moretti, perlopiù), incisi più rockeggianti pur senza averne mai la grinta (in ogni caso non neceessaria), il tutto servendo sempre il fine di dare il massimo risalto all'intento popolare e contemporaneamente celebrativo di questo lavoro.
La candidatura al Premio Tenco era più che meritata e, anche se la vittoria non è arrivata, questo "(In)Canto Rituale" rimarrà comunque impresso come un segno indelebile nel nostro panorama musicale, come un tributo di pregevole fattura ad un nome importante, ma forse poco conosciuto, che potrà anche così essere riscoperto, realizzato da musicisti di livello che sanno come imbastire un prodotto di alto livello.
C'è molta musica italiana nel nuovo lavoro dei siciliani 10 HP, un condensato della nostra migliore tradizione che riverbera nei dieci brani, permeando tutto, titoli e artwork compresi. Litfiba, Baustelle, Zen Circus, Rino Gaetano, forse il primo Vasco, gli Area e tanti altri tra i numi tutelari, ma non sarà certo snocciolando nomi che si presumono punti di riferimento che avremo svelato cosa aspettarci dall'ascolto di "Mantide".
Il rock radiofonico di "Se Bastasse un Segno" è il capitolo più orecchiabile e scorrevole, malgrado un testo tra i più profondi ed esistenziali, caratteristica lirica che in ogni caso ricorrerà lungo tutta l'opera, dando caratura maggiore alle parole rispetto alla musica (e non è un difetto...). "C'è Un Mondo" suona molto bene, per produzione ed interpretazione da parte di tutti i musicisti, risultando molto convincente, anche se qui il messaggio sociale contro televisione e social risulta, più che altro per sovrabbondanza di pezzi analoghi già sul mercato discografico, un po' derivativo o quantomeno già sentito. Interessanti soprattutto gli inserti country. Si sfiorano influenze prog in "Forse" ma ancora di più in "Il Sogno di Ulisse", epica non sono nella tematica ma anche nella costruzione pregevole, studiata, molto ben giocata a livello di dinamiche, e con un testo mozzafiato. Ulisse è una figura che può ben rappresentare a livello tematico questo album, forse più della mantide, perché il tema del viaggio, inteso non solo come spostamento fisico, ne pervade ogni antro, trascinando con parole sempre corrette e impreziosite da un lessico ampio anche gli strumentisti nella definizione di un mondo coerente pure nelle immagini evocate nell'ascoltatore.
Non rimane l'amaro in bocca dopo questa scorpacciata di rock. Un disco che non aggiunge niente alla nostra scena nazionale, ma non ne sente (probabilmente) nemmeno il bisogno, prefigurandosi come un esercizio compositivo di ottima fattura e un'infilata di pezzi contemporaneamente leggeri e ricchi di spunti.
La cantautrice emiliana Pia Tuccitto è un nome già noto nella scena italiana, in particolare per aver scritto diversi brani per Vasco Rossi, Irene Grandi e Patty Pravo, tra gli altri. Dal suo primo disco "Un Segreto Che...", prodotto proprio da Vasco e dal trombettista Frank Nemola, sono passati quindici anni, tonnellate di palchi importanti che l'hanno consacrata al grande pubblico anche per la riconoscibilità estetica, ottenendo una maturità artistica senz'altro evidente in tutti gli undici brani di questo nuovo sforzo, intitolato opportunamente "Romantica Io".
Siamo di fronte ad un'opera prepotentemente rock con tutti i crismi, profondamente radicata nella cultura d'autore italiana, dove nel pieno rispetto del titolo la fa da padrone un romanticismo mai troppo velato che permea tutti i pezzi. "Perché Tutto Muore", "Tu Sei Un Sogno per Me", "Quante Volte Sono da Sola Con Te", ma anche la title-track, possono essere tranquillamente elevati a manifesti di questo modo di scrivere, tra orchestrazioni sanremesi, scelte lessicali che ricordano tanto la Vanoni quanto la già citata Irene Grandi, e un'atmosfera generale dolce, soave, che anche quando il comparto ritmico spinge di più il pedale sull'aggressività conserva una leggerezza meravigliosamente pop. In questo, il paragone che viene più facile fare è quello con Gianna Nannini, anche se, a gusto puramente personale, il timbro della Tuccitto risulta meno noioso con il ripetersi degli ascolti.
Sforzandosi di trovare un difetto, gli arrangiamenti non aggiungono niente di nuovo a quanto già sentito dalla medesima autrice, se mai ce ne fosse bisogno in un contesto simile, ricalcando un po' gli stilemi di questo genere che a fatica ha provato ad aggiornarsi, non sempre riuscendosi. Anche i suoni non sono eccessivamente moderni, ma questo può andare anche a favore di un prodotto che forse non intende direttamente sfondare nelle radio ma piuttosto riconfermare delle capacità autoriali incontestabili.
Pia è un'autrice, lo ripetiamo, esperta, navigata, consapevole dei suoi mezzi, e questo risuona per tutto il disco. Laddove nulla possa far gridare al miracolo, rimane la certezza di un lavoro ben fatto, senza sbavature, professionale in ogni aspetto. Sappiamo quindi, come già visto in passato, che ogni nuova prova discografica a questa firma sarà tale, e mentre cala lo stupore rimangono inalterate la qualità complessiva, la grinta, il liricismo di classe, il suo essere in grado di sfornare continuamente ottime perle di pop nostrano.
Il trentacinquenne milanese Antonio Valentino, in arte Anthony, dopo anni dedicati al suo strumento (la chitarra), approcciato dapprima nel mondo delle cover band e poi con i Night Road trasportato anche nel mondo del songwriting, sfodera tutta la maturità così acquisita nello strumento e nella composizione in un progetto solista, dando alla luce questo "Walking on Tomorrow".
Nel suo percorso formativo, Anthony ha evidentemente incontrato Van Halen, Hendrix, l'hard rock anni 80 post-AC/DC, sicuramente anche l'heavy metal (più i Judas Priest che gli Iron Maiden, si direbbe) e naturalmente Slash, a dire del sottoscritto uno dei chitarristi più sopravvalutati della storia, ma non per questo ininfluente. Con ascolti di questo tipo, non stupisce che i momenti più leggeri siano quelli meno riusciti (ad esempio "American Dream", o la conclusiva "Scathing Time", che però si salva per le sue striature epiche davvero coinvolgenti e ben congegnate in quanto anche a scelte sonore) mentre dove si spinge sull'acceleratore, alzando toni e volume, ci si trovi improvvisamente nella comfort zone del lombardo. Si pensi per esempio a "Another Way", contenente quello che è probabilmente il riff più memorabile, a "Night After Night", che strizza l'occhio addirittura al grunge, risultando tanto aggressiva quanto piacevolmente orecchiabile, e a "Get Off", un brano dove l'arrangiamento sorprende in particolar modo per la gestione delle dinamiche, perdendone però in originalità.
Personalmente, trovo che il genere abbia ormai saturato il mercato da almeno un decennio, ma è evidente che a questo punto la partita si gioca sulla qualità dei suoni e della scrittura. Da questo punto di vista, i primi risultano un po' deboli, o meglio si sente la mancanza di una cabina di regia, laddove la costruzione dei pezzi risulta invece matura, efficace, come tipicamente ci si aspetta da chi si è formato artisticamente divorando certi dischi e interiorizzandone le armi vincenti. Anthony sa quindi indiscutibilmente il fatto suo, e per chi ama l'hard rock, l'heavy metal e il rock'n'roll risulterà certamente un autore godibile, sul pezzo, perfettamente incasellato dentro quegli stereotipi che tanto piacciono e hanno reso questi stili tra i più longevi e resistenti all'innovazione tecnologica che ha invece spazzato via, ad esempio, il rock, il pop, il grunge.
A tre anni dalla nascita, il duo emiliano Problemi di Gibbo sforna il primo full-length per l'etichetta IPDG, un viaggio nel cantautorato e nel folk italico dal sapore dolceamaro, perlopiù acustico, soffuso, per certi versi malinconico e romantico. La giovane età si sente nella qualità della scrittura e della composizione, ma nei vari brani sono disseminati i germi di una maturità non così distante, che trova la sua zona di comfort nei momenti più genuinamente radiofonici ("Solo Rosso", in realtà un tributo ai Calexico e "#Buonumore"), e laddove riescono a sprigionare un po' di energia ("Superman", ad esempio) in un album che tendenzialmente si attesta come una collezione di ballad alla Kings of Convenience. Per questo, basti ascoltare l'incipit di "Tutto il Mondo", forse uno dei passaggi meglio riusciti, perfetto come apertura perché riesce ad identificare anima e corpo di un progetto tutto basato sulla comunicatività con l'ascoltatore. Impossibile calarsi in un disco del genere senza abbandonarsi a quelle atmosfere che vengono evocate principalmente dalle scelte lessicali e dagli incastri tra voce e strumenti, da cogliere tramite ripetuti ascolti evitando di riprodurre il disco skippando le tracce come - purtroppo - si tende imprudentemente a fare nell'epoca di Spotify, Apple Music & co.
I reggiani non premono mai sull'acceleratore, rimanendo un po' a mezz'aria, sospesi, ma riescono a stupire per come questa carenza di dinamiche sia sempre controbilanciata da un continuo chiaroscuro, un alternarsi mai banale di tonalità cromatiche, varie seppur mai troppo accese. Il testo che arriva con maggiore impeto è "Come Tu Mi Vuoi", il frangente in cui si riesce a cogliere con maggiore chiarezza la potenza delle parole, semplici ma efficaci in ogni momento.
Il posto nella scena indipendente italiana è così tutto meritato, inserendosi perfettamente in un periodo storico dove l'indie à la Calcutta ha saturato il mercato e si avverte prepotentemente il bisogno di aria fresca. Se è pur vero che in queste sette tracce non troviamo niente di innovativo, i Problemi di Gibbo hanno comunque l'enorme pregio di non suonare derivativi e di lasciar intuire la parabola evolutiva che hanno intrapreso, con la sfrontatezza di un'età anagrafica che ne premette le grandi potenzialità. Esordio curioso e consigliatissimo.
Sono passati trentasei anni da "Tonight", con cui Roberto Zanetti alias Savage ha fatto scuola nel panorama pop-dance italico degli anni 80, affermandosi anche come produttore nel genere (Ice Mc, Double You, Claudio Mingardi, Kamillo e altri), discografico con l'etichetta Dance World Attack, nonché autore di progetti estremamente popolari come i Gazosa, qualche anno più tardi.
Tornato in veste di artista con questo "Love and Rain", Savage non suona attempato ma anzi maturo, conscio dei mezzi espressivi e dei punti di forza del suo genere, ora che il revival ha superato la fase derivativa ma risulta più che altro un linguaggio a sé, forte di quel sentimento di nostalgia transgenerazionale che non mancherà mai di riproporsi, di volta in volta, con i suoni e le dinamiche dell'epoca di riferimento.
Laddove tra le righe si è detto dunque che non siamo di fronte a nulla di nuovo, possiamo senz'altro sviscerare l'album per quello che si propone di essere, ovvero musica da ballo fine a sé stessa, per questo sempre ben funzionante quando realizzata da un professionista, efficace dall'incipit di "Don't Say You Leave Me" (granata esplosiva dopo l'ouverture "Every Second of My Life", poi ripresa in un vero e proprio pezzo alla quindicesima traccia) alla chiusura sinfonica di "Only You". Il termine "sinfonia" si sposa bene con alcune scelte stilistiche di questa dance, scura ma contemporaneamente allegra e leggera, fatta anche di archi e melodie altisonanti, talvolta barocche ("Where is the Freedom"). Il contenuto lirico è invece forse superficiale, con incursioni conscious e altre dal messaggio più forte, ma principalmente spensierato nel narrare l'amore ("Remember Me", "Moon is Falling" le più riuscite), come si può pretendere solo da un tipo di musica da club, luogo d'elezione del disimpegno e della mente sgombra per i giovani da ormai quattro decenni. "Love and Rain" è dunque un lavoro scanzonato, nel quale non ricercare la ricchezza degli arrangiamenti ma l'esaltazione di un suono mai scomparso e che ha fatto scuola nel mondo, peraltro sempre pronto a ritornare alla ribalta con nuove ibridazioni (basti pensare al flirt con l'hip hop italiano).
Il cantautore bergamasco Christian Frosio, con questo suo nuovo lavoro intitolato "Mille Direzioni", tenta l'all-in nella scena curando un prodotto a tutto tondo, scrivendo testi e musica, producendolo ma anche dedicandosi al lato visivo tramite la realizzazione dei primi due videoclip (dei brani "La Nostra Casa" e "Apri la Finestra").
Il fulcro di quest'opera altamente personale è proprio Christian, e non stupisce dunque la scelta di mantenere strettamente saldo nelle proprie mani il controllo di ogni tassello del processo produttivo. Così, tra ballad, struggenti canzoni d'autore vecchia scuola e incursioni più rock, Frosio si racconta, sviscera le proprie emozioni e le riversa in un disco pregno di significato, un'autobiografia satura di riferimenti e che in qualche modo prova, non sempre riuscendoci, ad arrivare a tutti.
Il linguaggio fluisce ma a volte incespica, diventando farraginoso, ma sono interessanti soprattutto le meccaniche di costruzione verbale, le metriche, il dialogo tra voce e chitarra, che dipinge in questa maniera anche la sensibilità, i sentimenti, le linee di pensiero dell'essere umano che sta dietro le canzoni.
"Anime Leggere" è forse il momento più moderno, grazie ad un tappeto digitale di batteria, e coglie bene anche un'esigenza radiofonica sempre più presente nel genere. Il già citato "Apri la Finestra" tocca picchi inusitati di malinconia e sofferenza personale, ma l'individualità più onesta si sprigiona con la title-track "Mille Direzioni" e l'ottima chiusura di "Guarderò Lontano", sette minuti che scorrono lisci e che riescono ad imprimere perfettamente nell'ascoltatore lo stato d'animo del compositore.
A reggere il palco su cui poggia questo album sono in ogni caso le parole, più che la musica. E' per questo che certe scelte liriche, come già detto, potenzialmente inquinano il risultato finale, anche se l'impatto da questo punto di vista è sicuramente soggettivo. Ovviamente, un lavoro così intimo e personale, può toccare in maniera più efficace le persone con un vissuto simile, e a quel punto diventare anche un punto di riferimento. Non c'è dubbio che, data anche la giovane età, da un artista come Christian Frosio avremo modo di sentire materiale più maturo e contemporaneamente fresco negli anni a venire.
Il 2019 ha visto l'ensemble di musica folk/popolare pugliese Sossio Banda, capitanato da Francesco Sossio Sacchetti, festeggiare il suo decennale. In questo importante traguardo per un progetto così particolare, esce "Ceppecca't" (per chi non conosce il dialetto barese "c'è peccato" o "che peccato"), un lavoro non così sobrio, incentrato su di una narrazione alta, pesante, spalmata su sette brani che rappresentano nientepopodimeno che i sette vizi capitali. Scene di ordinaria quotidianità sono utilizzate come trampolino per tuffarsi in un mondo fatto di accidiosi, iracondi, avari, esseri umani deboli, trascinati da quella volubilità cui tutti noi cediamo nel trascorrere della nostra fragile esistenza, e se da un lato il messaggio fluisce leggero, arrivando all'ascoltatore nella maniera più diretta ed efficace possibile, il contenuto musicale sembra invece fuori fuoco, disallineato rispetto all'oggetto del discorso. In qualche modo, è proprio la coerenza a mancare, in questo pot-pourri di pop mediterraneo, a cavallo tra Puglia, Grecia e sentori mediorientali, musica balcanica, ma anche concertistica/bandistica, senza dimenticare gli inevitabili accostamenti con Mannarino o Avitabile nei frangenti più folkloristici.
"Chisse so lauree" è forse il pezzo più riuscito, con un sax capace di trasportare in un mondo etereo, quasi favoleggiante, insieme ad un arrangiamento davvero ricco, ai confini del prog. In effetti, toni fiabeschi e incantati sono usati a più riprese per delineare un universo narrativo suggestivo, seducente, denso di significati dietro e tra le parole. Magistrale l'interpretazione vocale di Loredana Savino in "Lui e Lei", stralcio dedicato alla lussuria, dove una storia d'amore viene raccontata con toni per niente allegri, arrivando in qualche modo anche a smuovere le sensibilità più spiccate. "Sàziati" vince invece per la disarmante semplicità del messaggio e come lo riesce a convogliare prepotentemente tramite le note e il dialogo tra gli strumentisti, senza trascurare le scelte liriche sempre fantasiose, perfette per sottolineare ogni passaggio in modo che il contenuto penetri nella psiche di chi è all'ascolto.
Terminato il terzo ripasso di questo lavoro, risulta ancora più in evidenza la scarsa coesione tra le parti, ma ciò che balza all'orecchio principalmente è in realtà la maestria nel songwriting, tale da costruire una struttura sempre solida a supporto del racconto più brutale ed onesto, quello di un'umanità permeabile e cedevole, sempre in lotta con sé stessa e i propri desideri più frivoli, ma in grado, anche tramite la musica, di ritrovare sempre il proprio baricentro. Una prepotente riconferma, di cui si sentiva il bisogno.
L'ultimo lavoro dei bresciani Newdress, "Lei Contro Lei" esce per la Discipline di Garbo e Luca Urbani, e già questo ne può delineare per osmosi il contesto sonoro. Il centro della narrazione è rappresentato dalla donna, musa ispiratrice delle parole e delle atmosfere, in questo disco appropriatamente dosate per dipingere un quadro dalle tinte dark, scure ma contemporaneamente piacevoli e orecchiabili, leggere. Tra Eurythmics e Baustelle, con una vena radiofonica che emerge solo nei momenti giusti, i brani scorrono lisci e mantengono alta la soglia dell'attenzione senza problemi fino alla fine. Buona anche la produzione, pulita e sempre in grado di valorizzare gli arrangiamenti.
L'ennesima conferma di un percorso artistico e coerente, che sa risultare ancora attuale nonostante suoni come un continuo tributo a sonorità passate.
Brani consigliati: "Joyce", "Lei Contro Lei", "Bolle di Sapone"
Luca Marino - Vivere Non è di Moda (autoproduzione, 2019)
E' una tavola cromatica molto vasta e dalle sfumature cangianti quella di Luca Marino, cantautore di Busto Arsizio, già sul palco di Sanremo nel 2010. Tra synth-pop, ballate, beatbox, cenni latinoamericani e caraibici, testi taglienti e sinceri di sicura rilevanza personale per l'autore e incursioni nel rock e nel punk, "Vivere Non è di Moda" fluisce senza particolari congestioni. Marino sa scrivere, sa divertire e divertirsi, e per questo può usare le parole per dire la sua (si, è un disco che potremmo banalmente definire "impegnato") e per raccontarsi. A un ascolto più attento, si iniziano a cogliere anche le speranze di cambiamento e di miglioramento per la nostra società, le urgenze più primitive dell'animo umano, le montagne russe dei sentimenti che segnano le vite di tutti noi, e anche dove alcune soluzioni melodiche possono spiazzare rimane sempre l'impressione di un lavoro ben fatto.
Se volete ascoltare musica fresca, significativa e con del contenuto durante questa quarantena, Luca fa al caso vostro.
Brani consigliati: "Non Va Più Via", "Una Buona Idea", "Tutta Quanta l'Anima"
Mattia - Labirinti Umani (autoproduzione, 2019)
Mattia, semplice nome con cui si identifica il cantautore modenese Mattia Previdi ha esordito pochi mesi fa con "Labirinti Umani", un lavoro denso di argomenti ben concentrati in nove tracce dove sicuramente l'elemento centrale, da cui non distogliere (quasi) mai l'attenzione per soffermarsi sulla musica, è rappresentato dalle persone, quindi dalle relazioni, dai sentimenti, le vittorie e le sconfitte. Con l'amore al centro e una produzione molto casalinga, l'intenzione di suonare pop può calzare male ad un cantautore senza il carisma acquisito di chi calca già i grossi palchi, ma è facendo attenzione alle parole e alla voce che ci si può godere questo viaggio.
Ciò che rimane dall'ascolto è la netta impressione che con i mezzi giusti Mattia possa avere in mano la ricetta vincente per finire sulle radio commerciali, e molto presto.
Brani consigliati:"Distante", "Tieni il Resto se Vuoi", "Diana"
La gestazione di questo articolo è stata lunga quasi quanto le registrazioni del disco stesso. Ci sono varie ragioni. Prima di tutto, come ha detto John Lennon: "la vita è quello che ti accade quando sei occupato a fare altri progetti"(e scaramanticamente, facciamo i dovuti scongiuri, dato che è una frase tratta dal suo ultimo lavoro "Double Fantasy",pubblicato meno di un mese prima della sua tragica dipartita). In secondo luogo, non solo conosco l'artista di persona ma uno dei musicisti che hanno prestato i propri servigi e il proprio talento a Iarin reca il mio stesso cognome e non è una coincidenza. Detto questo, dopo due anni dalla pubblicazione di questo album, i suoi meriti artistici non solo sono sopravvissuti all'impietoso giudizio del tempo ma sono emerse anche alcune qualità nascoste che si sono rivelate a successivi ascolti. Questi due motivi mi hanno spinto, in sostanza, a disinteressarmi a qualsiasi accusa di nepotismo mi possa essere rivolta perché questo è un lavoro che merita effettivamente di essere ascoltato e analizzato. Inoltre, per scelta dell'artista, il disco non è disponibile nelle piattaforme streaming e l'unico modo per poterlo ascoltare è acquistarlo. In sostanza, "I'm" merita tutta l'esposizione possibile.
Nel corso dell'articolo verranno citate alcune dichiarazioni di Iarin Munari stesso tratte da un'intervista da me realizzata all'interno del programma "Danze D'Architettura"che ho condotto su Radio Voce nel Deserto dal 2017 al 2019.
SVOGLIMENTO
Classe 1975, Iarin Munari è un batterista, compositore, arrangiatore e produttore in attività dal 1996. Il suo curriculum vanta collaborazioni con artisti tra cui Roberto Vecchioni, Stadio, I Nomadi (per i quali ha composto il brano "Non so io ma tu" nell'album "Allo specchio") e Free Jam, band della quale è membro fondatore e con cui ha pubblicato l'apprezzato "What About The Funky?" nel 2012. Questo "I'm" uscito a maggio del 2018, però, è il primo disco che pubblica a nome solista. Il progetto grafico che accompagna l'album può far pensare, più che ad un batterista, ad un cantautore indie. Da un punto di vista musicale, siamo assolutamente distanti anni luce ma concettualmente forse non siamo così lontani: secondo le intenzioni di Iarin, questo lavoro dovrebbe rappresentare una ideale colonna sonora rappresentativa della sua vita. Il titolo stesso, non sarà sfuggito sicuramente ai lettori, è un gioco di parole tra la contrazione di "I am" (io sono) e le iniziali del nome del musicista. Le composizioni sono esclusivamente strumentali, a parte una piccola eccezione, e l'album è improntato su una matrice jazz fusion, brillantemente eseguita da un ensemble che, oltre a Munari stesso alla batteria, include Daniele Santimone alla chitarra, Alfonso Santimone alle tastiere, Nick Muneratti al basso e altri vari ospiti illustri tra cui Piero Bittolo Bon e Enrico di Stefano al sax, Fabrizio Luca alle percussioni e Antonello del Sordo alla tromba. "Si tratta di grandi amici con cui ho trascorso momenti musicali molto importanti e che condividono con me un grande rispetto verso l'arte" dice entusiasticamente Iarin.
Sebbene, come già detto, questo lavoro sia il primo disco ad uscire a nome di Iarin alcuni temi erano presenti anche in "What About The Funky?": il più esplicito è "Towards That Light", composta da Munari in ricordo della scomparsa del padre, originariamente un breve e sofferto intermezzo per archi di poco più di un minuto di durata, qua presentato come malinconica ma meditativa ballad jazz dalla durata di sette minuti e mezzo impreziosita da una pregevole introduzione di piano ad opera di Alfonso Santimone e da un ispirato assolo di sassofono di Enrico di Stefano. Curiosamente, esiste una terza versione di questo brano, non ancora incisa ufficialmente, con un testo cantato da Annalisa Vassalli, talentuosa vocalist che, purtroppo, è entrata a far parte di questo organico solo al termine della lavorazioni del disco e, in quanto tale, non compare su album. Nel caso Munari decida di incidere un secondo album, un'ulteriore rivisitazione di questo pezzo sarebbe puramente giustificata. Nell'album dei Free Jam, "Towards That Light" si collegava ad una canzone intitolata "That Light", il cui testo, scritto dal tastierista e cantante Davide Candini, trattava dell'ultima conversazione avvenuta tra Iarin e il padre. Anche il tema di quella composizione, stavolta in chiave strumentale, compare su questo "I'm" a nome "Settimo". "Si tratta di un brano che ho scritto tanti anni fa", spiega Munari " 'Settimo' è la versione originale, 'That Light' è l'ultima ma ci sono anche versioni intermedie". La versione su "I'm" è più scanzonata e tirata e contiene un arrangiamento per fiati, una irresistibile linea di basso slap di Nick Muneratti e interessanti assolo di chitarra, tastiere e batteria. "Nella forma originaria il brano suona più funky, più felice e più spensierato perché quello era il modo in cui era uscito a livello compositivo ma il tema del ritornello è comunque un po' introspettivo. Quando lo scrissi abitavo ancora con i miei genitori. Un giorno lo stavo provando con la chitarra e mio padre, passando per di lì lo sentì e commentò, in dialetto Ferrarese, 'sa tiè rumantic!'".
Il disco contiene anche variazioni su uno stesso tema, poste sapientemente a inizio, metà e a fine scaletta ("Sunrise", "Twilight" e "Sunset"). La prima e l'ultima versione sono arrangiamenti malinconici per archi, mentre quella intermedia è eseguita dalla band in chiave molto più jazzata ed energica. Riguardo alla genesi del brano, Iarin rivela che la composizione sarebbe dovuta essere il tema principale della colonna sonora di un film in seguito mai prodotto: "tra l'altro, 'Sunrise' e 'Sunset' sono pensati proprio nella forma di intermezzo che sarebbe apparsa sulla pellicola".
Due pezzi vedono Iarin nella veste di polistrumentista: la prima, "Chasing Butterflies", è una composizione basata sul tema di "Twilight", senza però riprenderlo pari pari, mentre "Afrita" è l'unico brano dell'album ad avere un testo: "sto cercando una vita migliore e vedo Afrita" in linguaggio Igbo, la lingua tradizionale nigeriana. "Sono delle frasi che, in prima persona, mi sono immaginato possano pensare quei ragazzi che scappano da zone di guerra e che, dopo ore di viaggio, si ritrovano davanti le terre Italiane: mi sono immaginato quali emozioni possano provare. La canzone vuole omaggiare un continente dal quale proveniamo tutti e che negli ultimi secoli ha subito molte violenze". Il brano vede la partecipazione del percussionista Bolognese Fabrizio Luca con cui Munari collabora da diversi anni e con il quale ha condiviso l'esperienza con la band ska The Strike. La versione su disco, sebbene sia molto affascinante e abbia sonorità molto particolari, però, forse risulta un po' penalizzata a noi che abbiamo seguito questo progetto anche nelle date dal vivo. Sul palco, infatti, "Afrita" presenta un arrangiamento forse un po' più tradizionale di quello presente su "I'm" ma dà spesso sfogo a improvvisazioni di vario tipo che a volte si estendono per una durata di oltre un quarto d'ora, che, per mia esperienza personale, spesso ispirano particolarmente i musicisti e li portano ad andare fuori controllo. Ricordo, in particolare, una versione eseguita proprio durante la presentazione live ufficiale dell'album al locale Il Clandestino a Ferrara, durante la quale era intervenuto anche ospite il percussionista Paolo Caruso con il quale la band aveva creato un'atmosfera tribale e cabalistica.
Il disco è completato dalla malinconica "Camilla", contenente uno splendido assolo di basso di Nick Muneratti, e dalla trascinante "Fifth Wave" che riesce, incredibilmente, a rendere orecchiabile un tema che sembra un misto tra Pat Metheny (armonicamente) e Frank Zappa (ritmicamente) e che, sul finale, contiene un brillante assolo di batteria che farà venire voglia alla metà dei batteristi ascoltatori di vendere il proprio kit o di usarlo come carburante per la stufa durante le notti gelide (l'altra metà, invece, opterà per un più dignitoso seppuku pubblico usando un ride come arma contundente).
"I'm" è un lavoro di classe, realizzato molto bene sia da un punto di vista compositivo, sia come sequenza: l'album risulta, infatti, molto dinamico, merito anche dell'ottima produzione e del brillante lavoro di registrazione effettuato agli Over Studio di Cento. Soprattutto, nonostante le premesse apparentemente molto cerebrali, l'obiettivo dell'album è comunque quello di mettere la musica in primis e, quindi, il disco risulta estremamente godibile anche separato dal suo contesto.