È uscito il ventiduesimo album dei Jethro Tull! Oppure è uscito il settimo album solista di Ian Anderson? Il nome sul disco dice una cosa, il resto, immagine di copertina compresa, un'altra. In effetti, il nome dei Jethro Tull è sempre stato fonte di vari cambiamenti di line-up ma con alcune garanzie apparentemente inossidabili: prima su tutte è che, ovviamente, al timone, alla voce solista, al flauto, alle chitarre acustiche e a qualsiasi altro strumento gli venisse in mente di suonare ci sarebbe sempre stato Ian Anderson, il folletto menestrello della storia del rock, oggi un po' più posato ma sempre comunque una figura di grandissima personalità. La seconda è che Martin Barre, chitarrista entrato nella band nel 1969 nel secondo LP "Stand Up" sarebbe stato al suo fianco dando un colore unico e distintivo alla alla musica. Va comunque specificato che la filosofia dei Jethro Tull non è mai stata riducibile solamente a questi due personaggi e che chiunque entrasse nella line-up finiva per diventarne un tassello importante ma di fatto prima dell'uscita di questo "The Zealot Gene", il nome dei Jethro Tull era stato messo in pensione esattamente nell'istante in cui Anderson aveva deciso di interrompere il suo sodalizio di 42 anni con Barre.
Negli anni successivi, Anderson ha formato una propria band e pubblicato due dischi solisti: "Thick as a Brick 2: Whatever Happened to Gerald Bostock?" (2012) e "Homo Erraticus" (2014). Non era la prima volta che il musicista Scozzese si dedicava a produzioni proprie ma le differenze tra un lavoro che usciva a nome Jethro Tull e uno che veniva, invece, pubblicato a proprio nome erano sempre molto marcate: si comparino, ad esempio, i quasi coevi "J-Tull Dot Com" (1999) e "The Secret Language of Birds" (2000). Questi due album di mezzo, invece, sembravano essere un proseguimento delle sonorità classiche dei Jethro Tull, presentando un songwriting sicuramente dignitoso ma arrangiato e suonato senza quel calore e quella convinzione che avevano anche solo le ultime formazioni, lasciando molto spesso l'impressione di trovarsi davanti a lavori eseguiti delineando con il righello fino a che punto si potessero spingere i musicisti.
"The Zealot Gene" continua un po' su questa falsariga, non sorprendentemente dato che il nucleo principale dei musicisti è lo stesso: Ian Anderson, Florian Ophale (chitarra), John O'Hara (tastiere), David Goodier (basso) e Scott Hammond (batteria). A loro stavolta si aggiunge Joe Parrish, giovanissimo chitarrista subentrato ad Ophale nel 2020, il cui contributo in questo album però si limita ad una sola canzone. Stavolta, però, c'è una differenza sostanziale che rende tutto certamente molto meno freddo: le basic track sono state registrate, per la prima volta, in presa diretta, inclusi i vari assolo, e la differenza si sente, soprattutto nelle sezioni centrali di brani come "Mrs Tibbets", "Mine is The Mountain" e "The Betrayal of Joshua Knyde" che ne escono certamente molto più potenti e trascinanti comparate ai momenti simili apparsi nei due album precedenti. Inoltre, dato che allo scoppio della pandemia di Covid-19 le registrazioni non erano ancora state ultimate, cinque dei dodici pezzi proposti in scaletta sono stati incisi "in remoto" con arrangiamenti più rarefatti ed intimisti, cosa che, peraltro, contribuisce a dare una varietà maggiore alla musica qua proposta. Questo tipo di esercizio è sempre stato un campo in cui Anderson eccelle per cui non sorprende che, in particolare, tre di questi pezzi ("Sad City Sisters", "Three Loves, Three", "In Brief Visitation") risultino tra i più riusciti, stilisticamente e come caratura non troppo distanti dai migliori momenti "The Secret Language of Birds" e "Rupi's Dance" (2003).
Altre canzoni degne di nota sono l'opener "Mrs Tibbets", solido brano rock ben costruito con un'ottima prestazione chitarristica di Florian Ophale, l'intrigante "The Betrayal of Joshua Knyde", l'accattivante title-track e la possente "Barren Beth, Wild Desert John". Viceversa, meno convincenti sono quei pezzi nei quali c'è un'esplicito tentativo di recupero di alcune atmosfere passate, come in "Mine is the Mountain", dichiarato sequel del classico "My God" che, per ovvi motivi, non ha lo stesso pathos e la stessa profondità dell'originale. Inoltre, benché sia in sé una canzone discretamente valida, "The Fisherman of Ephesus" non è adatta come chiusura e termina l'album lasciandolo un po' impacciatamente in sospeso.
Dal punto di vista concettuale, "The Zealot Gene" si propone utilizzando una cornice abbastanza intrigante. Anderson ha infatti composto le 12 canzoni stilando una lista di altrettanti emozioni, positive o negative (amore, tenerezza, rabbia, egoismo…) e introducendole nel libretto associando a loro una citazione Biblica. Non si può, quindi, parlare di concept album dato che le tematiche delle canzoni sono comunque slegate tra di loro ma le rende sicuramente molto di più di una mera collezione di brani. I testi in sé, al solito, sono costruiti in maniera molto intelligente: tra questi vale la pena sicuramente citare quello di "Mrs. Tibbets", basato sui vari giochi di parole legati a Enola Gay, che era sia l'aereo che sganciò le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, sia il nome della madre del pilota che lo guidava, Paul Tibbets. Molto interessante anche il testo di "Mine is the Mountain", probabilmente più della musica stessa, nel quale Dio viene visto non come il Padre Onnipotente che deve risolvere tutto, quanto un eremita che dopo aver creato la sua opera vuole semplicemente rimanere in pace senza dover rispondere a domande o richieste di aiuto.
Da un punto di vista strettamente strumentale, le performance sono tecnicamente buone e decisamente un passo avanti rispetto a quelle effettuate dalla stessa line-up nei loro due dischi precedenti, soprattutto grazie alla presenza dell'interplay. Allo stesso tempo, le critiche fatte fino ad ora restano valide: si tratta comunque di una band che suona in maniera competente ma eccessivamente morigerata e senza una grandissima personalità. Viceversa, la voce di Anderson, purtroppo da tempo deteriorata a causa di seri problemi alle corde vocali, che dal vivo è da anni il cosiddetto elefante nella stanza, in un contesto da studio non suona poi così male, risultando anche non poco gradevole nei brani più intimisti ("Where Did Saturday Go?" e "Three Loves Three"), complice anche la possibilità di non dover cantare a piena emissione.
Ali di là delle varie polemiche sul nome che fintanto che questa formazione esisterà continueranno ad esistere, "The Zealot Gene" è sicuramente un lavoro soddisfacente che non insulta il nome Jethro Tull e che, se da un lato non aggiunge nulla di nuovo o di non già detto negli ultimi anni, dall'altro non è povero di buone trovate melodiche ed è la dimostrazione che Anderson è ancora in grado di comporre materiale di fattura pregevole e, soprattutto, sempre inequivocabilmente nel suo stile.
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Jethro Tull (2022) David Goodier, Joe Parrish, Ian Anderson, Scott Hammond, John O'Hara |