Il caldo rovente, come i palchi su cui si esibirà tantissima gente interessante anche per questo agosto. Un'estate come non se ne vedevano da anni in Italia. Ecco un po' di band consigliate:
01.08.2010 Steve Hackett Band - Trieste
01.08.2010 Tre Allegri Ragazzi Morti - Polesella (RO)
02.08.2010 Patti Smith - Piazzola Sul Brenta (PD)
03.08.2010 Patti Smith - Grado (GO)
03.08.2010 Silver Rocket - Ceregnano (RO)
04.08.2010 Piotta - Ferrara
04.08.2010 Frigidaire Tango - Portomaggiore (FE)
06.08.2010 Appaloosa - Zevio (VR)
06.08.2010 Afterhours - Este (PD)
06.08.2010 Il Pan Del Diavolo - Ceregnano (RO)
06.08.2010 Drink to Me e Buzz Aldrin - Portomaggiore (FE)
07.08.2010 Litfiba - Majano (UD)
07.08.2010 Voivod - Pinarella di Cervia (RA)
07.08.2010 Port-Royal - Portomaggiore (FE)
07.08.2010 Diaframma - Ceregnano (RO)
07.08.2010 Paolo Benvegnù - Sesto al Reghena (PN)
08.08.2010 ...A Toys Orchestra - Zevio (VR)
10.08.2010 Morgan - Lignano Sabbiadoro (UD)
11.08.2010 Modena City Ramblers - Ferrara
12.08.2010 Alice Cooper - Majano (UD)
12.08.2010 Death By Pleasure, Silver Rocket e Nolatzco - Portomaggiore (FE)
13.08.2010 Morcheeba - Trieste
14.08.2010 Roy Paci & Aretuska - Trieste
(continua...)
sabato 31 luglio 2010
giovedì 29 luglio 2010
PNS - Ali (Venus Dischi, 2010)
Tracklist:
1. Di Ali e Nazioni
2. Il Mio Tempo
3. Il Cielo di Novembre
4. Come Mi Vuoi Tu
5. Distratti
6. Impossibili Creature
7. I Miei Perchè
8. Se Mi Distraggo Mi Distruggo
9. Sono Un Santo
In origine c'erano i Programmazione Neuro Sonica, con un nome che ricordava da vicino le band alternative italiane più famose (basta pensare ai Subsonica), rifacendosi comunque, come dimostrano solo ora con il primo disco, virtualmente a stilemi che proprio la band di Samuel, insieme ai Bluvertigo, ha già ricalcato. Poi, considerando che hanno deciso di mantenere la sigla PNS senza quella connotazione, quasi fosse una semplice sigla di un partito o di chissà quale associazione umanitaria, forse è ora anche di parlare di un percorso personale, nuovo e forse più stimolante.
Questo nuovo lavoro, Ali, arriva come prima parte di un blocco che sarà completato solo con Nazioni, già in fase di scrittura (che comporrà probabilmente una specie di concept dal titolo Ali+e+Nazioni).
Quello che propongono i PNS è un rock alternativo dai tratti smaccatamente indie, incline a macchiarsi d'Inghilterra quando non è troppo impegnato a tributare alle band italiane che hanno formato praticamente chiunque stia facendo musica negli ultimi anni, qui. Non sono gli ultimi arrivati, tanto che a produrli ci pensa Magnini (ex Bluvertigo, appunto), e un sound incredibile, curato, pieno, completo. Alcuni tratti più acustici ricordano il folk o la cantautorale, come l'introduttiva "Di Ali e Nazioni", ma poi si scende nel campo più rock, concretamente, con il rock di "Sono Un Santo", in realtà un pezzo tra i meno originali del disco. A risollevare le sorti dell'album ci pensano grandi brani come "Il Mio Tempo", "Come Mi Vuoi Tu" e "I Miei Perchè", a metà tra l'alternativa à-la CCCP, Marlene Kuntz e band inglesi d'estrazione indie, magari senza tralasciare i campioni attuali del rock inglese (Radiohead, Placebo e Muse), con ritornelli e, più in generale, linee melodiche sempre molto tranquille nonostante i momenti aggressivi che grazie alle chitarre e ad un'inarrestabile ritmica (in certi momenti davvero martellante) rendono assolutamente vario ogni singolo pezzo. Il piglio delle varie canzoni è sempre vagamente radiofonico, risoluto nel ricreare leitmotif o veri e propri refrain da tenersi stretti ed indelebili nella memoria. E poi c'è "Distratti" (interessante notare che la parola "distrazione", in differenti declinazioni, è ripetuta spesso nei testi, quasi fosse la parola chiave per interpretare tutto l'album), psichedelica, viaggiosa, tirata; un brano che si può tranquillamente guadagnare il premio di meglio costruito di tutta l'opera.
Strumentalmente i PNS non risultano ottimi, ma a cosa serve la tecnica quando c'è tanta ispirazioni, con tante aspirazioni (mi si scusi il gioco di parole...), una capacità compositiva sopra la media e un suono studiato e adatto al genere, in sintonia con le band capostipiti dell'alternativa italiana, proprio in quel settore dove questa band dichiara di voler stare. E lo fa senza ammetterlo verbalmente, con i suoi riff, con i suoi giri di basso, con i testi che pagano senz'altro tributo alle band italiane, per citarne alcune di diverse da quelle già menzionate Deasonika, Karnea, Verdena, Afterhours. Un bel disco, fresco, che si spera di apprezzare maggiormente quando il suo fratello gemello arriverà da noi. Bello.
Voto: 7.5
1. Di Ali e Nazioni
2. Il Mio Tempo
3. Il Cielo di Novembre
4. Come Mi Vuoi Tu
5. Distratti
6. Impossibili Creature
7. I Miei Perchè
8. Se Mi Distraggo Mi Distruggo
9. Sono Un Santo
In origine c'erano i Programmazione Neuro Sonica, con un nome che ricordava da vicino le band alternative italiane più famose (basta pensare ai Subsonica), rifacendosi comunque, come dimostrano solo ora con il primo disco, virtualmente a stilemi che proprio la band di Samuel, insieme ai Bluvertigo, ha già ricalcato. Poi, considerando che hanno deciso di mantenere la sigla PNS senza quella connotazione, quasi fosse una semplice sigla di un partito o di chissà quale associazione umanitaria, forse è ora anche di parlare di un percorso personale, nuovo e forse più stimolante.
Questo nuovo lavoro, Ali, arriva come prima parte di un blocco che sarà completato solo con Nazioni, già in fase di scrittura (che comporrà probabilmente una specie di concept dal titolo Ali+e+Nazioni).
Quello che propongono i PNS è un rock alternativo dai tratti smaccatamente indie, incline a macchiarsi d'Inghilterra quando non è troppo impegnato a tributare alle band italiane che hanno formato praticamente chiunque stia facendo musica negli ultimi anni, qui. Non sono gli ultimi arrivati, tanto che a produrli ci pensa Magnini (ex Bluvertigo, appunto), e un sound incredibile, curato, pieno, completo. Alcuni tratti più acustici ricordano il folk o la cantautorale, come l'introduttiva "Di Ali e Nazioni", ma poi si scende nel campo più rock, concretamente, con il rock di "Sono Un Santo", in realtà un pezzo tra i meno originali del disco. A risollevare le sorti dell'album ci pensano grandi brani come "Il Mio Tempo", "Come Mi Vuoi Tu" e "I Miei Perchè", a metà tra l'alternativa à-la CCCP, Marlene Kuntz e band inglesi d'estrazione indie, magari senza tralasciare i campioni attuali del rock inglese (Radiohead, Placebo e Muse), con ritornelli e, più in generale, linee melodiche sempre molto tranquille nonostante i momenti aggressivi che grazie alle chitarre e ad un'inarrestabile ritmica (in certi momenti davvero martellante) rendono assolutamente vario ogni singolo pezzo. Il piglio delle varie canzoni è sempre vagamente radiofonico, risoluto nel ricreare leitmotif o veri e propri refrain da tenersi stretti ed indelebili nella memoria. E poi c'è "Distratti" (interessante notare che la parola "distrazione", in differenti declinazioni, è ripetuta spesso nei testi, quasi fosse la parola chiave per interpretare tutto l'album), psichedelica, viaggiosa, tirata; un brano che si può tranquillamente guadagnare il premio di meglio costruito di tutta l'opera.
Strumentalmente i PNS non risultano ottimi, ma a cosa serve la tecnica quando c'è tanta ispirazioni, con tante aspirazioni (mi si scusi il gioco di parole...), una capacità compositiva sopra la media e un suono studiato e adatto al genere, in sintonia con le band capostipiti dell'alternativa italiana, proprio in quel settore dove questa band dichiara di voler stare. E lo fa senza ammetterlo verbalmente, con i suoi riff, con i suoi giri di basso, con i testi che pagano senz'altro tributo alle band italiane, per citarne alcune di diverse da quelle già menzionate Deasonika, Karnea, Verdena, Afterhours. Un bel disco, fresco, che si spera di apprezzare maggiormente quando il suo fratello gemello arriverà da noi. Bello.
Voto: 7.5
mercoledì 28 luglio 2010
Captain Beyond - Captain Beyond (Capricorn, 1972)
I Captain Beyond non sono molto famosi, ma in genere sono parecchio rispettati da coloro che li conoscono. Si tratta di un progetto che vedeva coinvolto il primo cantante dei Deep Purple Rod Evans, Larry "Rhino" Reinhardt e Lee Dorman degli Iron Butterfly e Bobby Caldwell, futuro batterista degli Armageddon. La musica presente su questo album, seppur non estremamente originale, è molto difficile da etichettare. C'è chi li ha definiti progressive rock, e, in effetti qualche costruzione prog c'è, ma per di più si tratta di hard rock un po' più complesso del solito.
Il fatto che la musica non sia estremamente originale non significa che sia banale o che sia brutta: al contrario questo album offre molteplici punti di interesse. Innanzitutto è bene notare che sebbene il disco contenga 13 tracce, in realtà i brani sono probabilmente solo 5. I Captain Beyond hanno infatti la tendenza (almeno per questo primo album) di iniziare con un tema, lasciarlo incompiuto, inserire un nuovo tema per poi riprendere quello originale.
Il primo "corpus" dell'album consiste nei primi tre brani. L'inizio è un rock tirato e trascinante con validi intermezzi chitarristici del bravo Reinhardt ("Dancing Madly Backwards (On A Sea of Air)"), per poi proseguire in una versione riarrangiata in stile quasi "southern rock" di uno dei temi "di sottofondo" del brano precedente ("Armworth") e concludersi con un finale inizialmente pacato, ma che in seguito diventa la reprise del tema iniziale ("Myopic Void"). Seguono due brani a se stanti: "Mesmeration Eclipse" e "Ranging River of Fear". Molto buono il primo, costruito su un riff grintoso e un ritmo di batteria potente, mentre un po' meno convincente il secondo, che sembra più che altro un collage di idee non portate a termine.
Il secondo corpus dell'album inizia con un intermezzo soffuso di chitarra acustica e voci ("Thousand Days of Yesterday (Intro)"), per poi esplodere in un tiratissimo hard rock ("Frozen Over") che di colpo sfocia nella "Thousand Days of Yesterday (Time Since Come and Gone)" vera e propria, che conclude anche il secondo corpus (e tecnicamente il quarto brano dell'album). Il brano, che in realtà poco nulla ha a che vedere con l'intro, confermando quindi la mia opinione che in realtà sul disco ci siano solo 5 brani, è probabilmente il momento più alto del disco. Si tratta di un rock melodico, ma allegro e spensierato dove chitarre acustiche trovano perfetta armonia con quelle elettriche.
Chiude l'album quindi il terzo corpus, quello più bilanciato tra l'immancabile hard rock e i passaggi meditativi. L'inizio ("I Can't Feel Nothin' (Part I)") è appunto un rock tirato che ricorda molto "Frozen Over", mentre completamente opposte sono le due parti di "As The Moon Speaks (To The Waves of the Sea)", quasi psichedelica e Pink Floydiana (le due parti sono intermezzate da un breve frammento intitolato "Astral Lady"). Chiude infine l'album la seconda parte di "I Can't Feel Nothin'". Un buon disco, decisamente, molto gradevole all'ascolto, che ci mostra un Rod Evans scatenato (dite quello che volete, ma la mia Mark preferita dei Deep Purple è sempre stata la prima).
Dopo questo disco i Captain Beyond espandono la loro formazione a sei e registrano "Sufficiently Breathless", disco buono, ma inferiore a questo e completamente diverso, poi Rod Evans lascia. Nel 1977 uscirà un terzo, discreto, "Dawn Explosion".
Voto: 7.5
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Captain Beyond,
hard rock,
Progressive rock
martedì 27 luglio 2010
Jonsi Live @ Ferrara Sotto Le Stelle, 22 Luglio 2010
E anche quest’anno Ferrara Sotto le Stelle ( e immersa nell’umidità) ha dato il meglio di se, invitando un artista di grande livello: Jonsì. A dire la verità ad alcuni di voi potrebbe parere un nome anonimo, ma se vi dico “il cantante dei Sigur Ròs”? Oh là! Bene. Adesso che avete capito di chi parlo, procediamo nella descrizione di quella sberla nel muso di concerto.
Il cantante dall’immensa estensione vocale ha letteralmente “pettinato” il folto pubblico della piazza ferrarese, scatenando applausi forsennati e “whoo whoo” di approvazione. Spiegare com’era composto il gruppo è come cercare di dirvi tutti i 51 stati americani in una parola: impossibile. Il bassista che diventa pianista, il chitarrista che diventa percussionista e il batterista che diventa rumorista, mentre il cantante si destreggia tra chitarra classica e un’altra microchitarra acustica. Un ensemble di pura bravura, che ha eseguito quasi alla perfezione il proprio repertorio. Fantastica atmosfera quando poi si sono sparse sulla piazza le note di “Go do” e “Animal arithmetic”, senza dimenticare quella creata durante le altre canzoni eseguite accompagnate dalle immagini animate sullo sfondo. Un gufo solitario che vola nella notte tra alberi spogli, un feroce lupo che insegue un cervo arrivando ad uno scontro fra i due animali, una esercito di ragni che si dirige verso un luogo immaginario, una pioggia che diventa tempesta scatenando il “panico” tra il pubblico, estasiato dalle note di “Grow till tall”; il gioco delle luci ha poi fatto il resto.
Un ora e mezza, circa, di pura estasi, divisa tra l’iniziale malinconia dei primi pezzi (alcuni inediti) e il furore della parte finale. C’è da dire che in un primo momento la malinconia avrebbe potuto trasformarsi in “abbiocco” ma ciò non è un rimprovero, bensì un aspetto di questo genere.
L’album “Go” del novello Papageno è stato acclamato dal pubblico, specialmente da me, in quanto amante di questo genere. Pare quasi che con questo progetto Jón Þór Birgisson (nome di battesimo di Jonsì) non abbia voluto allontanarsi troppo da quello che ha reso celebre in tutto il mondo i Sigur Ros.
Penso di essere stato abbastanza chiaro nel dimostrare quanto quel concerto sia stato una figata, no?
Il cantante dall’immensa estensione vocale ha letteralmente “pettinato” il folto pubblico della piazza ferrarese, scatenando applausi forsennati e “whoo whoo” di approvazione. Spiegare com’era composto il gruppo è come cercare di dirvi tutti i 51 stati americani in una parola: impossibile. Il bassista che diventa pianista, il chitarrista che diventa percussionista e il batterista che diventa rumorista, mentre il cantante si destreggia tra chitarra classica e un’altra microchitarra acustica. Un ensemble di pura bravura, che ha eseguito quasi alla perfezione il proprio repertorio. Fantastica atmosfera quando poi si sono sparse sulla piazza le note di “Go do” e “Animal arithmetic”, senza dimenticare quella creata durante le altre canzoni eseguite accompagnate dalle immagini animate sullo sfondo. Un gufo solitario che vola nella notte tra alberi spogli, un feroce lupo che insegue un cervo arrivando ad uno scontro fra i due animali, una esercito di ragni che si dirige verso un luogo immaginario, una pioggia che diventa tempesta scatenando il “panico” tra il pubblico, estasiato dalle note di “Grow till tall”; il gioco delle luci ha poi fatto il resto.
Un ora e mezza, circa, di pura estasi, divisa tra l’iniziale malinconia dei primi pezzi (alcuni inediti) e il furore della parte finale. C’è da dire che in un primo momento la malinconia avrebbe potuto trasformarsi in “abbiocco” ma ciò non è un rimprovero, bensì un aspetto di questo genere.
L’album “Go” del novello Papageno è stato acclamato dal pubblico, specialmente da me, in quanto amante di questo genere. Pare quasi che con questo progetto Jón Þór Birgisson (nome di battesimo di Jonsì) non abbia voluto allontanarsi troppo da quello che ha reso celebre in tutto il mondo i Sigur Ros.
Penso di essere stato abbastanza chiaro nel dimostrare quanto quel concerto sia stato una figata, no?
Recensione a cura di Alberto Lucchin
lunedì 26 luglio 2010
Emerson, Lake & Palmer - Brain Salad Surgery (Manticore Records, 1973)
Emerson, Lake & Palmer è il gruppo più bistrattato dalle riviste tipo "Rolling Stone" del progressive rock storico ai giorni nostri. Il perché è facile capirlo: a parte il fatto che le riviste tipo "Rolling Stone" fanno schifo, sono sicuramente il gruppo progressive più pomposo, spesso infatti riarrangiano molta musica classica (esempio lampante, i "quadri da un'esposizione" di Musorgskij), la loro presenza scenica, pur essendo in tre, era leggendaria, soprattutto quella del tastierista "polipo" Keith Emerson, e i brani di oltre dieci minuti nei loro dischi non sono rari, quindi è facile capire perché possano non piacere a tutti. Tuttavia, vederli inseriti al secondo posto in una lista dei "500 peggiori artisti di ogni tempo" rimanda alla mia prima obiezione.
Tuttavia, è innegabile che il trio abbia prodotto musica estremamente intelligente e interessante da sentire e che sia stupefacente il fatto che musica così piena e così complessa fosse prodotta da solo tre persone.
Riallacciandosi al discorso della pomposità che si faceva prima possiamo prendere come esempio i due brani che aprono il disco: "Jerusalem" (una rivistazione dell'inno "And did those feet in ancient time") e "Toccata" (un addattamento di Keith Emerson del quarto movimento del primo concerto di piano del compositore Argentino Alberto Ginastera). Sono indubbiamente due brani pomposi e sfarzosi, specialmente il primo. Ma se il risultato finale è buono, conta davvero? "Jerusalem" viene portata avanti con trionfo e "Toccata" è decisamente interessante e l'arrangiamento non è mai scontato o noioso.
La genialita di EL&P sta anche nell'accostare a questi due pezzi una ballada splendida come "Still...You Turn Me On", a opera del solo Greg Lake. Di solito non è mia prassi soffermarmi sui testi, ma ciò che rende questo brano speciale, non è solo la stupenda melodia e l'eccellente costruzione del brano, ma anche il bellissimo testo: romanticismo puro e sincero.
"Benny the Bouncer" non è nient'altro che un piccolo scherzo che serve a introdurre la suite suddivisa in tre movimenti "Karn Evil 9", il loro brano più lungo in assoluto, e a mio avviso il migliore. La curiosità è che il primo movimento è suddiviso a sua volta in due parti. Questo è dovuto al fatto che nell'LP originale, "Karn Evil 9" era troppo lunga per entrare in un lato solo, così la parima parte del primo movimento era presente nel lato A, mentre il resto della suite occupava interamente il lato B.
Il primo movimento è, tra l'altro, la cosa migliore di tutta la suite. Inizio trionfale e trascinante, che segue in una giga per sintetizzatore e chitarra elettrica suonata eccellentemente da Lake, con un supporto batteristico notevole di Carl Palmer, che dal vivo si produrrà anche in un assolo di batteria. Il secondo movimento della suite è una sorta di brano jazz, nel quale Emerson è il protagonista assoluto, intento a dimostrarci che la bravura di un muscista non sta solo nella tecnica (di cui peraltro lui è dotatissimo) ma anche nell'originalità e nel gusto. Infine, conclude trionfalmente la suite il terzo e ultimo movimento, con il testo scritto da Peter Sinfield (non proverò nemmeno ad analizzare il testo di "Karn Evil 9" prima che me lo chiediate). Si tratta di una marcia trionfale, con interventi "elettronici" di Emerson (celeberrimo il finale), degna conclusione di una suite pressoché perfetta.
Insomma, gli Emerson, Lake & Palmer sono un gruppo che magari ha avuto diversi eccessi, ma disprezzarli a priori per questo è semplicemente stupido: hanno fatto un bel po' di dischi eccellenti e "Brain Salad Surgery" è uno di questi. Non perdetevelo.
Voto: 8.5
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Emerson Lake and Palmer,
Progressive rock
domenica 25 luglio 2010
Elio e le Storie Tese live @ Sant'Agata Bolognese 17.07.2010
Vestiti da arabi delle favole, coreografie studiate e sfarzose, talmente sfarzose da risultare (volontariamente) irrisorie, tanta tecnica, tanto gusto, tanto humor e una presenza scenica impressionante. Si presentano così Elio e le Storie Tese a Sant'Agata Bolognese Sabato 17 Luglio 2010, in un concerto completamente gratuito. Gratuito certo, ma sicuramente a sei stelle.
Dopo un po' di attesa, durante la quale dalla casse non escono le solite canzoni di Culattini Fiorello o di Barbieri Fernando, ma i più tradizionali Queen e Beatles e una voce (probabilmente quella di Vittorio Cosma) che informa che il concerto verrà registrato e resto disponibile sul sito per gli iscritti, frase che mi spingerà ad acquistare una tessera di abbonamento per un mese per il Fave Club, finalmente le luci si spengono.
L'inizio suona vagamente familiare: un tappeto di tastiere (opera di Rocco Tanica e Jantoman), e un entrata di chitarra di Cesareo che fa piangere il cuore. Per forza: le Storie Tese (che presenziano sul palco assieme alla bravissima Paola Folli, come nel tour precedente) hanno appena attaccato con una fedelissima versione di "Shine on You Crazy Diamond" dei Pink Floyd. Dico le Storie Tese, perché di Elio non c'è ancora traccia. Ma eccolo arrivare di colpo: chitarra in mano, braccio sul manico, l'altro bracoio che saluta il pubblico, e soprattutto turbante in testa. Arriva giusto in tempo per fare le celeberrime quattro note. Con un colpo di scena (che in realtà aveva già fatto a San Remo, ma che soprende sempre e comunque), ad un certo punto sbuca la sua vera mano, rivelando che la mano che teneva sul manico era finta. All'entrata delle voci, invece di intonare "Shine on you Crazy Diamond" come ci si aspetterebbe, gli Elii urlano "Sciaooo!" rivelandoci che quello che abbiamo appena ascoltato non era un brano dei Pink Floyd, ma un loro brano intitolato "Sciao" ispirato appunto dal famoso gruppo Inglese. Dopo un breve "boogie woogie", arriva un altra sorpresa: "Lo Stato A, Lo Stato B", un brano che non mi sarei aspettato di sentire, seguito dall'ancora più sorprendente (e bella) "Pagàno", brano durante il quale Faso da il meglio di se.
E' ormai chiaro, dalle introduzioni di Elio, che il tema rincorrente della serata sono le "tematiche sottovalutate", così come l'anno scorso era "l'eleganza".
Dopo l'obbligatoria "Servi della Gleba" (al termine della quale Faso trova finalmente il coraggio di dare del puttanone alla ragazza), segue "Ignudi fra i Nudisti", uno dei due brani dei quale avrei fatto volentieri a meno.
Ma non faccio neppure in tempo a lamentarmi che gli Elii attaccano con una trascinante versione di "Gargaroz", successiva alla quale arriva "Plafone", splendido brano mozzafiato, dal vivo ancora più commovente, supportato da una grande prova dell'ugola di Paola Folli. Da solo questo brano valeva tutto il concerto! Subito dopo, arriva "Tristezza", l'altro brano che non ero particolarmente contento di sentire, che però dal vivo rende sicuramente di più (dovuto soprattutto alla presenza scenica dell'architetto Mangoni, durante la quale non ha fatto altro che tagliare una cipolla e buttarla al pubblico, e a Elio, che salta come un indemoniato colpendo un piatto). Dopo "Storia di un Bellimbusto", "Heavy Samba" (con Cesareo nella parte di Beibo, intento a bere un mojito da un pappagallo per le urine) e "Fossi Figo" arriva il Disco Medley, stavolta diverso dall'anno precedente e contenente "Tonza Patonza", "Presidance" e "Born to Be Abramo". Chiude il set regolare la "crowd pleaser" "Parco Sempione", sempre molto trascinante e bella da sentire. Qualche minuto di pausa e gli Elii tornano sul palco, iniziando di nuovo con l'intro di "Shine on You Crazy Diamond", o meglio "Sciao". Ma è solo una farsa che serve ad introdurre "Il Rock'n'Roll", durante la quale Elio declama che "Apicella fa cagare, il Principe fa ancora più cagare" e contenente uno straordinario assolo di batteria di Christian Meyer, verso il quale non saranno mai tessute abbastanza lodi. Lui e Faso sono una sezione ritmica incredibile, in piena sintonia, che non sbaglia mai una nota e non fa mai niente fuori posto. Infine il concerto viene chiuso da "Tapparella".
Un concerto fantastico. Le uniche possibili lamentele che ho sono appunto la presenza di "Ignudi fra i Nudisti" e "Tristezza", che avrei sostituito volentieri con "Il Congresso delle Parti Molli", ma si tratta solo di una frivolezza. Spesso di Elio e le Storie Tese si apprezza soprattutto lo humor, ma si dovrebbe prestare anche tanta attenzione alla musica, alla qualità dei musicisti e agli arrangiamenti impeccabili. L'ho detto nella mia recensione di "Gattini" e lo ripeto, alla luce di questo concerto: "è impossibile per chiunque con QI superiore alla media odiare volontariamente Elio e le Storie Tese". Andate a vederli. Non è un consiglio, è un ordine!
(Per la foto si ringrazia gentilmente Alberto Lucchin)
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concerto,
Elio e le Storie Tese
sabato 24 luglio 2010
RPA and the United Nations of Sound - United Nations of Sound (Parlophone/EMI, 2010)
Recensione scritta per Impatto Sonoro
Tracklist:
1. Are you Ready?
2. Born Again
3. America
4. This Thing Called Life
5. Beatitudes
6. Good Lovin'
7. How Deep Is Your Man
8. She Brings Me The Music
9. Royal Highness
10. Glory
11. Life Can Be So Beautiful
12. Let My Soul Rest
RPA è Richard Paul Ashcroft. Si, certo, proprio lui, quello che dopo la fine dei Verve ha fatto qualche bella canzone in dischi solisti piuttosto "scrausi" e ha pensato bene di riformare i Verve per rifare quella manciata di singoli che gli ha portato milioni. E poi tornare solista. Stavolta si presenta con un progetto in realtà fondato nel 2008 che porta il nome di RPA and the United Nations of Sound. Gli U.N.S. sono quattro musicisti più o meno britannici che lo accompagnano nella (ri)scoperta di cosa? Del medesimo sound, è ovvio. Un Richard Ashcroft che si rispetti non cambierebbe mai i suoi marchi di fabbrica per qualcosa che, tendenzialmente, rischia di funzionare meno. Perché c'è a chi piace. A noi non molto, ma addentrandosi nel disco si può trovare anche qualche pezzo di buona fattura. Come il singolo "Are You Ready?", dal sound più ashcroftiano che mai (e infatti ricorda molto sia i Verve che gli Oasis, con le miriadi di cloni che neanche vale la pena citare), in realtà un pezzo ben costruito e che funziona, fa credere, anche dal vivo; oppure la combo "Beatitudes" e "Glory", dove si apprezza maggiormente un lavoro di chitarra sempre troppo sobrio e che svolge forse eccessivamente il ruolo di riempitivo. Un elemento chiaramente positivo è la ricerca di un sound che sia volutamente "classico", rifacendosi a band storiche come ZZ Top e Lynyrd Skynyrd, però non raggiunge quegli standard di originalità che ci si aspettano da un progetto che il buon Richard ha spinto tanto perché passasse per "nuovo". Sono ottimi invece i testi, sempre abbastanza malinconici, come da sempre l'artista ha abituato i suoi fan. Ed è così che riesce ad esprimere il meglio, come nel brano "Lonely Soul". Il titolo la dice lunga, ma le liriche valgono una considerazione speciale.
In realtà era facile intuire che in un disco come questo si sarebbero riascoltati i soliti cliché dell'artista inglese, magari in salsa più moderna ma pur sempre rinchiusi in quelle "quattro mura" di suono. La verità è che non ha molto da dire al di fuori dei Verve, nonostante uno stile inconfondibile che gli ha procurato non poca fama. Richard, ripensaci.
Voto: 5.5
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RPA and the United Nations of Sound
venerdì 23 luglio 2010
Elisa Live @ Trieste 17 Luglio 2010
Sabato diciassette luglio duemiladieci. Nella splendida cornice di Piazza Unità d'Italia, a Trieste, ha avuto inizio la rassegna musicale estiva Serestate con il concerto di Elisa. La beniamina di casa ha richiamato circa 4.000 persone tra fans e curiosi che per una sera si sono lasciati trasportare dalla musica della cantautrice monfalconese, che ha proposto circa due ore di spettacolo con un repertorio che ha toccato tutta la sua carriera, non tralasciando ovviamente i pezzi più conosciuti dal grande pubblico, come Luce (brano vincitore di Sanremo 2000), Labyrinth e Gli Ostacoli del Cuore.
Durante l'esibizione davanti a una folla piuttosto coinvolta, nonostante il grande caldo che non ha risparmiato neppure la stessa Elisa (costretta a cercare un po' di refrigerio gettandosi addosso dell'acqua durante la performance di Rainbow), la cantante ha dimostrato tutta la sua duttilità, spaziando tra pezzi più rock e altri più melodici, questi ultimi a volte accompagnati dalla stessa Elisa al piano, che non ha mancato di confermare anche la sua ottima tecnica vocale. Con lei sul palco anche tre coriste, piacevole riempitivo in alcune delle canzoni eseguite.
Una nota particolare: per omaggiare le terre native la bisiaca ha proiettato, prima di Lisert, un video contenente testimonianze storiche di alcune persone nate negli anni del secondo conflitto mondiale (rigorosamente in dialetto, con sottotitoli in italiano); tra essi spiccava la nonna di Elisa, salutata direttamente dalla nipote in quanto presente tra il pubblico.
Un concerto che può sicuramente essere apprezzato sia dagli affezionati che da generici appassionati di musica italiana, che non possono comunque evitare di riconoscere la bravura di una delle artiste più note della scena nostrana, anche nel contesto di un live set come questo.
Setlist:
1. Introduzione
2. Anche Se Non Trovi Le Parole
3. Stay
4. Ti Vorrei Sollevare
5. Heaven
6. Eppure Sentire (Un Senso Di Te)
7. Someone To Love
8. Luce
9. Lisert
10. Dancing/Mad World
11. The Waves
12. Una Poesia Anche Per Te
13. Qualcosa Che Non C'è
14. Broken
15. Rock Your Soul
16. Hallelujah
17. Prayer
18. Labyrinth
19. Rainbow
20. Gli Ostacoli del Cuore
21. Together
22. Your Manifesto
-ENCORE-
23. Forgiveness
24. Redemption Song
*recensione a cura di Alessia Radovic ed Emanuele Brizzante
2. Anche Se Non Trovi Le Parole
3. Stay
4. Ti Vorrei Sollevare
5. Heaven
6. Eppure Sentire (Un Senso Di Te)
7. Someone To Love
8. Luce
9. Lisert
10. Dancing/Mad World
11. The Waves
12. Una Poesia Anche Per Te
13. Qualcosa Che Non C'è
14. Broken
15. Rock Your Soul
16. Hallelujah
17. Prayer
18. Labyrinth
19. Rainbow
20. Gli Ostacoli del Cuore
21. Together
22. Your Manifesto
-ENCORE-
23. Forgiveness
24. Redemption Song
*recensione a cura di Alessia Radovic ed Emanuele Brizzante
GTBT incontra la scena italiana #4 - I Got A Violet
Gli I Got A Violet sono una formazione rodigina da anni in giro per portare la buona causa del rock'n'roll dove non è mai arrivato. Li abbiamo intervistati per GTBT, dove non hanno evitato, come sempre, di dimostrare la loro spocchia e la loro faccia tosta davanti alle domande degli intervistatori. C'è a chi piace, loro lo sanno.
-INTERVISTA-
Ciao. E' un piacere intervistarvi per GTBT. Io sono di Rovigo e gli I Got A Violet li ho anche visti live più di qualche volta nei paraggi. I lettori però sono di tutta Italia e magari non vi conoscono. Date qualche cenno storico e descrivete, se vi va, il vostro progetto.
Il nostro progetto nasce qualche tempo fa, sono stati anni di sperimentazioni varie, ma è con queste composizioni e con questa line up che ha avuto la sua forma più compiuta, tutto ancora perfettibile s’intenda, comunque sia la via si è in qualche misura tracciata.
L'ultimo disco si chiama "Backwash", quindi "risacca". Il panorama polesano/padano è senz'altro vicino a voi quindi, non solo geograficamente. C'è qualcosa nella vostra musica che vi piace accostare alla vostra terra?
Sicuramente i grandi spazi aperti, l’umidità e l’abuso di vino intervengono a stimolare il nostro immaginario, anche perché viviamo qui e non conosciamo altri modi di vivere che questo. Sono altresì convinto che sia l’artista a scrivere la musica non il posto in cui vive, è da stupidi credere nell’equazione che se uno vive, per dire, a New York o Londra scriverà sicuramente della musica ficcante mentre chi viene da un buco di culo come questo potrà scrivere solo porcheria.
Alcune recensioni hanno dato i giusti meriti ad un album come questo. Vi sentite "compresi" dal mondo della critica musicale o c'è qualcosa, un messaggio, un aspetto o altri dettagli che sentite non siano stati recepiti nel giusto modo?
La maggior parte dei critici passa il tempo ad incasellare dischi per trovare questo o quel riferimento, manca la cognizione di causa. Se ci si lavasse il cervello da tutti gli stilemi che qualche idiota tenta di imporre saremmo tutti più felici e con la testa più fresca e ricettiva.
Domanda banale. Quali sono le vostre influenze? Nel vostro "garage" c'è una determinazione che è comunque molto punk, sotto certi punti di vista anche new wave. Vi riconoscete in queste etichette?
Le nostre influenze sono tante, tutto quello che ascoltiamo, in modi e misure differenti ci influenza, l’unica etichetta in cui ci riconosciamo è il rock’n’roll, il resto sono chiacchiere
Noi non abbiamo bisogno di etichettarci per capire quello che suoniamo è un altrui necessità
I live sono sempre più una realtà utile alle band perché i dischi si vendono sempre di meno. Che ne pensate della registrazione di bootleg da diffondere gratuitamente su internet e della diffusione digitale della musica?
Il bootleg è qualcosa per i fissati di un gruppo, io personalmente preferisco realizzare dischi in studio, magari in presa diretta, se uno voule il live si vada a vedere il gruppo. Il digitale (mp3) ha la qualità della spazzatura, purtroppo si è perso il senso di cosa significhi ascoltare un disco, oggi si corre freneticamente, tutto deve essere veloce e poco ingombrante, reperibile in tempo reale, lo sforzo mentale e il romantico della ricerca vengono così definitivamente eclissati.
Non so perché mi è venuta in mente questa domanda. Se doveste fare una canzone nel vostro dialetto, di cosa parlereste e come la intitolereste? Potete non rispondere, haha. A parte gli scherzi, i vostri testi sono in inglese e si collocano quindi su un livello diverso rispetto all'alternative "che conta" qui in Italia. Da dove viene la scelta di NON cantare in italiano?
Il “che conta” già dice tutto. Magari a noi eccita il non contare un cazzo, così possiamo fare gli antipatici e odiare tutti gli altri, combinare brutti scherzi e sparire senza troppo clamore. Io piuttosto chiederei agli altri da dove derivi la scelta di cantare in italiano musica di chiare origini anglosassoni…
Quali sono i progetti futuri di voi I Got A Violet? Qualche nuovo progetto in studio?
Al momento stiamo ben chiusi nel nostro studiolo a scrivere pezzi nuovi.
Grazie per aver partecipato a questa intervista Buona fortuna e un saluto da tutto lo staff.
Il nostro progetto nasce qualche tempo fa, sono stati anni di sperimentazioni varie, ma è con queste composizioni e con questa line up che ha avuto la sua forma più compiuta, tutto ancora perfettibile s’intenda, comunque sia la via si è in qualche misura tracciata.
L'ultimo disco si chiama "Backwash", quindi "risacca". Il panorama polesano/padano è senz'altro vicino a voi quindi, non solo geograficamente. C'è qualcosa nella vostra musica che vi piace accostare alla vostra terra?
Sicuramente i grandi spazi aperti, l’umidità e l’abuso di vino intervengono a stimolare il nostro immaginario, anche perché viviamo qui e non conosciamo altri modi di vivere che questo. Sono altresì convinto che sia l’artista a scrivere la musica non il posto in cui vive, è da stupidi credere nell’equazione che se uno vive, per dire, a New York o Londra scriverà sicuramente della musica ficcante mentre chi viene da un buco di culo come questo potrà scrivere solo porcheria.
Alcune recensioni hanno dato i giusti meriti ad un album come questo. Vi sentite "compresi" dal mondo della critica musicale o c'è qualcosa, un messaggio, un aspetto o altri dettagli che sentite non siano stati recepiti nel giusto modo?
La maggior parte dei critici passa il tempo ad incasellare dischi per trovare questo o quel riferimento, manca la cognizione di causa. Se ci si lavasse il cervello da tutti gli stilemi che qualche idiota tenta di imporre saremmo tutti più felici e con la testa più fresca e ricettiva.
Domanda banale. Quali sono le vostre influenze? Nel vostro "garage" c'è una determinazione che è comunque molto punk, sotto certi punti di vista anche new wave. Vi riconoscete in queste etichette?
Le nostre influenze sono tante, tutto quello che ascoltiamo, in modi e misure differenti ci influenza, l’unica etichetta in cui ci riconosciamo è il rock’n’roll, il resto sono chiacchiere
Noi non abbiamo bisogno di etichettarci per capire quello che suoniamo è un altrui necessità
I live sono sempre più una realtà utile alle band perché i dischi si vendono sempre di meno. Che ne pensate della registrazione di bootleg da diffondere gratuitamente su internet e della diffusione digitale della musica?
Il bootleg è qualcosa per i fissati di un gruppo, io personalmente preferisco realizzare dischi in studio, magari in presa diretta, se uno voule il live si vada a vedere il gruppo. Il digitale (mp3) ha la qualità della spazzatura, purtroppo si è perso il senso di cosa significhi ascoltare un disco, oggi si corre freneticamente, tutto deve essere veloce e poco ingombrante, reperibile in tempo reale, lo sforzo mentale e il romantico della ricerca vengono così definitivamente eclissati.
Non so perché mi è venuta in mente questa domanda. Se doveste fare una canzone nel vostro dialetto, di cosa parlereste e come la intitolereste? Potete non rispondere, haha. A parte gli scherzi, i vostri testi sono in inglese e si collocano quindi su un livello diverso rispetto all'alternative "che conta" qui in Italia. Da dove viene la scelta di NON cantare in italiano?
Il “che conta” già dice tutto. Magari a noi eccita il non contare un cazzo, così possiamo fare gli antipatici e odiare tutti gli altri, combinare brutti scherzi e sparire senza troppo clamore. Io piuttosto chiederei agli altri da dove derivi la scelta di cantare in italiano musica di chiare origini anglosassoni…
Quali sono i progetti futuri di voi I Got A Violet? Qualche nuovo progetto in studio?
Al momento stiamo ben chiusi nel nostro studiolo a scrivere pezzi nuovi.
Grazie per aver partecipato a questa intervista Buona fortuna e un saluto da tutto lo staff.
I Got A Violet ed Emanuele Brizzante per GTBT
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giovedì 22 luglio 2010
Piet Mondrian - Misantropicana (Urtovox, 2010)
Recensione scritta per Indie for Bunnies
Tracklist:
1. Report 1
2. Boogie Woogie
3. Apocalippo
4. Lascia Perdere
5. Ho Votato Lega
6. Un Corpo
7. Credo che per Natura l'Uom Sia Così
8. Una Notte al Casinò
9. Forse Questo E' Amore
10. La Situazione
11. Il Chiacchiericcio da Cortile
12. Humphrey Bogart
13. Dogma
Recensione:
"Sterminare gli anziani fascisti". Una dichiarazione d'intenti che comunque serve abbastanza a capire i contenuti e le inclinazioni più remote del disco. Politicamente schierato, anche se lontano dai cliché della scena punk e ska di parte, risulta un disco abbastanza vicino alla poetica hablada degli Offlaga Disco Pax per quanto riguarda i contenuti dei testi. In realtà i Piet Mondrian, cioè un duo fiorentino già attivo da qualche tempo (nonostante questo sia solo il loro primo full-length), sfornano un disco dall'animo pop ma declinato alla new wave e alla tipica ballad italiana, con la voce maschile a costituire, per timbrica, un ibrido perfetto tra il primo Piero Pelù e Bianconi dei Baustelle (più il secondo in realtà). Quella femminile invece risulta meno caratteristica, una voce più pulita e meno incisiva, però svolge un buonissimo lavoro a fare da contraltare a quella profondità quasi gutturale dell'altro protagonista (soprattutto in "Boogie Woogie"). La già citata new wave è evidente, con il suo gusto minimal e vagamente eighties, in "Report 1", "Apocalippo" e "Credo che Per Natura L'Uom Sia Così", che può ricordare i primi dischi dei Litfiba quando il sound vagamente anni ottanta ancora prevaleva sullo spirito rock. Qualcosa di più pop-italico alla ...A Toys Orchestra (roba seria insomma) pulsa in "Lascia Perdere", quasi una ballad da ninna nanna, in cui manca solo un carillon per completare il suo effetto soporifero. Non è una critica, ammettiamolo. C'è anche un minimo di chitarra acustica a dare un tono cantautorale al tutto; la sentiamo in "Un Corpo" e negli echi ancora pop di "Forse Questo E' Amore".
L'estro della band è abbastanza vagheggiante. Si propaga in tante direzioni, dimostrando la poliedricità di questo duo abbastanza atipico, forse perché proviene da una scena, quella toscana, che ultimamente ha dimostrato di espandersi, o volersi espandere, tantissimo, soprattutto nell'ambito rock. E questo li rende, appunto, originali rispetto al contesto. Tecnicamente niente da dire, manovrano pochi strumenti in maniera abile e completa, coniugando il risultato finale con testi assolutamente intelligenti, mai qualunquisti e sempre personali, che nonostante le vicinanze alle liriche del già citato leader dei corregionali Baustelle si assestano su un livello più alto, anche a livello lessicale.
Un disco consigliato per la potenza comunicativa immensa che l'unione tra musica e parole, in questo Misantropicana, riesce a creare. Ascoltatelo.
Voto: 8
mercoledì 21 luglio 2010
Fotoreport #3: Afterhours live @ Sonica Festival 16.07.2010
Queste foto sono state scattate da Martina di Toro durante l'esibizione degli Afterhours che abbiamo recensito qui.
martedì 20 luglio 2010
Fotoreport #2: Tempesta Sotto Le Stelle (Second Stage) 10.07.2010
Questo report fotografico del concerto tenutosi il 10 Luglio a Ferrara (qui recensito da noi) è a cura di Eleonora Verri e Gloria Brusamento. Trovate i loro profili flickr sotto, con tante foto comprese altre tratte dal medesimo concerto. Tutti i diritti sono riservati.
Eleonora Verri
Giorgio Canali e i Rossofuoco (foto 1) - di E. Verri
Giorgio Canali (foto 2) - di G. Brusamento
Zen Circus (foto 1) - di G. Brusamento
Zen Circus (foto 2) - di G. Brusamento
Altro - foto di G. Brusamento
Cosmetic (foto 1) - di g. Brusamento
Cosmetic (foto 2) - di g. Brusamento
Eleonora Verri
Giorgio Canali e i Rossofuoco (foto 1) - di E. Verri
Giorgio Canali (foto 2) - di G. Brusamento
Zen Circus (foto 1) - di G. Brusamento
Zen Circus (foto 2) - di G. Brusamento
Altro - foto di G. Brusamento
Cosmetic (foto 1) - di g. Brusamento
Cosmetic (foto 2) - di g. Brusamento
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lunedì 19 luglio 2010
The Sons - Visiting Hours (Pop Up Records, 2009)
Tracklist:
1. Welcome Home Again
2. Worry
3. Beside the Sea
4. Trying So Hard
5. Prime of Life
6. Safe
7. Intermission
8. Kids With Knives
9. Nightshade
10. Real Life
11. Do What You Feel
12. Geraldine and Me
13. Heroes
The Sons. Inizia il disco e ti chiedi figli di chi? Con quel pop/rock semplice e troppo spontaneo che se fosse una persona si direbbe "acqua e sapone", che se fosse una macchina si direbbe un sulky. E malfunzionante per giunta. L'album però poi scorre veloce, nelle sue tredici tracce, e ti fa capire che i The Sons sono figli dei The Kinks, di David Bowie, della più classica tradizione inglese. E infatti provengono proprio da lì, un po' da Leeds, un po' da Nottinghan, dove forse definire indie un artista non è stupido e modaiolo come qui ma è semplicemente esprimere la propria ammirazione per una produzione indipendente. I The Sons effettivamente dopo qualche ascolto iniziano a dire qualcosa, con quel piglio nostalgico che riporta all'attenzione di tutti una scena sommersa non tanto dal tempo che passa o dal cambiamento generale dai gusti, ma solo dall'abuso che si fa di certi linguaggi. Dopotutto è impossibile considerare originali brani come questi, dopo che si sono ascoltati per anni tutti i rockettari inglesi recenti e le più (ormai)"antiquate" realtà britanniche, eppure pezzi come "Welcome Home Again", con quella bella dichiarazione d'intenti nel titolo e i cori femminili verso la fine ad alleggerire la tensione creata dalla (troppa)quiete che cosparge tutto il brano, e come "Real Life" salvano il destino del disco. Nella sua duplice colpa di essere banale e anacronistico, risulta accattivante e dall'aria quasi selvaggia, un po' cupa, come piace alla piovosa (ma dove?) Inghilterra. Le chitarre non pestano mai troppo e si limitano a leggeri overdrive, il basso distorto (forse un Rickenbacker?) si distingue per la sua sonorità nordica da miglia di distanza. Un sound riconoscibile e personale, coniugati con un songwriting sicuramente abbastanza "individuale", non troppo scopiazzato né sbavato. Sicuramente hanno le carte per fare strada, ma prima si devono liberare della loro provenienza geografica, un mostro che divora tutti quelli che vogliono uscirne. Il problema è che non bisogna andarsene solo per fare date, ma scappare ed ascoltare anche produzioni estere. Allora si che i The Sons sapranno strappare il giusto quantitativo di applausi.
In ogni caso un bel disco di pop anglofono.
domenica 18 luglio 2010
Afterhours live @ Sonica Festival 16.07.2010
*foto di Martina di Toro
A Sant'Agata Bolognese organizzano un festival gratuito. Bella idea no? Ma non è certo la gratuità dell'evento a renderlo prestigioso quando si tratta degli Afterhours che in questo assetto fortemente elettrico (per una volta privo di tastiere e tante ballate acustiche), con il ritorno del disperso Xabier Iriondo, riescono a far sognare come o più di quanto i fan decennali ricorderanno negli anni '90.
Il concerto, durato circa 2 ore, si è concentrato perlopiù su brani degli album più vecchi, quelli su cui il buon Xabier, vero idolo della serata, era più ferrato. Con la sua presenza alla chitarra la band ha quasi assunto una carica diversa, nuova, o meglio ritrovata (con buona pace del povero Ciccarelli che non ha combinato poi molto alla chitarra, risultando comunque un ottimo riempitivo). Il modo in cui Iriondo distrugge le sue corde schitarrando con una potenza (e una presenza scenica) da vero animale da palco risulta quasi anomalo per chi è abituato a vedere gli Afterhours degli ultimi anni, che vengono catapultati da una dimensione che era ormai vicina al sound italo-pop a quella grunge superpestone e supercazzone degli anni '90, in sostanza quella che li ha resi famosi. Ed ecco infatti che la scaletta si colora con la presenza di "Siete Proprio dei Pulcini", assente in scaletta da tantissimo tempo, "Veleno", "Nadir" e "Posso Avere Il Tuo Deserto", tutte gemme che i fan non erano più abituati ad ascoltare live. Aggiungiamoci poi una versione perfetta, praticamente identica al disco, di "Strategie", cantata e ballata all'unisono, e il gioco è fatto. Con pochissime canzoni tratte dagli ultimi due dischi i milanesi mettono a segno un live praticamente impeccabile, salvo le ormai classiche piccole imperfezioni alla voce che, voglio dire, sono piuttosto normali visto l'incedere inarrestabile degli anni che passato anche per il buon Manuel Agnelli (particolarmente incazzoso questa sera secondo il sottoscritto). Con la loro mise un po' carnevalesca, chi vestito da dark, chi da schiavo sadomaso e chi da frate, provano anche ad aggiustare il tiro su una presenza sul palco che da anni si era sopita ma che ha sembrato questa sera voler rinascere, insieme alla graffiante cattiveria che ha investito chiunque, un Giorgio Prette che da quasi 10 anni non picchiava così forte e precisamente, un Roberto dell'Era che finalmente suona il basso e non ci giochicchia e un Agnelli assolutamente scatenato, più movimentato e aiutato anche dal solito gesticolare che accompagna da anni brani come "L'Estate", o i suoi trademark come lo sputo in aria e il microfono fatto vorticare per aria.
Insomma un live che non teme confronti, neppure se paragonato alle glorie degli anni '90 che i fan di oggi possono solo gustare in qualche bootleg. Gli Afterhours non sono mai morti e dimostrano, grazie anche all'insostituibile (e questo ce lo dimostra) Iriondo che rimangono gli alfieri del rock alternativo italiano senza ancora il canonico bisogno di un cambio della guardia. E dire che sono in testa da vent'anni, ho detto tutto. Efficaci, taglienti, roboanti, perfetti. Una performance eccezionale.
Questa è la setlist, completa ma non in ordine (mi scuso per l'assenza del titolo della cover, non la conoscevo e non sono riuscito a comprenderla).
PUNTO G
NADIR
GERMI
SIETE PROPRIO DEI PULCINI
RAPACE
POSSO AVERE IL TUO DESERTO
E' SOLO FEBBRE
VARANASI BABY
LA SOTTILE LINEA BIANCA
BALLATA PER LA MIA PICCOLA IENA
POCHI ISTANTI NELLA LAVATRICE
DEA
SIMBIOSI
TARANTELLA ALL'INAZIONE
VELENO
IL PAESE E' REALE
MALE DI MIELE
SULLE LABBRA
RITORNO A CASA
----
THE LETTER (cover THE BOX TOPS)
L'ESTATE
TELEVISIONE
---
STRATEGIE
BUNGEE JUMPING
IL SANGUE DI GIUDA
Video di Jadax83
sabato 17 luglio 2010
Ska-P e Gogol Bordello live @ Padova 14.07.2010
Sherwood Festival, 14 Luglio. Una serata di puro divertimento con due delle band più scatenate in circolazione, Ska-P e Gogol Bordello. Si contano tantissimi presenti, ad occhio e croce più di ventimila. Alcuni problemi tecnici rovinano un po' la serata come l'inizio alle ore 20.00 quando il sole ancora alto fa percepire in mezzo alla folla una temperatura di oltre quaranta gradi, un inizio troppo anticipato che in Italia risulta veramente ridicolo (non siamo in Inghilterra...), così come i limiti di volume imposti dalla polizia in questa edizione del festival, che rendono abbastanza noioso seguire un concerto da un po' più distante dell'area sottopalco.
Ottimi i missaggi di entrambi i gruppi che sfoggiano in tutto più di 3 ore di spettacolo. I Gogol Bordello, spettacolari e tecnicamente eccezionali, hanno intrattenuto una folla già abbastanza numerosa (ma circa la metà di quella che ci sarà dopo) con circa 70 minuti di set comprendente canzoni tratte da tutte le loro uscite discografiche. Su tutte spicca la bellissima e coinvolgentissima "Break The Spell", seguita a ruota dall'immancabile singolo "Not A Crime". Notevole la presenza scenica della band, in particolar modo quella del frontman Eugene Hutz che non smette un secondo di ballare e saltellare come un folletto. E la folla inizia a scaldarsi pogando e saltando, lanciando in aria oggetti e con piccoli accenni di crowd surfing.
Gli Ska-P salgono sul palco verso le ventidue abbandonandolo dopo due ore di devastante pogo, salti e danze che hanno coinvolto praticamente tutti i presenti e non solo il classico nucleo centrale del pubblico. Impossibile non rimanere vittima dell'ondata di movimento generata dalla loro musica che sembra fatta proprio per questo "clima di festa". In repertorio storici brani come "El Nino Soldado", "A La Mierda" e "Seguimos En Pie", senza tralasciare l'epica "Crimen Sollicitationis" (la più recente) e le supertirate "Planeta Eskoria", "Estampida" e "Cannabis", quest'ultima accompagnata coralmente da tutti i presenti. Dopotutto siamo nel posto giusto. Interessanti gli intermezzi parlati, in italiano, tipici della band, con percentuali e fatti di cronaca riguardanti la nostra storia, tutti in salsa rigorosamente "resistente" e antifascista. Sappiamo con chi abbiamo a che fare e le esortazioni un po' "modaiole" devo dire come le urla "Berlusconi vaffanculo" sono abbastanza esagerate nel 2010.
La band tecnicamente ci sa ancora fare nonostante gli anni e anche a livello di rapporto diretto con i fans e tenuta di stage si dimostrano veri e propri animali da palco, grazie anche ad alcune trovate sceniche come i cambi d'abito. Tutto ciò basta a mascherare canzoni che su disco sono comunque tutte troppo simili, ma non è questo che può rovinare un live così energico, caloroso, con un clima da party che non si ferma mai fino all'ultimo secondo, a mezzanotte in punto.
Una serata come poche volte lo Sherwood ha potuto offrire.
Insistimos.
Le foto sono di Annalisa Bano
venerdì 16 luglio 2010
GTBT Incontra la Scena Italiana #3 - Rummer and Grapes
Prima di conoscerli non pensavo che a Terni ci fosse una buona scena rock, invece i Rummer and Grapes rappresentano perfettamente la loro città dal punto di vista musicale. Il loro sound molto alternative rock inglese (placebiano, per dirla con un aggettivo inventato adesso), si coniuga perfettamente con un uso ottimo della lingua britannica nei testi, come dimostra Every Damned Friday, pubblicato con New Model Label e da noi recensito qui. E gli abruzzesi sono qui con noi per rispondere ad alcune domanducole. Buona lettura.
-INTERVISTA-
Ciao amici dei Rummer and Grapes. Dopo aver recensito il vostro disco su GTBT ci siamo interessati a voi ed eccoci per qualche domandina. Innanzitutto grazie di aver accettato. Lascio a voi un piccolo cenno introduttivo/storico sulla vostra formazione, dite quello che volete e quanto volte
Ci conoscevamo già da tempo, suonavamo insieme in una cover band finchè un giorno abbiamo deciso di provare a suonare qualcosa di nostro. Da li a poco è nato il nostro primo album, un lavoro fatto in poco più di due mesi che ci sta dando già qualche piccola soddisfazione.
Interessante il modo in cui la voce della vostra frontwoman Simona si piega a diversi registri e timbri, e per questo dobbiamo sicuramente farle i complimenti. Quali sono i vostri ascolti che pensate si sentano in maniera più distinguibile nelle vostre canzoni?
Nelle nostre canzoni si sente una forte influenza brit di gruppi come Interpol, Placebo, Franz Ferdinand, Garbage e Kooks. Molte altre sono le influenze personali presenti nel nostro modo di suonare, si va dal rock anni 70 dei Led Zeppelin, Deep Purple, Who al pop anni 80.
Voi venite da Terni, una città che bene o male non è mai stata rinomata per il rock. Com'è la scena "underground" nella vostra provincia e nella vostra regione? Vi sentite di consigliare a band emergenti esterne di venire a fare qualche data là?
Purtroppo nella nostra città, come nell'intera regione, ci sono molti gruppi ma pochissimi club che permettono di suonare live.Questo è veramente un peccato visto il grande interesse e la gran quantità di persone che suona. Al dire il vero l'unico locale che permette di suonare a Terni è lo Skylab, questo è l'unico che ci sentiamo di consigliare.
Cosa ne pensate del mondo della critica musicale? E' difficile valutare con poche parole il lavoro di anni di composizione, e spesso gli accostamenti con altri gruppi tendono a sminuire il risultato finale. Vi sentite compresi da chi ha parlato del vostro materiale?
Crediamo che giudicare un lavoro di mesi in poco tempo sia veramente difficile. Molte volte però alcuni critici esagerano nelle loro recensioni sul fatto dell'originalità delle band, forse per essere alternativi o per darsi un tono.Vorrei ricordare che essere originali oggi è difficilissimo, se pensiamo che tuttora la musica anni 70 influenza fortemente molte band, e non ce niente di sbagliato prendere spunto dai grandi del proprio genere.
Il nome del vostro ultimo, e se non sbaglio unico, full-length è "Every Damned Friday". Perché questo titolo? C'è un legame con i titoli delle canzoni?
Il titolo del disco è preso dalla canzone Short Drink, forse è proprio la frase che nel momento della realizzazione del disco ci rappresentava di più, in quanto parla dei nostri venerdì passati insieme nei locali.
Come sono i vostri concerti? Avete in scaletta anche cover, reinterpretazioni o materiale "non musicale" o vi concentrate nel trasmettere la vostra produzione? Alcune canzoni non sarebbero male, secondo il mio modesto parere, accompagnate da immagini, proiezioni, ecc. C'è molto colore, diciamo
Per il momento è inevitabile fare anche cover, solo con nostre canzoni non riusciremmo a tenere un live di circa 2 ore, naturalmente molte di queste sono reinterpretate nel nostro stile. A dire il vero non avevamo ancora pensato a una cosa del genere, grazie per l'idea, chissà che in futuro non lo faremo.
Come nasce una canzone dei Rummer and Grapes?
Di solito nascono insieme nella sala prove. Si parte quasi sempre da un riff, poi s'inizia a lavorare ad una melodia da mettere sopra ed infine si adatta il testo alla melodia.
Grazie di esservi prestati a questa intervista. Le porte di Good Times Bad Times sono sempre aperte per voi Rummer and Grapes. Un saluto!
Emanuele Brizzante e Luca Ferrotti per GTBT
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giovedì 15 luglio 2010
Fotoreport #1: Tempesta Sotto Le Stelle (Main Stage) 10.07.2010
Questo report fotografico del concerto tenutosi il 10 Luglio a Ferrara (qui recensito da noi) è a cura di Martina di Toro ed Eleonora Verri. Trovate i loro profili flickr sotto, con tante foto comprese altre tratte dal medesimo concerto. Tutti i diritti sono riservati.
Eleonora Verri
Martina di Toro
Eleonora Verri
Martina di Toro
Moltheni (foto 1) - di M. Di Toro
Moltheni (foto 2) - di M. Di Toro
Le Luci della Centrale Elettrica (foto 1) - di M. Di Toro
Le Luci della Centrale Elettrica (foto 2) - di M. Di Toro
Le Luci della Centrale Elettrica (foto 3) - di E. Verri
Tre Allegri Ragazzi Morti (foto 1) - di M. Di Toro
Tre Allegri Ragazzi Morti (foto 1) - di M. Di Toro
mercoledì 14 luglio 2010
The Sea - Get It Back (Black Nutria/Audioglobe, 2010)
Tracklist:
1. Don't You Want Me
2. Love Love Love
3. Say It Again
4. By Myself
5. Sun Noir
6. What You Gonna Say Now
7. Miss You
8. Everybody Knows
9. I Spend My Days
10. Can You Feel
11. Need You
Un gruppo. La prima impressione è che si tratti dell'ennesimo gruppo inglese anche se non dei soliti indie-modaioli finti alternativi e fuori dalle righe per gioco (e per denaro). Trattasi invece dell'ennesimo tozzo di pane sbocconcellato dal panorama hard rock, nonostante si sporchi, in questo caso, di toni diversi, variegati, con tanta, tanta, carne sotto al sole. E infatti è un bel disco.
Chitarre nervose e di stampo marcatamente hard rock vecchio stile, come ultimamente sentiamo da gente come Airbourne, Jet, e pochi altri (in alcuni tratti anche i Kings of Leon? Mah...), però con quell'ironia pop molto eighties, inaugurano il disco con la bella "Don't You Want Me". Il vocalist ricorda effettivamente Nic Cester in più di un frangente, come nella rocambolesca e fugace (tra le migliori, comunque) "Love Love Love". Di per sé quello che ci si trova tra le mani non è un disco interessante per il suo profilo di innovazione o delle possibili sorprese che possa generare, ma tutt'altro. Stupisce il modo in cui elementi banali e già supersfruttati (diciamo meglio, abusati) da chiunque sappiano comunque ricreare un ambito personale, in cui la band possa spaziare padroneggiando benissimo questi mezzi. Ripetendo, niente di nuovo, ma il power duo ci sa fare, e proprio come i White Stripes (che quasi "citano" con la scelta di questo tipo di sound), utilizzando distorsioni molto acide, grezze, e si lasciano intorbidire qua e là da momenti psichedelici (come in "By Myself", non certo tra gli episodi più azzeccati purtroppo, e la dice lunga la sua melodia vagamente pinkfloydiana che in certi momenti puzza di plagio, soprattutto nelle linee vocali). Il blues come lo avevano portato nell'hard rock anche i Led Zeppelin si sente con malcelata prepotenza in "Sun Noir", questa per davvero molto Jack White soprattutto alla voce (come in "Everybody Knows" si rifarà più tardi, all'ottavo gradino degli undici che compongono quest'opera). E ancora toni blueseggianti per "Can You Feel", quasi una cover dei White Stripes, a scandire quelle influenze garage che tanto continuano a tributare il povero Captain Beefheart. Non mancano neppure i momenti più tipici del panorama alternative pop e rock inglese, che ricordano magari i lavori solisti del buon Pete Doherty o tante altre vecchie glorie che non stiamo qui a citare. Solita pappardella, ma che i The Sea sanno utilizzare e reinterpretare. Eccome se lo sanno fare (pure nella bella bonus track).
L'album è sicuramente completo, con i suoi momenti di distensione e molti, mai troppi, attimi di vorticoso innalzamento dei toni, con tante distorsioni (senza cadere negli eccessi) e un uso ben ponderato della batteria, che rinuncia agevolmente a ghirigori e tecnicismi di sorta in cambio di una ritmica rigida, solida, "cubica". Un album semplice, d'impatto, totalmente British. Anche queste cose, se le guardate con l'occhio giusto, sanno ancora spaccare. E' il caso dei The Sea.
Voto: 7.5
martedì 13 luglio 2010
The Blast - Cut (Collettivo Mad Noises, 2010)
Tracklist:
1. C_U_T
2. Amaro
3. Kept in This Room
4. Second Mrs Panofsky
5. Vita in Trasparenza
6. Energie di fine Estate
7. Le Silence
"Cut" è il nuovo disco di The Blast, progetto nato in seno al collettivo di artisti autodefinitosi Mad Noises, più l'appellativo descrittivo "collettivo espressivista". Un'espressione ambiziosa, ma che ha dato vita a prodotti artistici raffinati, tutto sommato, di ottima fattura.
Questo secondo disco ufficiale del progetto si presenta come un piccolo gruppetto di sette intensi pezzi, dal sapore occidentale ma vagamente psichedelico, forse teso a nord, ma a cosa serve sottolinearlo? Il nucleo del progetto è in mano a pochi, ma buoni, musicisti (in "Cut" sono tre, Antonio Serra, Francesco Bennardo e Natalia Longo, creando una vera e propria federazione per un prodotto finito assolutamente di qualità, compreso un packaging talmente low-quality, con quell'interno che fa molto origami "tagliate qui" che ti lascia ulteriormente soddisfatto.
Spulciando invece le tracce la cosa inizia a farsi più interessante. Dove sembrano i Marlene Kuntz o i primi CCCP, dove si ripercorre il taglio alternativo di CSI e Ustmamò, dove la psichedelia ti ricorda di guardare in direzione Inghilterra. Non solo Pink Floyd, ma anche Flaming Lips. L'inizio è più prettamente italico, con i primi due brani, soprattutto "Amaro", dove le linee vocali e il timbro ricordano le vecchie glorie dei Timoria ma strizzano l'occhio all'estero, senza lasciare mai il nostro paese in quanto ad intensità e romantiche visioni. Ottimi testo, apporto ritmico ed arpeggi di chitarra. Più graffiante e per certi versi jesuslizardiana "Kept in This Room", con qualche ricordo lontano di Jesus and the Mary Chain. Basta fare nomi, questo collettivo ci sa proprio fare, una volta squarciato il velo della poca varietà di un disco così, in realtà mai troppo banale. Dove ci si aspetta un cambiamento non arriva, e viceversa. La sterilità dell'immobilità. "Vita in Trasparenza", un post-punkettone di tutto punto, anni '90 pur con uno spirito più antico, vestito di ceneri e nuvole. In generale l'atmosfera è sempre molto buia, e anche "Le Silence", in chiusura, ti dà l'idea di un tunnel immensamente oscuro e triste, anche se non è questo ciò che con "Cut" i The Blast volevano comunicare. Quelle tensioni psichedeliche, le pulsazioni del cuore che vanno verso l'arresto, chitarre scattose e a volte melense, un songwriting assolutamente azzeccato, questi sono gli elementi che lo rendono grande.
Un bel disco che non aggiunge niente a tutti i discorsi già fatti nei generi nominati, ma sicuramente ascoltabile ed apprezzabile sopra quella linea che scandisce la media del periodo. Consigliato.
Voto: 7.5
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