TECNOSOSPIRI è un nome brutto sia per una band che per un post. E visto che una band ha pensato di chiamarsi così, ho pensato di chiamare questo nuovo "editoriale" allo stesso, brutto, modo. Negli innumeveroli viaggi in treno che deve sostenere uno studente pendolare è facile, auricolari infilati nelle orecchie, trovarsi a fare qualche (superfluo) ragionamento che poi, come accade quotidianamente a milioni di blogger e internauti incalliti del 2009/2010, finisce riversato in rete. E a questo punto mi dissi: perché non trasformarlo in un post per Good Times Bad Times?
L'argomento è tanto semplice quanto già dibattuto, ma ogni analisi differisce in tal modo dalle altre che farne una mia personale pensavo non significasse scopiazzare, ma anzi potesse contribuire. Per i potenziali (in realtà inesistenti) lettori. We are talking about: come la tecnologia sta cambiando il modo di fare, di vivere e di ascoltare la musica.
Partendo dall'assunto indicato, premetto che è inutile parlare delle innovazioni che hanno semplicemente ampliato le "sonorità", incidendo in maniera particolare sull'elettronica e sul pop (volendo, positivamente), e facilitato la vita "in studio" degli artisti. Non è solo per questo che "fare musica" è diverso oggi che nel 1965. I contratti delle case discografiche sono sempre stati piuttosto "costrittivi", volendo oppressivi, ma succedeva molto più raramente che un progetto venisse preso e trasformato da capo a piede dal volere di un consulente d'immagine che pensa di arricchirsi semplicemente sfruttando il look di una band. Idee che avrebbero fatto accapponare la pelle negli anni di Elvis Presley et similia ma che da vent'anni sono ormai pane quotidiano, nella musica come nella tv e nel cinema. Inoltre fare un disco è diventato sempre più questione di "routine" e di "contratto", sempre più musicisti lo fanno per passione solo agli inizi, lasciandosi poi soffocare dalla vita dell'artista sottomesso alle copertine dei giornali e al volere di qualche manager, se non dai suoi stessi fan. Insomma, il valore della musica come arte se n'è andato. Si può benissimo aggiungere che gli strumenti come MySpace, Facebook, Last.fm ecc. stanno cambiando i metodi di diffusione della musica (anche se il più determinante si può considerare tutt'ora YouTube, sempre eccelso nel creare "mode" momentanee che qualche volta, ahimé, finiscono addirittura su Studio Aperto), sviluppando aspettative diverse in chi "propone" della musica. Non ci sono più dischi e merchandising da vendere, ma richieste di amicizia e contatori degli ascolti. E da quando anche chi gestisce gli spazi dove la musica emergente può lottare per uscire dalla nicchia ha preso seriamente questa cosa, avere tanti ascolti o tanti amici su MySpace è diventato davvero importante. Perché diciamocelo, non sono gli artisti a scegliere queste cose, ma chi la musica la manovra. Gestori di locali, manager, talent-scouts, discografici. X Factor, Amici, e programmi analoghi servono solo a lanciare volti da quattro soldi che finiscono nel dimenticatoio dopo il primo disco (avanti, aprite gli occhi, nessun negozio di dischi ha esaurito le scorte del disco di debutto di Giusy Ferreri e dei Bastard Sons of Dioniso, e non sto neppure citando i peggiori). E il problema è tutto qui: la tecnologia, nell'era della comunicazione di massa, ha inventato nuovi strumenti che non giovano per niente al mondo della musica. E se c'è chi (Radiohead, Nine Inch Nails, ecc.) se la spassa dall'alto delle pile di miliardi già guadagnati quando fare un disco ancora ti gonfiava le tasche, utilizzando a loro modo la rete per raggiungere i fans precedentemente acquisiti, diventa evidente che usare internet in maniera produttiva è difficile, anche se non impossibile.
L'altro grande problema, che è comunque la punta dell'iceberg che emerge da un oceano infinito di altri problemi enormi, a sottolineare il disastro che sta subendo il mondo della musica (ricordando che le case discografiche multimiliardarie perdono, giustamente, milioni di euro all'anno ormai da un decennio), è che le majors non vogliono perdere la loro battaglia e lottano coi denti per affondare Pirate Bay o altri portali analoghi, in una guerra senza speranza. Spendendo inutilmente tempo che potrebbero utilizzare rivoluzionando, tramite internet, un mondo che ormai ristagna. E inizia a puzzare di marcio. Certo, questo significa che il CD se ne deve andare. Come le musicassette e i vinili. Ma non ci crede nessuno che per i nostalgici i compact disc (come accade per i 33 giri) non continueranno a venir prodotti (e vedremo a che prezzi saranno venduti, se più bassi o più alti, anche questo è difficile da dirsi). In ogni caso questa è l'era del digitale, l'mp3 (e i formati come il FLAC ad alta risoluzione per i fanatici) ormai spopolano, è una moda inarrestabile ed un flusso continuo che non smetterà mai, neanche dopo il collasso della rete che forse i discografici ancora sperano. Ma che evidentemente non arriverà mai, altrimenti sarebbe già successo. Che stiano aspettando anche loro il 2012? Se è così, il 21 dicembre 2012 qualche buon signorino dell'Universal o della Warner si sveglierà in mezzo alla strada, con il culo ancora dolorante per l'inculata presa dai colossi come I-Tunes o le nuove piattaforme Microsoft. Il francesismo mi deve essere concesso.
Fatto sta che se un mp3 ha meno qualità e ha meno valore di un disco, questo è il futuro e questa è la strada da seguire. Abbassare il prezzo dei dischi ha un senso solo per i pochi che queste cose "materiali" le apprezzano ancora (come il sottoscritto), ma ormai non si comprano più. Si accettano solo come regalo, come allegati di riviste e come ricordino trovato in soffitta. E finché le majors non apriranno gli occhi e non si renderanno conto di questa cosa, continueranno a perdere soldi e questo, per un tragico gioco di causa-effetto, continuerà a ripercuotersi su tanti (cioè i gruppi emergenti o quelli meno fortunati) per il privilegio di pochi discografici e band già affermate o morte. Con buona pace di Courtney Love e la famiglia Jackson.
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