mercoledì 3 novembre 2010
Dream Theater - Six Degrees Of Inner Turbulence (Elektra Records, 2002)
I Dream Theater sono uno dei gruppi più amati/odiati della storia. Alcuni li definisco dei “mostri” altri eccessivamente tecnici con una nuova generazione più aperta musicalmente verso di loro rispetto alle persone attaccate totalmente al classico Prog sinfonico anni ’70 che comunque sia rimane il migliore. Avevano iniziato alla grande, il secondo album Images And Words (1992) rimane un capolavoro del Metal, un album in cui si alternano i momenti di dolcezza con quelli più cattivi e quelli più virtuosi. Con il passare degli anni i DT diventeranno più macabri (Awake (1994)), più semplici (Falling Into Infinity (1997)), più complessi (A Change Of Seasons (1995)) fino ad arrivare all’approdo di Rudess che darà una ventata di virtuosismo e freschezza e che si allontana dal suono più classico di Kevin Moore e da quello tipico Hard-Rock di Derek Sherinian. Metropolis Pt.2 (1999) è un concept fantastico estremamente completo che precede un altro album probabilmente troppo sottovalutato: Six Degrees Of Inner Turbulence.
L’album è diviso in 2 cd; un concept strutturato che a volte carica e a volte strappa lacrime. Il tutto inizia con un’apertura devastante. The Glass Prison è il primo dei 5 capitoli (il migliore di tutti) dedicato al creatore degli alcolisti anonimi di cui Mike Portnoy ha fatto parte per passati problemi di alcolismo. Il ritmo decolla subito con un riff potentissimo di Petrucci accompagnato da un Portnoy scatenato, il tutto terminerà prima con uno scambio di assoli tra Rudess e Petrucci in cui anche John Myungimprime un suono potente e profondo e poi con una fine che lascia intravedere un seguito (This Dying Soul). Segue la seconda canzone: Blind Faith che va da un progredire come se stesse calmando gli animi accelerati precedentemente da The Glass Prison per poi tornare ad una parte centrale dove, come caratteristica del gruppo americano tutti danno sfogo alla loro tecnica e in questo caso soprattutto Jordan Rudess, eletto come miglior tastierista Prog di tutti i tempi dietro a Keith Emerson (suo grande idolo), dove prima si diletta con il pianoforte per poi arrivare al suono tipico dell’Hammond di Jon Lord e richiamare i precedessori del Prog come se fosse una scaletta che poi li porta a tornare alle tipiche sonorità del gruppo. La seguenteMisunderstood è decisamente più psichedelica, qui le tastiere e la chitarra si scambiano suoni particolari che rimandano un po’ alle tecniche utilizzate dai Radiohead in album come Kid A o Amnesiac. Ciò che viene dopo è un incredibile Portnoy che inizia con una delle introduzioni più spettacolari mai sentite e dà inizio a una canzone meno Prog più Heavy. The Great Debate è stata una delle canzoni più ingiustamente trascurate dai Dream Theater nei live, infatti attualmente sui vari motori di ricerca non esistono video ufficiali che la band ha registrato per questa canzone, cosa che per The Glass Prison, Blind Faith e altre invece c’è. Disappear è l’ultimo brano del primo disco, un brano leggero quasi a lasciar intendere una conclusione a lieto fine, quasi a far capire che manca il pezzo culminante, quello che rende l’album un capolavoro del Progressive Metal. Il secondo disco è una suite di 42 minuti dal nome omonimo dell’album divisa in otto capitoli riproposta per intero in modo commovente con l’Octavarium Orchestra in occasione del dvd/cd Score (2006) registrato in onore dei 20 anni di attività della band. Il primo capitolo è l'Overture e come quasi sempre capita è uno dei punti se non il frangente culminante di tutta una suite. Nell’edizione live i DT preferiscono giustamente lasciare spazio alla sola orchestra mentre in studio è la stessa orchestra che segue Portnoy che chiude il primo capitolo lasciando spazio alla dolce introduzione di Rudess con pianoforte per About To Crash che sfocia in animi molto più accessi con War Inside My Head che a sua volta introduce The Test That Stumped Them All, tutte e due caratterizzate da un ottimo scambio di voci tra Portnoy e LaBrie. Come da rituale dopo una parte più Heavy i toni si fanno più pacati grazie soprattutto a Goodnight Kiss che ha all’interno uno dei più bei assoli composti da John Petrucci, accompagnato dall’orchestra, uno di quegli assoli alla The Spirit Carries On che richiama le caratteristiche Floydiane alla Comfortably Numb dove si lascia spazio alla melodia invece che alla tecnica individuale. Il brano che segue, Solitary Shell, è un brano che induce allegria e di cui i DT non hanno mai negato delle analogie con Solsbury Hill di Peter Gabriel, che perviene nella ripresa di About To Crash cosi come era stato fatto in Metropolis Pt.2 dove One Last Time riprendeva l’Overture iniziale. Manca il gran finale che come detto si chiama proprio Grand Finale o Losing Time come voi preferiate che alla fine non lascia altro che uno sgomento positivo nei confronti di chi ha ascoltato che non può far altro che applaudire i membri del gruppo e soprattutto la decisiva orchestra che poi verrà ripresa in altre canzoni di Octavarium (2005) come l’omonima suite e Sacrificed Sons.
Obiettivamente i DT possono anche essere disprezzati ma bisogna sempre pur ritenere che sono un grande gruppo non solo per la bravura dei componenti ma anche per l’abilità nel comporre. Che poi siano diventati sempre più cattivi e che abbiano prodotto un ultimo album non all’altezza del nome non ci sono dubbi ma storicamente probabilmente quei due dischi d’oro e quel singolo disco di platino potevano essere molti di più, non che ricevere premi sia cosi importante considerando chi oggi li vince. Da notare non solo quello che hanno fatto i DT ma anche quello che hanno composto tutti i componenti all’esterno; un eccellente Rudess sia solista che con Steven Wilson, un virtuosissimo John Petrucci nel suo lavoro Suspended Animation e un grandissimo Portnoy nei suoi vari progetti tra cui i Transatlantic senza scordare i Liquid Tension Experiment. Unica nota stonata è LaBrie forse il meno Prog all’interno del gruppo che tuttavia rappresenta una delle loro caratteristiche fondamentali ma che vedendo i suo lavori solisti (tanto per citarne uno Elments Of Persuation) non sembra all’altezza dal punto di vista della vena creativa anche avendo una voce che ha fatto la storia. Six Degrees Of Inner Turbulence è un album pieno di grinta in cui finalmente il gruppo riesce ad esprimersi senza dar conto alle restrizioni delle case discografiche, è l’album che incorona questo gruppo tra i grandi del Metal e Portnoy tra i più grandi batteristi di tutti i tempi.
Voto: 8
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