domenica 23 novembre 2014

Bryan Ferry - Avonmore (BMG Rights Management, 2014)

Ci sono alcuni gruppi o artisti che sono dei veri e propri fiumi in piena: appena hanno qualcosa di pronto lo pubblicano immediatamente, finché il ferro è caldo. Altri, invece, curano con particolare meticolosità tutti i loro lavori, rallentando il ritmo di pubblicazione, ma tenendo sempre il loro standard di lavoro non meno di un certo livello. Bryan Ferry, conosciuto sia per la sua carriera solista, sia per essere stato il frontman dei leggendari Roxy Music, fa parte della seconda categoria. Quando Ferry inizia una serie di session in studio, generalmente non lo fa per usarne tutto il materiale per un progetto specifico, così come, nel caso in cui lo facesse, non è detto che le cose non possano subire bruschi cambiamenti. Se da una parte, questo potrebbe rendere gli album meno spontanei, dall'altra tendono a risultare molto più ben costruiti e studiati. Il suo quindicesimo album, "Avonmore", edito questo 17 Novembre, non è un'eccezione: sebbene non ci sia stata nessuna parola ufficiale al riguardo, a giudicare dalla lista di musicisti, almeno parte del materiale è stato quantomeno iniziato durante le session del disco di inediti precedente, "Olympia", uscito nel 2010. E, a proposito del cast di questo album, ancora una volta abbiamo la crema della crema: oltre ad alcuni dei più grandi session-man in circolazione (tra i tanti: Marcus Miller, Chris Spedding, Guy Pratt, Andy Newmark, Fonzi Thornton), ci sono altri ospiti illustri (Johnny Marr degli Smiths, Mark Knopfler, FleaHanne Hukkelberg), recenti acquisti che vengono confermati (i giovani Oliver Thompson e Tara Ferry, figlio di Bryan) e nuovi gregari che finalmente hanno l'occasione di apparire in studio (la batterista Cherisse Osei, in tour con Bryan dal 2012). Insomma, gli unici che mancano all'appello sono i suoi compagni di avventura dei Roxy Music, che, invece, comparivano abbondantemente su "Olympia".

Arrivato a questo punto della carriera, Ferry non sta più cercando un nuovo sound, quindi, chi si aspetta un radicale cambiamento rispetto ad "Olympia", è destinato a rimanere deluso. Comunque sia, questo non significa che l'artista Inglese non sia in grado di offrire qualcosa di nuovo anche all'interno del suo genere o che non possa alzarne ulteriormente il grado di qualità. Mentre il precedente risultava, forse, un po' troppo come una collezione di buone canzoni montate senza una cornice ben precisa, "Avonmore" sembra avere una direzione più chiara e ragionata, con ogni brano che suona bene sia singolarmente, sia nel suo contesto. L'unico momento in cui il disco sembra perdere un po' di peso, come sequenza, è proprio alla fine, durante gli ultimi due brani, guarda caso, due cover: "Send in the Clowns" , composta da Stephen Sondheim per il musical "A Little Night Music" e resa celebre da Frank Sinatra e Judy Collins, e "Johnny and Mary" di Robert Palmer. Non è che la qualità di questi due arrangiamenti sia scarsa o altro, ma "Send in the Clowns" avrebbe beneficiato di un'altra posizione nell'album, e "Johnny and Mary" più che il brano finale suona un po' come una bonus track e, in effetti, è la stessa versione, solo leggermente modificata, che era apparsa sul disco "It's Album Time" del DJ Norvegese Todd Terje che si era avvalso della collaborazione di Ferry. Piazzata come finale, risulta come un leggero anticlimax slegato dal resto del disco, cosa sottolineata anche dalla produzione, completamente diversa. I brani originali sono molto meglio: il singolo "Loop De Li" e "One Night Stand" ci riportano direttamente ai tempi d'oro di "Bête Noire", qualitativamente e stilisticamente, con dei refrain che avrebbero potuto uscire solo dalla mente di Ferry. "Driving Me Wild" e "Midnight Train" sono due pezzi più in linea con il Bryan che abbiamo visto su "Olympia": moderni nell'arrangiamento, tipicamente un prodotto dei giorni nostri, eppure non abbastanza calati da correre il rischio di risultare datati tra qualche anno, mentre "A Special Kind of Guy" e "Lost" ci mostrano il crooner a cui molti fan erano abituati, ancora in perfetta forma. Menzione a parte meritano "Soldier of Fortune", composta insieme a Johnny Marr, un brano squisito, dove la melodia vocale si sposa ad un arrangiamento molto azzeccato, e la title-track, scritta a quattro mani col chitarrista Oliver Thompson, uno dei migliori brani usciti in un disco di Bryan Ferry degli ultimi tempi: energica, coinvolgente e allo stesso tempo non stucchevole o scontata.

Gridare al miracolo, ovviamente, sarebbe fuori luogo: "Avonmore" non è il migliore album di Bryan Ferry, e, se dovessero uscirne altri in futuro (impossibile non notare l'assonanza nel titolo tra questo album e "Avalon", l'ultimo dei Roxy Music), non possiamo sperare che, uno di questi, sarà il capolavoro dell'artista Inglese. Tuttavia, lo standard qualitativo è sempre molto alto, e, chi scrive, lo preferisce sicuramente a "Olympia", e non di poco. Bisogna anche aggiungere che Ferry, nonostante ormai abbia ben definito il suo terreno stilistico, è uno dei pochi artisti in grado di mettersi in discussione e di re-inventarsi: la sua voce non è più quella un po' belante dei primi Roxy Music, né il suadente crooner di "Boys and Girls". Eppure, questo nuovo materiale è stato studiato a pennello per la sua timbrica attuale, e il suo cantato suona adatto e fresco come nei dischi già citati. Quindi, sebbene "Avonmore" giochi su piste già battute, lo fa in maniera coerente e non scontata, e si tratta di un prodotto decisamente notevole, difficilmente in grado di scontentare anche i fan di vecchia data. Se dovesse, effettivamente trattarsi dell'album conclusivo della carriera di Ferry (e speriamo di no, visto che sembra avere ancora qualcosa da dire), sarebbe una maniera molto elegante e meritevole di chiudere il sipario. Comunque, a dirla tutta, Bryan Ferry non è un artista poi così prevedibile nemmeno al giorno d'oggi: basti pensare che il disco precedente, intitolato "The Jazz Age", consisteva in una rivisitazione di classici suoi e dei Roxy Music in versioni jazz anni '20, per cui, il pensiero che in futuro possa colpirci con qualcosa di completamente inaspettato non è da cancellare del tutto.





sabato 8 novembre 2014

Pink Floyd - The Endless River (Parlophone / Columbia, 2014)

È incredibile quanto sia difficile cominciare una recensione per un nuovo album dei Pink Floyd; tanto più che, fino a poco tempo fa, complice anche la morte del tastierista Richard Wright nel 2008, l'ipotesi di avere un nuovo lavoro in studio del leggendario gruppo Inglese era completamente impensabile. Prima di parlare del disco in sé, forse è meglio fare qualche considerazione. È innegabile che la richiesta per un nuovo album dei Pink Floyd fosse stata altissima e continuamente crescente dal momento in cui finì il tour del 1995, da cui venne tratto il live album "Pulse", eppure, nonostante tutto, l'annuncio dell'uscita di questo album ha causato tanti plausi quante polemiche. Ovviamente, in primis, quelli che amano definirsi i fan di nicchia si sono subito affrettati ad affermare che, senza Roger Waters, i Pink Floyd non possono esistere. Partendo dal presupposto che giudicare male un disco prima di averlo effettivamente ascoltato non ha senso, è importante ricordarsi che, per quanto la cosa possa essere fastidiosa a dirsi, nessun fan potrà mai stabilire chi siano e chi non siano i Pink Floyd; Waters stesso, dopo essere stato assillato da fan che gli chiedevano se sarebbe stato nel nuovo album ha dovuto specificare, tramite una nota ufficiale su Facebook che "Nick (Mason) e David (Gilmour) costituiscono il gruppo dei Pink Floyd; io non ne faccio più parte. Ho lasciato il gruppo nel 1985, 29 anni fa. Non c'ero nemmeno negli altri due album in studio "A Momentary Lapse of Reason" e "The Division Bell" e non ci sono su "The Endless River" ".  Secondo altri, invece, questo disco sarebbe una speculazione fatta sull'anima di Richard Wright pubblicando un album costituito da scarti e, anche qua, la cosa non è del tutto esatta. "The Endless River" è stato iniziato in contemporanea a "The Division Bell", tanto più che, inizialmente, doveva essere parte dell'album stesso ed è stato gradualmente completato nel corso degli anni, tra un progetto e l'altro, per essere stato finito solo ora. Peraltro, notando la natura del disco, è anche facile capire perché Waters sarebbe stato fuori posto: è pur vero che le acque (se mi perdonate l'orribile gioco di parole) tra lui e i rimanenti membri dei Pink Floyd si sono calmate ma, vista l'impossibilità di aggiungere nuovo materiale al disco, il bassista e compositore sarebbe stato relegato ad un ruolo di secondo livello, così in basso che, appunto, sarebbe stato meglio non avesse partecipato in toto. Un'altra polemica, come al solito, viene data dai detrattori delle cosiddette "reunion"; a parte il fatto che questa non è una reunion al 100%, visto che si tratta, per l'appunto, di un completamento di un progetto dell'epoca, anche se fosse, è abbastanza sciocco pensare che la musica sia per forza scarsa o resa male in questi contesti: basti solo pensare alle spettacolari reunion dei Cream, dei Police, degli UK, dei Van Der Graaf Generator e degli Area, tanto per fare un bel po' di esempi concreti (anche se, per amor di cronaca, è bene specificare che, a parte gli ultimi due casi, non è scaturito nuovo materiale da queste nuove fasi dei gruppi).

Comunque, dopo tutta questa filippica, forse è meglio cominciare a parlare anche della musica contenuta su questo "The Endless River". Il disco è quasi integralmente strumentale, salvo qualche campione parlato e la conclusiva "Louder Than Words", ed è diviso in quattro parti, come se si trattasse di un doppio vinile, evidentemente, dentro le quali, i pezzi sfociano l'uno nell'altro senza soluzione di continuità, come se si trattasse di quattro suite. In realtà, l'album suona meno pesante di come potrebbe apparire dalla descrizione, anche se la descrizione dell'album come "ambient" data da Gilmour e Mason è senza dubbio esagerata, sebbene il disco sia innegabilmente molto suggestivo e atmosferico. In sé, da questo punto di vista, non c'è nulla di eclatante: queste cose, i Pink Floyd, le avevano già fatte negli anni '60 con brani come "Careful With That Axe, Eugene", "A Saucerful of Secrets" e "Quicksilver", tanto per citarne qualcuno. La novità sta nel fatto che, stavolta, si parla di un album intero approcciato in questo modo. La prima cosa che sicuramente salta all'orecchio è che alcune sezioni sono variazioni di classici del gruppo ma, più che un riutilizzo dovuto ad una mancanza di idee, sicuramente si tratta del filo concettuale dell'album: il fiume senza fine, con l'acqua che scorre e ritorna. D'altra parte, nemmeno il titolo in sé è nuovo, visto che proviene da una strofa di "High Hopes", brano conclusivo di "The Division Bell" e, sicuramente, è più adatto del titolo che questo progetto aveva nelle sue fasi iniziali: "The Big Spliff" (ammesso e non concesso che si trattasse dello stesso identico materiale; si vocifera che, tra cose più complete e meno complete, queste session abbiano prodotto all'incirca ben 20 ore (!) di musica).

Il disco si apre con "Things Left Unsaid", che inizia con dei lunghi drone di tastiere e dei sample vocali tratti da alcune interviste al gruppo effettuate nel 1987, che lasciano spazio alla chitarra di Gilmour, a cui poi segue "It's What We Do", un brano che riparte da dove "Shine on You Crazy Diamond" aveva lasciato, risultando un miscuglio tra la terza e la nona parte. La sezione viene chiusa da "Ebb and Flow", una sorta di reprise di "Things Left Unsaid" ma, laddove quel brano risultava inquieto e in tensione, qui la stessa musica viene vista sotto un occhio diverso, più rilassato e pacifico.

La seconda "facciata" del disco è più variegata e complessa. "Sum", anche grazie all'uso del sequencer, ci riporta direttamente ai tempi di "The Wall", sembrando quasi una reprise strumentale della terza parte di "Another Brick in The Wall"; segue "Skins", basata su degli interessanti e creativi pattern ritmici di Nick Mason, sui quali Gilmour improvvisa un interessante e sperimentale assolo di chitarra. "Unsung" non è altro che un breve minuto di transizione, dominato da un sequencer VCS3, a cui segue "Anisina", chiaramente basata sul classico "Us and Them": la parte di basso è praticamente la stessa, e compare il sassofono, suonato da Gilad Atzmon, anche se il pezzo prende innegabilmente vita propria con il malinconico assolo di chitarra finale. Questo pezzo è uno di quelli chiaramente composti dopo il 1994: Wright è assente, ma il piano, suonato da Gilmour, e la composizione chiaramente vogliono rendere un tributo al loro "compagno caduto" che, sebbene stesse un po' in disparte, era un membro essenziale al sound del gruppo e, come se non bastasse, il titolo è una parola Turca che ha il significato di "in memoria di...". Se l'album fosse stato concluso da questo brano, nessuno avrebbe avuto nulla da obbiettare sulla sua efficacia come finale.

La terza sezione del disco, probabilmente, è la migliore di tutte e quattro; forse perché è l'unica che suona come se fosse una vera e propria suite, piuttosto che una serie di brani strumentali che si susseguono pur non essendo correlati tra di loro. "The Lost Art of Conversation"  è un bel modo di aprire questa parte dell'album, con dei meravigliosi interventi melodici di Gilmour e Wright su un tappeto di sintetizzatore; "On Noodle Street" è notevole soprattutto per il pulitissimo e precisissimo basso di Guy Pratt che sembra essere il vero protagonista del pezzo, cosa scandita anche dagli interventi solisti di Gilmour, tenuti volutamente bassi nel mix, mentre "Night Light" dà un senso di continuità all'album, essendo una sorta di reprise di "Things Left Unsaid". "Allons-y" è un brano spezzato in due parti che tronca bruscamente l'atmosfera che si era creata fino ad ora, con un bel rock pompato ed energico, che chiaramente si rifà a "Run Like Hell". Il titolo di "Autumn '68" non è solo evocativo, ma è anche reale: si tratta di un frammento di un'improvvisazione di Richard Wright registrato alla Royal Albert Hall durante un soundcheck prima di un concerto, durante il quale, il tastierista aveva improvvisato sul famoso organo a canne della sala, a cui sono state aggiunte sovraincisioni in modo da poterlo rendere omogeneo al resto del disco; questo è un altro brano aggiunto chiaramente nelle fasi finali del disco: le sovraincisioni non fanno altro che risaltare il playing su organo e le parti di tastiere che si sentono in più non sono state suonate da Wright, ma da Damon Iddins. La seconda parte di "Allons-y" riemerge bruscamente ancora una volta, causando un nuovo sussulto nell'atmosfera, per poi lasciare spazio alla maestosa, ma poco fantasiosamente intitolata, "Talkin' Hawkin'" uno strumentale intenso e meditativo allo stesso tempo, sul quale sentiamo ancora una volta gli stessi sample vocali della voce elettronica del fisico Stephen Hawking che avevamo già sentito in "Keep Talking" su "The Division Bell".

La quarta e ultima parte del disco è aperta da "Calling" e, come le altre parti introduttive è essenzialmente un tappeto di tastiere con altre sovraincisioni, anche se, questa volta il risultato è molto più meccanico e distorto; l'atmosfera tesa continua con "Eyes to Pearls", basata su un giro di chitarra ossessivo, supportato da altrettanto ossessive percussioni di Mason. La successiva "Surfacing", invece, per contrasto, risulta molto pacifica, con una chitarra acustica prominente e dei bei cori. Le campane che abbiamo sentito all'inizio di "High Hopes", forse un po' prevedibilmente, risuonano anche in lontananza nella transizione tra questo pezzo e "Louder Than Words", l'unico cantato del disco. La calda voce di Gilmour sembra riportarci alla realtà e a condurci gentilmente fuori dallo stato etereo in cui eravamo immersi fino a poco prima. Sebbene il pezzo non sia assolutamente un finale di discografia migliore di quanto lo fosse stato "High Hopes", soprattutto per colpa di un ritornello non proprio eccezionale e per un assolo di chitarra molto generico, il brano risulta comunque emotivamente molto forte, anche grazie al testo di Polly Samson, compagna di Gimour e autrice di altri testi su "The Division Bell". Dopo un falso finale ed una coda nella quale una chitarra imita il suono di un sequencer, siamo arrivati veramente alla fine: della discografia e dei Pink Floyd

Complessivamente, "The Endless River" è un buon prodotto, nel quale non si avverte nemmeno la carenza di ispirazione che si sentiva durante alcune parti degli altri album del gruppo di questa formazione. La costruzione delle quattro suite è molto intelligente e le variazioni sui classici del gruppo sono fatti con gusto, quindi, se non altro, chi temeva che questo album fosse una raschiatura del barile, può tirare un sospiro di sollievo. La produzione (affidata a Gilmour e ad altri illustri nomi come Phil Manzanera dei Roxy Music, Martin Glover dei Killing Joke e Andy Jackson) è ottima: nitida, cristallina ma allo stesso tempo molto calorosa perfettamente funzionale alla musica. Ovviamente non è un disco perfetto: completare un album dopo così tanto tempo è sempre un rischio, soprattutto se, tra l'inizio e la fine, uno dei membri chiave del gruppo viene a mancare. Anche per questo motivo, in alcune sezioni, specialmente la prima, il disco suona come se fosse incompiuto o se mancasse qualcosa. Impossibile, comunque, non porsi la domanda che ci si chiede solitamente davanti a progetti del genere: era davvero necessario questo album? Possiamo fare tutte le congetture del mondo, ma la risposta ce la possono dare solo Gilmour e Mason: se nel momento in cui avevano deciso di riprendere in mano "The Big Spliff"  lo hanno fatto pensando a questo lavoro come la chiusura di un cerchio a cui mancava qualcosa, la risposta allora è "sì". Dal canto nostro, tutto ciò che possiamo dirvi è che questo disco è un buon "post-scriptum" alla discografia dei Pink Floyd, ed è un modo dignitoso e intelligente per consapevolmente porre fine a quello che è stato uno dei gruppi più importanti della storia del rock.



mercoledì 9 luglio 2014

Magma - AKT VIII: Concert 1971 - Bruxelles - Théâtre 140 (Seventh Records, 1996)

I Magma sono sicuramente una delle formazioni più geniali ed inconsuete della musica del secolo scorso, uno di quei gruppi che possono essere presi come esempio concreto da coloro che reputano la musica popolare non meno interessante e originale di quella classica. Formatisi nel 1969 dalla geniale mente del portentoso batterista Francese Christian Vander, sicuramente uno dei migliori in Europa, i Magma sono un progetto tanto musicale quanto concettuale. Il loro stile inizialmente si ispirava inconfutabilmente alle influenze più jazz di Vander che come idoli aveva John Coltrane (in primis), Miles Davis e Tony Williams, per poi, in futuro spostarsi anche verso alcune sonorità tipiche della musica vocale del XIX-XX secolo, cercando di mescolare questi due ingredienti solo apparentemente inconciliabili. Se tutto questo non bastasse a renderli un gruppo unico, la maggioranza delle loro composizioni non è cantata in Francese o Inglese, bensì in Kobaiano, una lingua inventata dallo stesso Vander, ispiratosi ad alcuni degli antichi linguaggi Germanici. Teoricamente, l'intera discografia dei Magma ha come tema il destino e la storia del lontano pianeta Kobaia, nel momento in cui entra a contatto con la terra, in un clima misto tra guerra e pace, come con tutte le diversità sociali comuni.

Nel 1992 viene inaugurata la serie "AKT", che si ripropone di pubblicare alcune registrazioni di archivio, dei Magma e di altri progetti relazionati a Vander che, per motivi storici o musicali, sono considerati episodi essenziali della carriera del batterista Francese. Questo doppio CD registrato a Bruxelles il 12 Novembre 1971 è l'ottavo volume della serie e rappresenta la più vecchia registrazione integrale di un concerto dei Magma rinvenuta fino ad allora. A questo punto, il gruppo stava portando in tour il suo secondo album, "1001° Centigrades": in questo splendido disco, che qui viene eseguito integralmente, la matrice jazz si sentiva ancora di più rispetto al primo omonimo doppio album (a volte stampato anche col nome di "Kobaia"), complice anche il cambio di formazione, con il chitarrista Claude Engel che abbandonò la nave senza essere sostituito. La versione dei Magma presente a questo concerto, oltre a Christian Vander alla batteria e alla voce, consisteva in: Klaus Blasquiz alla voce solista e alle percussioni, François "Faton" Cahen al piano e al fender rhodes, Francis Moze al basso, Teddy Lasry al clarinetto, al sassofono e al flauto, Louis Toesca alla tromba e Jeff Seffer al sassofono e al clarino basso. La qualità audio del doppio CD non è perfetta, ma più che di una cattiva registrazione, si parla di un mixaggio non esattamente ideale: sicuramente, la registrazione non è stata effettuata in multitraccia e quello che sentiamo è un monitor mix, ovvero quello che i musicisti sentivano sul palco. La musica contenuta, comunque, è semplicemente splendida. Così com'è stata impostata, la scaletta del concerto potrebbe essere divisa facilmente in tre parti: passato, presente e futuro.

Il concerto si apre con "Stoah", il pezzo più ostico del primo album, già ostico per sé, introdotto da alcune inquietanti urla disumane di Vander, prima di trasformarsi in una diabolica marcia che, anche se più convenzionale rispetto alla sua introduzione, non risulta meno terrorizzante. Invece di passare al finale, la sezione centrale di "Stoah" segue senza soluzione di continuità e con grande musicalità in "Kobaia", il brano più orecchiabile del primo album, nonché l'unico cantato in Inglese, anche se questo verrà rettificato qualche anno dopo sul disco dal vivo"Live/Hhaï" dove anche questo pezzo verrà riarrangiato e trasformato in Kobaiano, con il titolo di "Kobah". Nonostante il dissonante assolo di sassofono, questo brano è perfetto per spezzare la tensione pur senza allentare di troppo la guardia, con la sua prima parte rockeggiante e la seconda più vicina al progressive rock di alcuni colleghi come i Soft Machine, con un drumming ed una sezione fiati da brividi. L'arrangiamento, sorprendentemente, non si discosta poi così tanto dall'originale, sebbene là, specialmente nella prima parte, la chitarra avesse un ruolo fondamentale. "Aïna" è il terzo ed ultimo brano estratto dal primo album e, rispetto alla sua controparte in studio, sostituisce le parti di piano originali con una nuova parte al Rhodes, probabilmente per compensare l'assenza di un chitarrista; questo cambia soprattutto il feeling dell'introduzione che più che jazzata, ora suona decisamente sognante ed eterea; il resto del pezzo, che, a parere di chi scrive è uno dei migliori della prima fase del gruppo, è solo più veloce ed energico, ma rimane abbastanza fedele all'originale. Dopo questa ricapitolazione dal primo album, viene eseguito per intero il disco "1001° Centigrades", album che potrebbe essere considerato come quello più democratico del gruppo, visto che Vander firma solo una delle tre lunghe composizioni ivi contenute; si tratta di "Rïah Sahïltaahk", che originariamente occupava tutta la prima facciata dell'album. Tuttavia, non deve stupire che questo sia l'unico dei tre brani a puntare verso la direzione futura del gruppo, verso il tanto osannato "Mekanïk Destrüktiw Kommandöh" che uscirà nel 1973. Come il materiale di quell'album, "Rïah Sahïltaahk" è costituita principalmente da cori e da canti che sembrano ispirati dalle opere di Orff e Wagner, ma, a differenza di quel disco, la vena melodica legata al rock progressivo dell'epoca è ancora molto palpabile, collocandosi quindi come un ponte tra il primo periodo e il secondo classico. La versione in studio del pezzo presentava diverse sovraincisioni vocali che, a questo punto della carriera del gruppo, con solo Blasquiz a occuparsi delle parti vocali principali, erano impossibili da riprodurre dal vivo e, infatti, in questa versione vengono ignorate. Alcune di queste sezioni vengono del tutto saltate, lasciando una sorta di spazio vuoto perfettamente percepibile da chi conosce la composizione, altre vengono rimpiazzate dalla sezione fiati; il brano viene anche leggermente accorciato, lasciando fuori una sezione presente verso l'inizio e saltando il finale della versione in studio. Il risultato è sicuramente apprezzabile ed è impressionante quanto si sia fatto per poter rappresentare dal vivo un brano così difficile. Una curiosità: qualcuno della casa discografica, all'epoca, ebbe la balzana idea di considerare i primi tre minuti di questa composizione come un buon pezzo rock con potenziale commerciale, nonostante l'ostico linguaggio Kobaiano; vennero così estratti i primi minuti e pubblicati su 45 giri (!) col titolo di "Tendeï Kobah". Come immaginabile: le vendite furono pari a 0 e il singolo oggi è diventato una rarità per collezionisti. Qui termina il primo dei due CD.

Il secondo disco prosegue col resto del concerto e con il resto della rappresentazione dal vivo di "1001° Centigrades", con ""Iss" Lanseï Doïa", composta dal fiatista Lasry. Il brano presenta qualche differenza di arrangiamento con la sua parte in studio, nello specifico l'introduzione di basso viene eseguita dal piano, l'assolo di tromba si trova in una sezione differente, nell'ultima sezione del brano il drumming di Vander è un po' troppo sopra le righe rispetto agli splendidi fraseggi all'unisono che eseguiva in studio e l'inquietante finale originale, dove venivano eseguiti alcuni lamenti sopra qualche nota di piano minimalista e il ticchettio di un orologio, viene del tutto ignorato. Infine, per completare l'album, vi è "Ki Ïahl Ö Lïahk", composta da "Faton" Cahen, sicuramente il brano più tradizionale dei tre ed eseguito praticamente alla lettera, a parte la sostituzione del sassofono al clarinetto nella prima parte del brano e alla presenza di un conclusivo (ed eccellente) assolo di batteria di Christian Vander, assente dalla versione in studio. Dopo aver attraversato il passato con i tre brani dell'album precedente, dopo aver dato una lunga occhiata al presente con il nuovo disco in versione integrale, i Magma concludono il concerto con una mezz'ora di materiale nuovo che, con varie modifiche, sarà incluso negli album futuri. "Sowiloï (Soï Soï)" vedrà la luce su disco solo nel 1977 all'interno dell'album dal vivo "Inédits", ma verrà eseguita regolarmente durante la carriera; qui manca ancora della sua caratteristica introduzione, ma in aggiunta, abbiamo uno splendido assolo di flauto di Lasry. Come ultimo brano, a sorpresa, viene eseguito per la prima volta in assoluto un embrione di "Mekanïk Kommandöh" che due anni dopo, sarà la sezione centrale e portante di (ovviamente) "Mekanïk Destrüktiw Kommandöh". In questo stato, il brano non ha ancora assunto i toni apocalittici che ci saranno in futuro, anche se il caratteristico coro che lo domina è già presente, e si tratta più che altro di un altro omaggio di Vander al jazz classico: questo particolare arrangiamento si apre addirittura con una bossa nova, prima di diventare gradualmente la tesa marcia trionfale conosciuta da tutti i fan, anche se il finale a questo punto, non era stato ancora scritto. I Magma tenteranno di registrare una versione di questo arrangiamento ridotta a 5 minuti per farlo uscire come 45 giri, ma, non sorprendentemente, le vendite saranno le stesse di "Tendeï Kobah" (questa prima versione in studio è stata ristampata in digitale nel 1998 all'interno del CD "Simples").

Con i suoi 85 minuti, questo concerto a Bruxelles si rivela molto interessante, sia dal punto di vista filologico, che da quello musicale. Le selezioni dal primo album sono eseguite con un calore ed una sapienza tali da essere quasi superiori alle loro controparti in studio, l'esecuzione integrale di "1001° Centigrades" si rivela un'ottima alternativa alla sua versione studio e le versioni primordiali dei due classici sono abbastanza diverse da poter avvicinarcisi di nuovo con un buon approccio; se c'è un minimo difetto da fare all'esecuzione del concerto è il troppo entusiasmo in alcune sezioni (""Iss" Lanseï Doïa" su tutte) che porta ad alcune sbavature. Generalmente, l'impressione che si ha ascoltando l'album, è di un gruppo giovane ed entusiasta che crede in quello che sta facendo: per sottolineare la cosa, all'epoca il pianista John Hicks aveva proposto a Vander di raggiungerlo negli Stati Uniti per suonare con lui, ma, il batterista Francese optò rischiosamente per la continuazione del progetto Magma, che non voleva assolutamente abbandonare. Il doppio CD in sé, come la stragrande maggioranza delle release d'archivio, non è qualcosa per il fan casuale, ma, in questo caso, non è nemmeno solo ad uso e consumo dei fan più accaniti che vogliono avere qualsiasi cosa uscita a nome del gruppo. Come già accennato, il sonoro, più che essere scarso per via della registrazione, è disturbato da un mixaggio non ideale anche se, man mano che si procede nell'ascolto, il bilanciamento dei volumi viene sistemato e, ora che si arriva al termine del CD, diventa un po' più accettabile, cosa che confermerebbe la nostra teoria che si tratti di un monitor mix. Inoltre, strano ma vero, non è presente nessun taglio udibile nella registrazione: probabilmente, il cambio lato della cassetta originale era ubicato tra un brano e l'altro, così, fortunatamente, non è andato perso alcun momento musicale; in alternativa il gruppo stava registrando con due nastri contemporaneamente in modo da non perdere niente al cambio di lato anche se si tratta di un'ipotesi difficile visto il sonoro non proprio professionale. Comunque, oltre all'indiscusso valore storico, ciò che rende questo CD così interessante anche per i collezionisti più arditi è la presenza di alcuni brani che sarebbero presto stati cancellati dalle scalette del gruppo: questa è l'unica registrazione dell'epoca a contenere "Rïah Sahïltaahk" che, sicuramente a causa della sua complessità e della difficoltà a riprodurla come in studio, di lì a poco sarebbe stata cancellata dalle scalette per non riapparire fino al 2010. Anche "Aïna" è un brano praticamente introvabile nelle registrazioni dal vivo e, da lì a poco, dei brani del primo album sarebbe rimasta solo "Stoah", con "Kobaia" usata solo occasionalmente come tappabuchi, prima di essere completamente riarrangiata e venire reintitolata "Kobah", come già citato. A coloro che sono interessati al gruppo avendo già avuto occasione di assaggiarlo e che possono sopportare una qualità audio non perfetta (ma comunque ascoltabile, comprensibile e meglio di molte altre pubblicazioni di archivio), l'acquisto di questo volume della serie "AKT" è fortemente consigliato.

I Magma sono in attività ancora ad oggi,anche se l'unico membro a rimanere di questa formazione è il solo Vander, sebbene Klaus Blasquiz sia stato uno dei pilastri dell'era classica del gruppo, e continuano a sfornare dischi secondo il loro stile classico, continuando a stupire e a risultare sempre molto enigmatici al primo ascolto, anche se, come quasi tutti i gruppi dell'epoca, hanno subito uno scivolone negli anni '80, durato fortunatamente un solo album: il mediocre "Merci". L'ultimo disco in studio è "Félicité Thösz" del 2012, ma il gruppo sta già portando avanti dal vivo alcune nuove composizioni che usciranno presto (si spera) in un nuovo album. Nel frattempo, le pubblicazioni "AKT" continuano ad uscire e, al momento della pubblicazione di questo articolo, sono arrivati alla #16; l'ultima di queste riguardante i Magma è uscita nel 2009 e si tratta di un doppio CD contenete una registrazione integrale di un concerto a Bourges del 1979.


venerdì 27 giugno 2014

Hot Poop - Numero 3 - The Twisters with Alice Violato

I Twisters, talentuosa formazione del Sud del Veneto, hanno avuto il loro debutto discografico nel 2007, con l'album "Blowin' The Blues Everywhere" e, nel 2010, comincia il loro sodalizio con la cantante Alice Violato, con la quale incidono"No Ordinary Blues". Questo "MusicOdyssey" di cui parliamo ora è il loro terzo lavoro e, attualmente, il gruppo è composto, oltre che da Alice, da Paolo Bacco alla chitarra, Claudio Lupo alle tastiere, Nick Muneratti al basso, Matteo Coassin alla batteria.

Sicuramente il migliore della discografia, "MusicOdyssey" ha la caratteristica di essere un disco particolarmente eterogeneo ma allo stesso tempo coerente e non una semplice accozzaglia di vari stili musicali non relazionati tra di loro. "No ordinary blues" potrebbe, a questo punto, essere la descrizione perfetta della direzione artistica che The Twisters with Alice Violato hanno deciso di percorrere. In effetti, ciò che rende compatto il disco è comunque la matrice blues presente in tutti i brani anche se ogni composizione ha comunque una sua forte personalità. I 10 brani qui proposti sono accreditati a Bacco e/o a Violato, ma, ascoltando l'album, è impossibile non notare quanta minuzia è stata posta nell'arrangiamento di ogni singolo pezzo, sicuramente un lavoro di gruppo al 100%. Come esempio, possiamo prendere "I Want it Funky" che, nelle mani sbagliate, sarebbe potuta diventare un brano irritante e banale; il gruppo, invece, sceglie di arricchire il pezzo con una scelta di strumentazione ben studiata e azzeccata (il clavinet, lo slap sul basso, la chitarra col wah-wah, una batteria potente e precisa e una voce potentissima) e con un'esecuzione così carica ed energica che finisce per essere una delle cose migliori del CD.

"Down That Road" è un altro brano eccellente: di relativa breve durata, ma con diverse sezioni musicali apparentemente incompatibili tra di loro ma che, invece, si fondono in un amalgama perfetto e la quasi title-track "Ulysses and the Siren"  è un pezzo originalissimo impreziosito dalla splendida tromba di Giuseppe Puliano. "Sand", "The Streets of Heaven" e "Dream of Me" ci ricordano che il gruppo è comunque pur sempre principalmente blues, ma sono tre visioni diverse dello stesso genere; la prima più movimentata e possibile veicolo di jam, mentre le altre due più vicine ad una matrice soul/gospel. Molto toccante "Hi Dad", autoesplicativa dedica di Paolo Bacco al padre, e musicalmente vicina ad alcune delle ultime cose scritte da Hendrix al termine della sua vita, mentre le divertenti "Ride On Ride On" e "Manhole's Mud" (il cui testo tragicomico è ispirato ad un fatto realmente accaduto), ci ricordano di quanto ripaghi comporre e suonare divertendosi e senza prendersi troppo sul serio. L'album, ovviamente, non è esente da difetti: "Say What You Want From Me" e "Dream of Me" sono due episodi che, dopo qualche ascolto, tendono a diventare un po' troppo stucchevoli e forse, l'introduzione di "Ulysses and The Siren" tende a tirare un po' troppo per le lunghe, ma si tratta di cose minime che possono essere tollerate, più che di vere e proprie macchie.

Per quanto riguarda la perizia tecnica dei singoli membri, il gruppo eccelle specialmente, riuscendo a dare una personalità ed uno spazio proprio a ciascuno dei musicisti pur rendendoli indubbiamente parte di un unico insieme. La voce di Alice Violato è molto caratteristica e potente, ma allo stesso tempo femminile e sensuale, una voce che non stonerebbe paragonata ad alcune cantanti soul degli anni '60, Paolo Bacco è un ottimo chitarrista in grado di fare assolo estremamente musicali e non semplici saggi di virtuosismo (le sue migliori prove si possono ascoltare su "Manhole's Mud" e "Sand"), le tastiere di Claudio Lupo sono tra i punti di forza più alti di molti dei brani e senza il suo apporto, brani come "Hi Dad" risulterebbero senza dubbio più scarni, Nick Muneratti fa un uso molto particolare del basso, rendendo ben chiara la sua funzione di collante ritmico, ma, allo stesso tempo, senza dimenticarsi comunque delle possibilità melodiche che gli vengono offerte dai brani e rivendicando la grande e sottovalutata versatilità del suo strumento e fa una grande coppia con Matteo Coassin, batterista eccellente, solido ed estremamente preparato che sostiene in maniera presente, ma non intrusiva, le varie composizioni con un drumming mai banale e scontato.

Il prodotto in sé è ben confezionato, con una grafica professionale e un libretto molto esauriente contenente anche tutti i testi. Un disco consigliato a coloro che amano la musica complessa e ben costruita, senza che sia ampollosa e auto-indulgente e, soprattutto, un disco che mette a tacere coloro convinti che nel 2014 non esista più musica in grado di dire qualcosa di nuovo. Nuove proposte in grado di offrire musica di alto livello e di grande originalità esistono ancora, sono solo diventate più difficili da trovare rispetto al passato perché oggi, quando si produce un artista, si tende a rischiare di meno, ma questo è un discorso più complesso e che affronteremo un'altra volta. Per quanto riguarda "MusicOdyssey" di The Twisters with Alice Violato: procuratevelo e sicuramente non avrete nessun rimpianto.


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domenica 1 giugno 2014

Caparezza - Museica (Universal Music, 2014)

Michele Salvemini, alias Caparezza, è presente da circa il 1998 sulla scena Italiana portando quella sana dose di umorismo, intelligenza e cultura di cui tanto abbiamo bisogno. Caparezza, nel suo panorama musicale, è senza dubbio un artista un po' atipico. E' uno dei pochi che presta attenzione ai contenuti musicali, oltre che quelli lirici, ed è praticamente l'unico che non si prende troppo sul serio, rendendo la sua musica una delle poche e vere e proprie ventate di aria fresca nel panorama musicale Italiano attuale. "Museica" è il suo sesto album in studio, uscito tre anni dopo "Il Sogno Eretico", intelligentissimo concept album basato sull'imposizione della credenza comune rispetto alla realtà e i suoi relativi danni.

Questo "Museica", come al solito, si occupa di pesanti (e, in molti casi, giustissime) critiche alla società. Il filo conduttore dell'album è la storia dell'arte (comprendendo anche la musica) e, dal punto di vista concettuale, l'album regge al 100%.  Anzi, a dire il vero, da un punto di vista obbiettivo, il nuovo album di Caparezza, non può certo essere considerato brutto di per sé (a parte un paio di episodi molto poco ispirati, per usare un eufemismo; nello specifico "Comunque Dada" e "Giotto Beat"). Il problema principale è che, questo disco, purtroppo, sembra seguire uno schema ormai prefissato: la canzone d'entrata (letteralmente) che ha il compito di far entrare l'ascoltatore nello scenario del disco, vari testi umoristici con ampio uso di metafore ("Capa io canto le mie canzoni fiero! Si, mi ricordano un'opera di Manzoni, credo, e non parlo di Alessandro, ma Manzoni Piero", "Vivo solo a metà come quel disco di Brian Wilson, la sua grandezza: l'incompiutezza, non avrebbero dovuto pubblicarlo mai. Non avrebbero dovuto pubblicare Smile"), qualche intermezzo umoristico per poter introdurre meglio i brani (all'inizio di "Compro Horror", ad esempio) e la solita, inconfondibile, voce nasale che ci ha accompagnato fino ad ora. Sia chiaro: chi scrive non si aspettava certo che Caparezza facesse una svolta di 180°, ma, perlomeno, che il disco avesse qualche elemento che lo contraddistinguesse, cosa che, purtroppo, non avviene. Un altro difetto del disco è probabilmente la sequenza dei brani, troppo sbilanciata: gli episodi meno interessanti stanno prevalentemente all'inizio del disco (tra questi va incluso il singolo "Non me lo posso permettere", brano trascinante, ma che non sarà ricordato come uno dei migliori singoli di Caparezza), dando l'impressione di un disco un po' comatoso, mentre le cose migliori e più trascinanti sono verso la fine, tanto per lasciare un sapore migliore in bocca. Un ordine diverso, probabilmente, avrebbe giovato molto di più. Ci sono, comunque, degli episodi notevoli che valgono certamente l'acquisto del disco: "China Town", l'unico pezzo veramente atipico dell'album, la carica "Mica Van Gogh", "Troppo Politico", il cui messaggio è uno dei più azzeccati e condivisibili dell'intera carriera di Salvemini, "Kitaro", la personalissima versione di Caparezza della sigla dell'anime "Kitaro dei cimiteri",  e soprattutto l'esaltante "Argenti Vive", violentissimo brano che, sicuramente, darà i suoi frutti migliori dal vivo.

A conti fatti è un disco che vale certamente la pena ascoltare, pur senza troppe aspettative, perlomeno da un punto di vista relativo. Il prodotto, infatti, offre ben poco di nuovo; qualche episodio pregevole, ma niente che devii troppo dalla carriera del rapper di Molfetta. Sicuramente è un album che potrà piacere molto a chi si avvicina per la prima volta al personaggio e ha compatibilità con lui: gli ingredienti, come già menzionato, ci sono tutti. Certo è che a noi che l'abbiamo scoperto con i suoi lavori precedenti ("Verità Supposte" nel caso di chi scrive), è andata molto meglio!



lunedì 21 aprile 2014

Ian Anderson - Homo Erraticus (Calliandra Records-Kscope, 2014)


Il 14 Aprile 2014 è uscito il settimo disco solista (il sesto in studio) di Ian Anderson, celebre frontman dei Jethro Tull, di cui tanto si parla in questo blog, intitolato "Homo Erraticus". L'album è uscito in diverse edizioni: quella regolare con solo il CD singolo, la versione "Deluxe" contenente un secondo CD con una versione demo dell'album e interviste ai membri del gruppo più due DVD con mixaggi sorround e documentari sul disco, un'edizione limitata CD + DVD (contenente un riassunto dei due DVD dell'edizione "Deluxe") e, addirittura, una versione uscita in doppio LP. 
Il disco è uscito solo due anni dopo rispetto a "Thick as a Brick 2", un lasso di tempo relativamente breve rispetto agli ultimi standard. La formazione è la stessa del disco precedente: Anderson al flauto, alla chitarra acustica e alla voce solista, Ryan O'Donnell alla seconda voce, Florian Ophale alla chitarra elettrica, David Goodier al basso, John O'Hara alle tastiere e Scott Hammond alla batteria. Questo "Homo Erraticus", tematicamente, è collegato al disco precedente, anche se non si tratta di un suo seguito (per fortuna: realizzare "Thick as a Brick 3" sarebbe stato un rischio eccessivamente grosso, poco credibile e il gioco non sarebbe valso la candela). L'elemento che collega questo disco al precedente è unicamente la presenza di Gerald Bostock (fittizio enfant prodige, ormai cresciuto) che, in questo momento, si imbatte in un manoscritto ad opera di uno scrittore locale (Ernest T. Parritt) intitolato "Homo Britanicus Erraticus", dove si narra la storia della civiltà britannica. Sulla base di questo, un po' come Manzoni costruì "I Promessi Sposi", Anderson/Bostock costruisce tre sezioni, che dividono l'album in tre parti: "Chronicles", "Phropecies" e "Revelations".

Allo stesso modo, questa volta, ci avvaliamo di non uno, ma di ben tre punti di vista, grazie all'aiuto di due amici, colleghi e amanti della buona musica.



Jacopo Muneratti - Good Times Bad Times / Mat2020

Come già detto nell'introduzione, stavolta il tempo di uscita del disco è stato abbastanza breve e, la sua preparazione, molto più rilassata. Con il precedente "Thick as a Brick 2" Anderson si era preso una responsabilità piuttosto alta. Il rischio che si corre facendo un sequel di un'opera maestra è enorme, e lo è ancora di più 40 anni dopo l'uscita del lavoro originale. Il risultato, comunque, aveva dato i suoi frutti: non si trattava di un capolavoro, ma di un disco fatto con molta cura, e supportato da un eccellente tour nel quale teatralità e qualità musicale si amalgamavano ricordando, a tratti, l'epopea dei decenni passati. Il disco, ad ulteriore testimonianza di quanto fosse un prodotto potenzialmente pericoloso, era accreditato a Jethro Tull's Ian Anderson, per avere una rete di sicurezza.

Questa volta, con "Homo Erraticus", il rischio è chiaramente minore, e, infatti, è accreditato semplicemente a Anderson. Purtroppo, minore il rischio, minore il prodotto finale. Sia chiaro, il disco in sé non è assolutamente disprezzabile: ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un lavoro eseguito e prodotto estremamente bene. La voce di Anderson, in sordina da anni, suona abbastanza bene: non come prima della sua infezione alla gola (avvenuta nel 1985), ma calda, poetica e, soprattutto, perfettamente adatta al tipo di musica proposta. Il problema, è che, di fatto, questo "Homo Erraticus" non si discosta in quasi per niente dal disco precedente e il sottile filo che collega i due album non è un pretesto abbastanza grande per giustificare questa cosa. Forse, pretendere che un artista del calibro di Anderson, che ha 46 anni di carriera, e un totale di 29 dischi in studio tra solisti e con i Jethro Tull, rimanga tutt'ora un campione di diversità è un po' utopistico, ma il disco, obbiettivamente, va preso per quello che è. Inoltre, l'album (e qua, forse, tiriamo un sospiro di sollievo), non è per niente un album folk-prog-metal come era stato annunciato da Anderson nelle varie press-release, ma è perfettamente consono allo stile a cui si è avvicinato Anderson negli ultimi anni, con qualche riecheggio al passato. In ogni caso, anche se si trattasse di una mera copia, una copia di un disco molto buono risulterebbe comunque un prodotto molto buono.

Partiamo dai lati positivi: il disco si apre con un rocker frizzante ed energico, "Doggerland", che sicuramente invoglia all'ascolto del resto del disco e, tra gli altri ottimi brani, abbiamo "The Engineer", forse la miglior prova vocale di Anderson in tutto l'album, l'irresistibile e, forse un po' sardonica, marcetta di "The Pax Britannica", l'intricato strumentale "Tripudium ad Bellum" (con una conclusione geniale), la breve ma complessa "New Blood, Old Veins", la maestosa "Meliora Sequamur""The Browning of The Green", che si ricollega parzialmente a "Doggerland". Inoltre, l'atmosfera e le sonorità generali dell'album sono molto azzeccate e i testi, come al solito, oltre ad essere molto intelligenti e ben costruiti, hanno un'assonanza perfetta e la sequenza di sillabe utilizzate suonano molto musicali all'orecchio. Ovviamente, l'album non è esente da difetti: il recitativo "Per Errationes Ad Astra" sembra avere la stessa identica funzione che aveva "Might-have-beens" su "Thick as a Brick 2" e la sua inclusione suona un po' forzata, "Puer Ferox Adventus" non contiene nessun elemento che giustifichi i suoi sette minuti di durata e la conclusiva "Cold Dead Reckoning" è una maniera ben poco ispirata di chiudere l'album. Solo la melodia contenuta nei suoi 30 secondi conclusivi fa svegliare un po' le orecchie, ma finisce troppo in fretta ed è così slegata al resto del brano che sembra che sia stata infilata forzatamente.

In definitiva, si tratta di un prodotto che raggiunge ampiamente la sufficienza, superandola di un bel po', con qualche momento ottimo e qualche altro meno ispirato e, il fatto che un artista del calibro di Ian Anderson, a questo punto della sua carriera, continui a produrre lavori di un certo pregio, non è una cosa da dare assolutamente per scontata. Dal punto di vista tecnico, il disco suona molto competente e professionale. Il gruppo di Ian Anderson è sicuramente preparato e capace, ma forse, un po' poco personale. I vari assolo sono eseguiti con una precisione quasi al millimetro, e le backing tracks scorrono avanti senza problemi, ma non si sente niente che faccia pensare ad un prodotto veramente unico, e questo è sicuramente il vero e proprio scarto col passato dei Jethro Tull. Forse, l'unico membro del gruppo che veramente ha una sua personalità è il secondo cantante Ryan O'Donnell, che ricopre un ruolo che, fino a qualche anno fa, sarebbe stato impensabile e avrebbe, ipoteticamente, causato le ire dei fan. Eppure, è l'unico che porta qualcosa di nuovo e di energico, e, il fatto che riesca a fare così bene un lavoro così rischioso è sicuramente da applaudire. Ad ogni modo, anche se non sono sicuro che questo album possa avvicinare nuovi adepti o che possa far gridare in molti al capolavoro, è certamente molto difficile considerarlo un lavoro mediocre e fa piacere vedere un Ian Anderson ancora carico di energia che non cerca di continuare a sembrare il matto dei vecchi tempi, ma che ha sempre di più l'immagine dell'uomo saggio, scaltro e vissuto, con sempre un asso sotto la manica.


Donald McHeyre - Castle McHeyre / Mat2020

Ian Anderson nel 1972 con "Thick as a Brick", attraverso il suo alter ego, Gerlad Bostock, mostrò uno spaccato satirico delle piccolezze della convenzionale e ben pensante contemporaneità (dell’epoca) inglese attraverso una “musica desiderio” non convenzionale di un unica traccia lunga quanto un album, divisa solo dalle esigenze fisiche di cambiare lato al vinile. In "Thick as a Brick 2", nel 2012, il meta autore diventa protagonista e, attraverso di lui, Ian Anderson ci racconta il cambiamento della società e del pensiero negli anni nel fra tempo intercorsi attraverso i nuovi supporti tecnologici, sviluppati in questi 40 di anni, di rendere davvero un unico brano, questa volta non diviso dai limiti fisici del vinile ma soltanto dai limiti mentali del commercio. In "Homo Erraticus" il supporto scelto è il più “convenzionale” concept album narrativo, diviso in 3 parti/capitoli a loro volta divisi in  brani/paragrafi, musicalmente distinti.  Nelle varie tipologie di arrangiamento usate da Anderson con "Homo Erraticus" siamo in quello che potremo definire "Jethro Tull arrangiamenti stratificati" (che poi è quello più comunemente è stato usato nella loro discografia) diversamente da "Thick as a Brick 2" che rientra nella tipologia “Jethro Tull arrangiamenti lineari” ("Roots to Branches", "A Passion Play" e in buona misura il primo "Thick as a Brick" ne sono gli esempi più rappresentativi).

Il fatto che si utilizzino tecniche compositive e di arrangiamento diverse tra "Homo Erraticus" "Thick as a Brick 2" non può che essere positivo per entrambi gli album e per l’autore stesso. Personalmente continuo a preferire "Thick as a Brick 2" con la sua struttura lineare dovuta all'esigenza di mostrare l’album come un unica composizione (mi piace il risultato finale, prescindendo dalle tecniche usate). "Homo Erraticus" è quindi più un concept "raccolta di brani" con pochissimi temi ricorrenti e forse più varietà nelle composizioni ma anche con più momenti deboli rispetto al predecessore. I momenti deboli possono trovarsi anche in "Thick as a Brick 2" ma questi possono essere giustificati dalle esigenze narrative e dalla struttura di un brano lungo quanto tutto il concept stesso. In sostanza in "Thick as a Brick 2" (ma anche nel primo) i "tempi deboli" possono essere concepiti semplicemente come momenti più deboli di un unico brano che nel suo insieme però, ci aggrada. In "Homo Erraticus", i momenti deboli sono invece singoli brani meno brillanti di altri.

D’altra parte la produzione tecnica del suono è eccellente, superiore anche a "Thick as a Brick 2", rendendo piacevole l’intero ascolto in un sol fiato dell’album la cui musica mostra una Band (.. of Ian Anderson) suonare finalmente come una Band, più amalgamata e sicura delle proprie capacità di quanto aveva dimostrato fino a poco tempo fa, quando quegli stessi  componenti sembravano essere i domestici di casa Anderson arruolati sul campo. O'Donnell in particolare, che già mi aveva fatto ottime impressioni durante il tour di "Thick as a Brick 2", qui è ancora più presente e "vario" nel suo ruolo, permettendosi (o meglio, permettendogli Anderson) di ritagliarsi anche piccoli spazi solisti e non soltanto come "maggiordomo di voce", li dove il "padrone" non ci arriva più.

L'operazione meta testuale, iniziata nel 1972 e proseguita nel 2012 qui continua e si amplia con il personaggio di Ernest T. Parritt (1865-1928) il cui manoscritto intitolato "Homo Erraticus Britannicus" viene scoperto da Bostock ormai anziano in una piccola  biblioteca di provincia. L’analisi sociale si estende a tutta la storia della cultura anglosassone. Nel testo (e qui si giustifica in gran parte il concept "raccolta di brani separati") Parritt racconta che a seguito di una caduta di cavallo dovuta a malaria la sua "coscienza"  viaggia indietro nel tempo ritrovandosi nel corpo di diverse persone. Partendo da un uomo del neolitico e saltando di incarnazione in incarnazione, un fabbro dell'età del ferro, un invasore sassone, un monaco, e altre figure, su su per le epoche fino al Principe Alberto, assiste da testimone diretto ai momenti cruciali della storia della Gran Bretagna, compie Profezie e Rivelazioni sull'epoca attuale (la parte più facile) arrivando fino al 2044 (c'è anche spazio per gli alieni e la SF catastrofista) raccontando tutto nel suo manoscritto nel modo bizzarro ed esagerato tipico del "narratore inaffidabile" come il Barone di Munchhausen o il Colonnello Maxim Arturovitch Pyatnitski di Michael Moorcock, una delle numerose incarnazioni del Campione Eterno, figura metafisica protagonista della gran parte delle opere di Moorcock, la cui concezione può porsi tra le basi per il plot del concept album di Anderson. Il Campione Eterno (John Deker) si reincarna di volta in volta in figure protagoniste dei vari cicli dello scrittore (Elric di Melnibonè, Erekose, Dorian Howkmoon von Koln, per citarne alcuni), nelle varie epoche e nelle varie "Terre" del milione di sfere costituenti il "multiverso". Un buon esempio, insomma, di Homo Erraticus.

Anche se l'idea stessa di viaggio "psico-storico" compiuto da Parritt si può a maggior diritto far risalire direttamente al personaggio protagonista di "Slow Chocolate Autopsy: Incidents from the notorius Career of Norton, Prisoner of London" di Ian Sinclair (con le illustrazioni di Dave McKean) amico di Alan Moore che ha sua volta è amico di Moorcock. Nel romanzo (ma sarebbe più giusto definirlo, raccolta di 12 racconti a carattere storico), l’Homo Erraticus, Andrew Norton è intrappolato nei confini della città di Londra, non ne può uscire ma può spostarsi avanti e indietro nel tempo assistendo e a volte interagendo con gli eventi storici. 

Ian Anderson che legge Moorcok, Sinclair e Moore ? Possibilissimo. Il fatto che Arthur Bostock, il padre di Gerald, sia nato il giorno dopo la morte di Parritt,  può far riflettere in questa direzione.



Chiara Bucolo - Filodiretto Monreale

Dopo varie vicissitudini e ostacoli impervi, finalmente l'Uomo Errante è riuscito ad approdare nelle mie orecchie. Ed è stato di piacevole compagnia, nonostante i samples parevano presentare un disco farraginoso ed un po' pesante (come mi disse un amico: "secondo me, per i samples, hanno detto: adesso prendiamo i momenti peggiori di tutto l'album!"). "Homo Erraticus", sesto lavoro solista del leader dei Jethro Tull Ian Anderson, è inaspettatamente fresco e per niente monotono. Il nostro Ian ha saputo dimostrare,ancora una volta, di saper imboccare sempre strade diverse, anche quando, come in questo caso, non crea niente di nuovo.

L'album, diviso in tre parti - Cronache, Profezie, Rivelazioni - si snoda, si sviluppa e si intreccia tra melodie medievaleggianti ed eteree e momenti più "aggressivi". Connubio che funziona e che già notiamo nel primo brano della prima parte delle Cronache, "Doggerland", dove però l'assolone quasi Metal di Opahle risulta a mio parere forzato ed invadente. Ci pensa subito a ristabilire le cose la delicata e spensierata "Heavy Metals", per la durata di quasi un intermezzo. Una intro di flauto difficile da dimenticare apre "Enter The Uninvited", un po' guastata dai momenti in cui il cantato di Anderson è quasi rappeggiante, ma comunque dalla melodia trascinante. "Puer Ferox Adventus" è intensa, quasi solenne, e ci presenta una chitarra equilibrata nella sua irruenza, e un bellissimo assolo di flauto. In "Meliora Sequamur" ritroviamo quella solennità quasi religiosa, mentre "The Turnpike Inn" possiede alcuni dei momenti più hard del disco. Ancora atmosfere medievali e quasi folk pervadono "The Engineer" e "Pax Britannica" (una delle vette dell'album), che ci mostrano due splendidi assolo del flauto di Anderson. Altra vetta è l' "aerea" "Tripudium Ad Bellum", che introduce la seconda parte del disco, le Profezie. "After These Wars" è dominato da un potente assolo di chitarra, mentre in "New Blood, Old Veins", le tastiere di O'Hara si fondono perfettamente con il flauto di Ian. In "For A Pound", una ripresa della melodia di "Heavy Metals", fa da ingresso nelle Rivelazioni, terza ed ultima parte dell'album. Segue "The Browning Of The Green", altro momento very hard del disco (che però, anche in questi frangenti, non abbandona mai quella vena di leggerezza che caratterizza il suo autore). "Per Errationes Ad Astra" è una sorta di curioso racconto, mentre la chiusa del tutto, "Cold Dead Reckoning", si riallaccia alla melodia di "Enter The Uninvited", uno dei tanti parallelismi del disco.

Disco che non è un capolavoro, ma che ascoltandolo sembra che quest'uomo errante ti ghermisca e ti conduca nei suoi viaggi turbolenti, e tu non sai di certo ribellarti.



mercoledì 1 gennaio 2014

Into Deep #11 - Yesterday And Today - I Beatles negli USA





Penso che non ci sia bisogno di nessun tipo di presentazione per i Beatles, sicuramente il gruppo più famoso di tutti i tempi che, stranamente, in questo blog non ha ancora ricevuto uno spazio vero e proprio. Per chi se lo chiedesse, questo non è per un presunto fastidio da parte degli autori verso il gruppo ma, perché, essendo il più famoso di tutti i tempi, si rischia di cadere nella retorica parlando di loro. Sarebbe molto più facile trattare della loro musica se si potesse avere accesso ad una discografia diversa. Non intendiamo dire album inediti o composti da canzoni inedite, ma una discografia nella quale le canzoni sono organizzate diversamente.

Per fare questo, in realtà, non abbiamo bisogno di cercare universi paralleli: basta andare oltreoceano per scoprire che gli album, così come li conosciamo noi, là non sono usciti fino al 1987. Come pratica comune della maggior parte dei gruppi Inglesi esportati in America (la stessa cosa successe anche ai Rolling Stones, per fare un esempio), nel grande continente, tutto il materiale pre"Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band" venne organizzato in maniera completamente differente. Da quell'album in poi, su richiesta dei Beatles stessi, le due discografie combaciano, ma negli USA sono stati aggiunti due album. Uno di questi, "Magical Mystery Tour" è stato ufficializzato nella discografia Inglese a partire dal 1976, ed è stato ristampato su CD insieme agli altri. Perché mai negli Stati Uniti gli album non sono arrivati in maniera normale? Beh, prima di tutto, i Beatles avevano la fastidiosa abitudine di non includere i loro singoli su disco. Questo, a dire loro, veniva fatto per non imbrogliare i fan che, una volta acquistato il 33 giri, si sarebbero ritrovati due brani ridondanti. Se da un punto di vista intellettuale tale cosa risulta assolutamente onesta, da un punto di vista commerciale è assolutamente deleterio. Inoltre, lo standard di brani in America, in quel periodo era di 12 per disco e i Beatles, spesso e volentieri sforacchiavano. Ecco quindi che, per togliere tali misfatti, i dischi vengono smontati e completamente rimontati. Non solo, così facendo, si ha anche molto più materiale per produrre molti più album. Dal 1963 al 1967 gli album dei Beatles in Inghilterra, così come loro li avevano concepiti sono stati sette: "Please Please Me", "With the Beatles", "A Hard Day's Night", "Beatles for Sale", "Help!", "Rubber Soul" e "Revolver"; in America sono diventati dodici: "Introducing... The Beatles", "Meet the Beatles!", "The Beatles' Second Album", "A Hard Day's Night", "Something New", "Beatles '65", "The Early Beatles", "Beatles VI", "Help!", "Rubber Soul", "Yesterday and Today" e "Revolver", ai quali va aggiunto anche "The Beatles' Story", un documentario audio, parte a tutti gli effetti della discografia ufficiale, per un totale di tredici. Ad aumentare la confusione, le versioni Americane di "A Hard Day's Night", "Help!", "Rubber Soul" e "Revolver" non combaciano con quelle Inglesi.

Poiché i fan dei Beatles oltreoceano erano assolutamente ignari del fatto che gli album che compravano non fossero gli originali, molti di loro sono rimasti stupiti e confusi quando nel 1987, con le prime edizioni CD, tutto il primo periodo dei Beatles fosse presentato in maniera completamente diversa. Inoltre, i veri fanatici, sbavavano da tempo dietro le versioni Americane dei dischi dei Beatles, perché i mixaggi, che fossero stereo o mono, erano radicalmente diversi. Per questi motivi, la richiesta di una ristampa su CD, magari a parte, di questi dischi, è sempre stata alta. In alcuni casi, i fan sono stati accontentati. Come già detto, il primo disco Americano ad essere pubblicato su CD fu "Magical Mystery Tour", adottato assieme alla discografia ufficiale e stampato assieme al resto del catalogo nel 1987. "Meet The Beatles!", "The Beatles' Second Album", "Something New" e "Beatles '65" videro finalmente la luce su CD nel 2004 all'interno del lussuoso cofanetto "The Capitol Albums Volume 1", che li ristampava in mono e in stereo. Analogamente, "The Early Beatles", "Beatles VI" e le versioni Americane di "Help!" e "Rubber Soul" vennero riunite nel 2006 nel "The Capitol Albums Volume 2". Tutti gli altri album sono rimasti non disponibili in digitale: alcuni per motivi di copyright (la versione Americana di "A Hard Day's Night"), altri per richiesta specifica dei membri sopravvissuti dei Beatles ("The Beatles' Story"). Tuttavia, la situazione è solo temporanea: tutta la discografia Americana, ad eccezione di "Introducing... The Beatles" e "Rarities" verrà ristampata nel cofanetto "The US Albums", previsto per il 21 Gennaio 2014. Ogni CD verrà anche venduto separatamente, in tiratura limitata, ad eccezione di "The Beatles' Story".

Con queste premesse, sembra che sia una buona occasione per rivisitare una interessante pagina dimenticata della storia dei Beatles e di riuscire così a parlare del gruppo senza sfociare nella solita adulazione retorica.


INTRODUCING... THE BEATLES
(Vee-Jay, 10 Gennaio 1964)

Il primo disco Americano dei Beatles, sorpresa, non esce per la Capitol ma per la Vee-Jay. Essenzialmente, si tratta di una versione mozzata dell'Inglese "Please Please Me": da 14, i brani passano a 12. La Vee-Jay, comunque, non aveva ancora un contratto ben definito con i Beatles e, infatti, la pubblicazione dell'album lasciò molte battaglie legali tra la Vee-Jay e la Capitol che, in effetti, possedeva diritti su buona parte del catalogo Beatlesiano a questo punto. Il disco uscì in due versioni: nella prima, i due brani rimasti fuori erano "Please Please Me" e "Don't Ask Me Why", precedentemente uscite come singolo negli USA. Tuttavia, la Capitol minacciò ripercussioni legali in quanto deteneva i diritti sui brani "Love Me Do" e "Please Please Me", usciti come singolo in Europa. Per questo la Vee-Jay dovette interrompere la produzione e sostituire quei due brani con i due precedentemente tagliati. Come potete immaginare, quindi, il disco è più interessante per questo tipo di aneddoti che per la sua qualità in sé. Comunque sia, le vendite non scarseggiano di certo e, ad oggi, entrambe le versioni dell'album sono quotate moltissimi soldi.



MEET THE BEATLES!
(Capitol, 20 Gennaio 1964)

Cercando di ignorare l'album precedente, la Capitol annuncia il debutto dei Beatles nella grande mela 10 giorni dopo l'uscita del disco precedente, con questo album. La copertina e la scaletta (anche nell'ordine) riprendono quelle del secondo album Inglese "With the Beatles", ma "Please Mr. Postman", "Roll Over Beethoven", "You Really Got a Hold On Me", "Devil in Her Heart" e "Money" (quattro delle cinque cover presenti sull'album) vengono sostituite dal singolo "I Wanna Hold Your Hand", il suo retro Americano "I Saw Her Standing There" (in Inghilterra il primo brano di "Please Please Me" e già apparsa 10 giorni prima su "Introducing... The Beatles") e il suo retro Inglese "This Boy", poste all'inizio dell'album. Né "I Wanna Hold Your Hand""This Boy" erano apparse su LP in Inghilterra. Il risultato è un album perfetto come presentazione ai Beatles, ma meno coeso nei contenuti della sua controparte Inglese. Come prevedibile, il disco schizza subito al primo posto in classifica per undici settimane quando il disco successivo, lo rimpiazza. Per la prima volta, in America, un artista viene surclassato da sé stesso nelle vendite!




THE BEATLES' SECOND ALBUM
(Capitol, 10 Aprile 1964)

La Capitol, con il titolo affibbiatogli, mette ben chiaro che "Introducing... The Beatles" non sarebbe da considerare parte della discografia, ma la storia non si può riscrivere e, in realtà, questo è il terzo album Americano del gruppo. In questo caso, il disco non si basa su nessun album Inglese ed è un puro pot pourri assemblato dalla casa discografica Americana. Sulla prima facciata, abbiamo quattro dei cinque brani di "With The Beatles" esclusi da "Meet The Beatles!", a questi brani vengono affiancate "Thank You, Girl", in Inghilterra lato B del singolo "From Me to You" (brano, in quel momento, non pubblicabile dalla Capitol, ma presente su "Introducing... The Beatles") e "You Can't Do That", che in in Inghilterra era apparsa sul disco "A Hard Day's Night". Il lato B si apre con due brani in quel momento inediti in Inghilterra: "Long Tall Sally" e "I Call Your Name", prosegue con il quinto brano ancora inedito da "With The Beatles" ("Please Mr. Postman") e si conclude con entrambi i lati del 45 giri Inglese in madrepatria inedito su 33: "I'll Get You" e "She Loves You". Il risultato finale è un disco puramente rock'n'roll, forse un po' troppo banale e ripetitivo, ma perfetto per il pubblico Americano che, in effetti, lo adora e lo fa salire immediatamente primo in classifica.




A HARD DAY'S NIGHT
(United Artists, 26 Giugno 1964)

Con la Beatlemania alle stelle, non c'è da stupirsi se il quartetto Liverpooliano diventa protagonista di un lungometraggio e, chiaramente, con l'uscita del film, deve uscire anche la colonna sonora! In Inghilterra, l'album omonimo al film consiste delle sette canzoni presenti nella pellicola, più sei nuove di zecca che rappresentano il sound attuale dei Beatles. In America, forse per avere più materiale da pubblicare in futuro, il disco omonimo, invece, è la colonna sonora vera e propria del film: i brani aggiuntivi vengono esclusi (a parte "I'll Cry Instead", scritta per il film, ma successivamente non inserita) e vengono sostituiti da rifacimenti orchestrali (ad opera di George Martin, da sempre il vero quinto Beatle) di cinque brani del quartetto. Il risultato finale, chiaramente, suona esattamente come una colonna sonora, più che come un disco a sé stante (nonostante la presenza di classici come "And I Love Her"), e, anche se rappresenta un'alternativa interessante per i collezionisti e per i fan, ancora una volta, l'album Inglese originale gli è preferibile. Non essendo quest'album edito dalla Capitol, non è stato ristampato su CD assieme agli altri. Dato che contiene materiale esclusivo, la sua imminente ristampa è particolarmente interessante!



SOMETHING NEW
(Capitol, 20 Luglio 1964)

La Capitol, come al solito, riorganizza il materiale per i propri comodi, intitolando furbescamente l'album "Something New", qualcosa di nuovo. Chiaramente, il titolo è furbesco fino ad un certo punto perché, "I'll Cry Instad", "I'm Happy Just to Dance With You", "Tell Me Why", "And I Love Her" e "If I Fell" erano già apparse sulla versione Americana di "A Hard Day's Night". Inoltre, la Capitol ha anche inserito dei riempitivi che suonano anacronistici col titolo: i due brani rimanenti dell'EP "Long Tall Sally" e la versione in Tedesco di "I Wanna Hold Your Hand" (intitolata "Komm, Gib Mir Deine Hand"), scelta apparentemente incomprensibile, ma spiegabile dal fatto che questo disco è stato venduto anche in Germania. Insomma, alla fine, degli 11 brani contenuti nel LP, solo tre sono davvero nuovi. Inoltre, a causa dell'accostamento di brani sofisticati che segnano il nuovo processo evolutivo dei Beatles (come "And I Love Her") al vecchio materiale rock'n'roll, il prodotto finale risulta una delle pubblicazioni meno coese della discografia Americana. Non solo: suona proprio come un assemblaggio studiato a tavolino e non troppo ben riuscito di materiale preesistente ed effettivamente è proprio così.



THE BEATLES' STORY
(Capitol, 23 Novembre 1964)

Prima vera e propria esclusiva per gli States, questo doppio LP consiste in un documentario audio nel quale si racconta la storia dei Beatles, intervallata da spezzoni di interviste, rivisitazioni orchestrali dei vari singoli e frammenti dal vivo registrati all'Hollywood Bowl. Introdotto così sembra essere più interessante di quello che è, ma purtroppo, la storia si concentra di più sul fenomeno della Beatlemania che nel processo creativo/evolutivo del gruppo, gli splendidi arrangiamenti orchestrali di George Martin sono usati solo come sottofondo e i frammenti dal vivo sono così brevi da poter passare inosservati. Come immaginabile, quindi, questo è solo un prodotto del tempo, ad uso e consumo per il pubblico del 1964. Comunque sia, per non essere altro che un costoso album documentario, il disco vende piuttosto bene: nel Gennaio 1965 si trova ben al settimo posto nella top 10.



BEATLES '65
(Capitol, 15 Dicembre 1964)

Nonostante il titolo, questo album è stato pubblicato alla fine del 1964. Questo rende il 1964 un anno piuttosto prolifico per i fan Americani: ben sette pubblicazioni in dodici mesi. Questo LP è probabilmente l'unico caso in cui l'album Americano è superiore a quello Inglese. Il disco si basa essenzialmente su "Beatles for Sale", all'epoca l'ultimo album uscito in Gran Bretagna, ma sostituisce sei dei brani con "I'll Be Back" da "A Hard Day's Night" (ancora non pubblicata dalla Capitol), e, soprattutto, lo splendido singolo "She's A Woman"/"I Feel Fine". Queste piccole aggiunte rendono molto più gradevole e variegato quello che, a parere di chi scrive, è l'album forse meno interessante dei Beatles. Chiaramente, ancora una volta, non tutto il materiale si sposa bene, ma il risultato finale è comunque piuttosto buono.



THE EARLY BEATLES
(Capitol, 22 Marzo 1965)

In attesa di avere nuovo materiale su cui mettere le mani, la Capitol, finalmente, si aggiudica i diritti per l'album "Please Please Me" e lo ristampa. Il disco è essenzialmente, una versione troncata dell'"Introducing the Beatles" uscito per la Vee-Jay il Gennaio dell'anno precedente che, a sua volta, era una versione troncata del disco originale. Vengono escluse "I Saw Her Standing There" (uscita su "Meet the Beatles!"), "Mysery" e "There's a Place". Niente di essenziale, quindi, e niente che il pubblico Americano non potesse già procurarsi prima, e, infatti, l'album è il primo a non andare al primo posto nella classifica Americana. A dire il vero, non arriva nemmeno nella Top 10, ma la Beatlemania è ben lunga dall'essere finita!



BEATLES VI
(Capitol, 14 Giugno 1965)

Per la prima volta, vengono dati in esclusiva alcuni brani per il mercato Americano. "Bad Boy" e "Dizzy Miss Lizzy", due cover di Larry Williams vengono registrate appositamente per questo album: il grintoso sound rock'n'roll di questi due brani era perfetto per il pubblico Americano. Gli Statunitensi vengono premiati anche con due brani ("You Like Me Too Much" e "Tell Me What You See"), che,  in Inghilterra, vedranno la luce solo due mesi dopo su "Help!" (i Beatles decideranno di utilizzare anche "Dizzy Miss Lizzy" nella scaletta di tale album). Il resto del LP è completato dai brani rimanenti di "Beatles for Sale" e da "Yes It Is", in Inghilterra il lato B di "Ticket to Ride" (il lato A in sé viene messo da parte per la versione Americana di "Help!"). Ancora una volta, un buon prodotto montato apposta per piacere al pubblico Americano (che, infatti, manco a dirlo, lo fa arrivare al primo posto in breve tempo), ma che fa soffrire molto la creatività del gruppo, relegandoli ad un solo genere e non facendo trasparire, invece, la continua evoluzione della loro musica. Nel Regno Unito "Bad Boy" comparirà per la prima volta sull'antologia "A Collection of Oldies but Goldies" nel 1966, e finirà ufficialmente su CD nel primo volume di "Past Masters", stupendo doppio CD contenente tutti i brani non presenti sugli album Inglesi a 33 giri.



HELP!
(Capitol, 13 Agosto 1965)

Analogamente a "A Hard Day's Night", in America l'album uscito per promuovere il film "Help!" viene reso la colonna sonora del film stesso. Quindi, solo sette delle canzoni dell'album originale, le sette che apparivano nel film, vengono pubblicate, mentre i rimanenti brani del disco consistono in partiture orchestrali scritte da George Martin come musica di sottofondo per l'album. La versione originale di "Help!" era un disco cruciale per i Beatles, perché segnalava perfettamente uno spartiacque tra la musica relativamente semplice e rock'n'roll dei primi anni e quella evoluta e sofisticata degli ultimi. Rimontando l'album, nemmeno a dirlo, questa cosa viene completamente persa, sebbene, comunque, si possa intuire che l'album sia musicalmente molto diverso da quanto gli è stato preceduto. D'altro canto, solo in questa versione dell'album è possibile gustarsi gli splendidi frammenti orchestrali di Martin, di alta caratura, per cui, nonostante tutto, anche questa versione alternativa ha i suoi pregi. Ancora una volta, nonostante questo sia un disco poco convenzionale rispetto agli standard (ovviamente, si parla della versione Americana), ai fan dei Beatles la cosa non sembra interessare. Anche questa volta, infatti, va al primo posto e ci resta per ben nove settimane! Insomma, per fare una battuta un po' stupida, potremmo certo dire che, in quel momento, da quel punto di vista, non avevano bisogno di nessun aiuto.



RUBBER SOUL
(Capitol, 6 Dicembre 1965)

Se la scelta di modificare "Help!" era stata deleteria, ancor di più lo è stata per "Rubber Soul". "Rubber Soul" è, infatti, il primo vero album dei Beatles ad essere veramente ricco nei contenuti e il primo ad esplorare diversi stili di musica, tutto in maniera perfettamente convincente. Questo, però, alla Capitol piace poco e, forse temendo di fermare la Beatlemania dando in pasto al pubblico un disco troppo sofisticato, decide di rimontarlo con l'idea di fare "l'album folk dei Beatles". Per fare questo, toglie i brani più movimentati o sofisticati ("Drive My Car", "Nowhere Man", "What Goes On?" e "If I Needed Someone") e li sostituisce con due brani esclusi da "Help!", entrambi posti a inizio facciata ("I've Just Seen A Face" e "It's Only Love"). Alcuni fan (curiosamente, il 90% di loro di madrepatria Americana) sostengono che questa versione dell'album sia superiore all'originale che, a loro parere, sembra un'accozzaglia di canzoni non relazionate tra loro unite senza un filo logico, ma, secondo chi scrive, questa versione del disco non fa altro che rendere uniforme e forzato un album originariamente notevole per essere particolarmente variegato, ancor di più paragonandolo a quanto uscito precedentemente. Non solo, la differenza stilistica con i due brani dall'album precedente non passa certo inosservata. Forse il miglior esempio di come un'operazione può rovinare un'opera artistica.



YESTERDAY AND TODAY
(Capitol, 20 Giugno 1966)

Questo album è sicuramente il più conosciuto della discografia Americana; non tanto per i suoi contenuti, quanto per la macabra copertina che, nel giro di una settimana, dovette essere sostituita da un'altra più innocua. Il processo di sostituzione fu così sbrigativo che, per alcune copie, venne semplicemente incollata sopra la nuova copertina. Qualcuno dice che l'immagine originale sia una metafora su come i Beatles percepivano la loro discografia all'estero. Nonostante tale idea sia molto interessante, si tratta solo di una coincidenza. Per quanto riguarda la musica, questo album è un completo pot pourri: vengono recuperati i quattro brani mancanti da "Rubber Soul", "Act Naturally" e "Yesterday" da "Help!", le due canzoni ancora non stampate su LP in America, le due facciate del singolo "Day Tripper"/"We Can Work It Out" e tre gustosissime anticipazioni dal futuro "Revolver" (che uscirà in Gran Bretagna due mesi dopo): "I'm Only Sleeping", "Doctor Robert" e "And Your Bird Can Sing", curiosamente tre brani di Lennon. Per casualità, questa accozzaglia di brani suona come un disco che avrebbe potuto benissimo essere stato assemblato dai Beatles stessi e con tutti i brani di altissima caratura. Persino le divertenti "Act Naturally" e "What Goes On?" (entrambe cantate da Ringo) si sposano bene col resto dei contenuti e aiutano ad alleggerire un po' il tono. Certo, è meglio ascoltare la configurazione originale dei brani, ma anche questo LP funziona bene e, sicuramente, coloro che all'epoca erano ignari che non si trattasse di un disco vero e proprio, non si saranno certo lamentati sentendolo.



REVOLVER
(Capitol, 8 Agosto 1966)

Si va verso l'unificazione con la discografia Inglese. La versione Americana di "Revolver" infatti, si limita ad eliminare i tre brani dalla sua controparte Inglese che erano già stati editi su "Yesterday and Today". Questo rende l'album principalmente un disco di McCartney, con ben tre episodi di George e il solito brano cantato da Ringo. Una cosa, insomma, assolutamente sbilanciata. Un fan Americano, cresciuto con questa edizione dell'album, ha ricordato che "un disco con 14 ottime canzoni è bello, così come un disco con 11 ottime canzoni". La cosa è indiscutibile, ma perché accontentarsi del meno quando c'è il più? Tale configurazione dell'album messa in commercio su CD il prossimo Gennaio sarà estremamente cervellotica e si spera che, quantomeno, sui CD ad edizione limitata vi sia un adesivo che spiega che questa versione dell'album è troncata rispetto a quella classica.


Il disco successivo dei Beatles, il celeberrimo "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", su richiesta stessa del gruppo, non viene minimamente modificato negli Stati Uniti, e, per la prima volta, i fan di tutto il mondo possono godere di un prodotto artistico vero e proprio. Anche gli album successivi ("The Beatles", conosciuto come "The White Album", "Yellow Submarine", "Abbey Road" e "Let it Be") rimangono immutati. Tuttavia, questo non impedisce alla Capitol di fare più soldi aggiungendo qualche postilla alla loro discografia qua e là...



MAGICAL MYSTERY TOUR
(Capitol, 27 Novembre 1967)

In Inghilterra, i Beatles avevano appena prodotto quello che fu, forse, il loro unico vero flop: il surreale film "Magical Mystery Tour", che confuse i fan e fece storcere il naso alla critica. Si parla, ovviamente, solo del film, perché la sua colonna sonora, sei brani editi in un doppio EP, invece, vengono osannati come al solito da entrambi i versanti e, con gemme come "The Fool on the Hill", "Magical Mystery Tour" e "I'm The Walrus", sarebbe stato molto difficile non farlo. In America, ancora una volta, si decide però di fare testa propria. Il gruppo aveva specificato la sua volontà di non vedere più gli album tagliati e ricuciti, ma qua si parla di un EP, non di un disco. Per cui, si decide che "Magical Mystery Tour" sarà il nuovo LP dei Beatles. Così, l'intero EP viene trasferito sul lato A del vinile, mentre sul lato B compaiono cinque brani che avevano trovato posto sui singoli ma non sugli album. Due di queste, sono deliziose ballate pop, comunque molto avanti nell'arrangiamento e decisamente non trascurabili ("Hello Goodbye" e "All You Need Is Love"), mentre i rimanenti tre brani sono tre capolavori, tra le migliori pagine in assoluto della discografia del quartetto: "Penny Lane", "Baby You're A Rich Man" e soprattutto "Strawberry Fields Forever". Ecco realizzato così il sequel perfetto a "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band" che, come il precedente, risulta essere un capolavoro. Capolavoro involontario, certo, ma pur sempre un capolavoro. Forse, l'unica vera mossa geniale della Capitol. Seppur non autorizzata, tale operazione soddisfa anche i Beatles: nel 1976 l'album viene stampato e venduto anche in Inghilterra e, nel 1982, diventa parte ufficiale della discografia, venendo inserito nella cofanetto "The Beatles: The Collection". Da allora, il disco è considerato parte ufficiale della discografia ed è stato ristampato assieme agli altri album Inglesi.


A questo punto, la discografia scorre parallelamente uguale tra i due continenti: le due versioni di "The Beatles" (il "White Album"), "Yellow Submarine" e "Abbey Road" non presentano alcuna differenza. Nel Febbraio del 1970, però, alla discografia Americana viene aggiunto un nuovo album.



HEY JUDE
(Capitol/Apple, 26 Febbraio 1970)

Originariamente intitolato "The Beatles Again", questo è l'unico progetto esclusivamente Americano preparato in Inghilterra dalla Apple. Con questa compilation, si recuperano alcuni brani del passato (in nuovi mixaggi stereo) esclusi dalle configurazioni in LP, oppure, non editi dalla Capitol. Si inizia con "Can't Buy Me Love" e "I Should Have Known Better" che erano apparse su 33 giri in America (su "A Hard Day's Night"), ma non ancora pubblicate dalla Capitol, e si procede con una selezione di otto brani tra i vari singoli: il capolavoro "Paperback Writer"/"Rain",  "Lady Madonna" (viene purtroppo esclusa la splendida Harrisoniana "The Inner Light" presente sul lato B) e la versione rock originale di "Revolution", che sul "White Album", è stata inclusa in arrangiamento molto più soft. Sul lato B del disco, c'è la title-track, "Hey Jude" (apparsa su singolo con "Revolution"), il singolo "The Ballad of John and Yoko"/"Old Brown Shoe" e "Don't Let Me Down", gustosa anticipazione di "Let it Be" (anche se non sarà inclusa in quell'album), il lato B di "Get Back", esclusa da questa compilation. Adesso l'album è reso obsoleto da "Past Masters", ma all'epoca, era un succulento archivio con brani bellissimi e acclamatissimi, e quindi, grazie al fatto che fosse una produzione dalla Apple, viene esportato anche in tutto il resto del mondo. In Spagna, all'epoca ancora sotto il Franchismo, "The Ballad of John and Yoko" viene esclusa, per via della parola "Christ" e per un riferimento alla Gibilterra, colonia Inglese all'epoca ambita dalla Spagna. Pare che "Don't Let Me Down" non sia apparsa su "Let it Be" proprio a causa della sua inclusione su quest'album.

"Let it Be" segna, in entrambi i casi, il finale della discografia ufficiale Beatlesiana. A questo punto, per una decina di anni, si campa con delle compilation (i famosi "blue" e "red album" "1962-1966" e "1967-1970" e "Rock'n'Roll Music") e qualche release d'archivio, più interessante ("From Then To You", in America intitolato "The Beatles' Christmas Album", racchiudente in versione completa tutti e sette i divertenti e comici messaggi di auguri spediti via flexi disc ai loro fan e l'unico live album ufficiale fino ad allora: "Live at the Hollywood Bowl", assemblato da George Martin da registrazioni del 1964 e 1965; purtroppo, il contenuto di nessuno di questi due album, ad oggi, è disponibile su CD). L'ultimo vero tassello della discografia Americana arriva solo nel 1980.



RARITIES
(Capitol, 24 Marzo 1980)

In Inghilterra, un titolo omonimo venne pubblicato nel 1978 all'interno del cofanetto "The Beatles Collection", contenente tutti i dischi dei Beatles. La versione Inglese conteneva una selezione di 17 brani non contenuti negli LP Britannici. La scaletta conteneva, però, molti brani che in America erano già stati editi, grazie al rimontaggio degli album, per cui, due anni dopo, viene prodotto un disco omonimo, ma con contenuti e copertina diversa, che dovrebbe colmare alcune lacune della discografia Americana. Questo disco, non ancora edito su CD e non programmato all'interno dell'imminente cofanetto, è tutt'ora considerato una manna dai collezionisti, perché contiene qualche brano ("I Am The Walrus", "And I Love Her", "Penny Lane") in versioni leggermente diverse, sempre tratte da singoli venduti all'estero, che, ad oggi, non sono più disponibili commercialmente. Per il resto, c'è qualche versione in mono alternativa, qualche singolo non ancora pubblicato su album in America (tra cui l'ottima "The Inner Light") e i due brani pubblicati dalla Vee Jay ma non ancora editi dalla Capitol ("Misery" e "There's A Place"), il tutto collegato da una bellissima confezione contenente alcune foto rare, tra cui la famigerata "butcher cover".

Come già detto, gli Americani si renderanno conto solo nel 1987 che la loro discografia non è quella giusta e dovranno rassegnarsi ad apprezzare le configurazioni originali degli album. Le successive operazioni di recupero dei dischi Americani sono, infatti, esclusivamente ad uso e consumo dei nostalgici o dei collezionisti più accaniti. Comunque sia, ad oggi, l'imprinting originale degli Americani ha tutt'ora un forte effetto. Per loro, ad esempio, è impensabile immaginarsi una versione di "Rubber Soul" che non inizi con "I've Just Seen a Face", oppure una discografia a 33 giri da cui manchino brani come "She Loves You", "Day Tripper" e "I Want to Hold Your Hand" e il che la dice lunga su quanto siamo condizionati dalle varie circostanze a considerare "giusta" una versione di un album piuttosto che un'altra. La discografia Americana non impedisce di sicuro di innamorarsi della fantastica musica dei Beatles ma, in molti casi, tende a banalizzare troppo il gruppo, togliendoli un po' di quell'unità speciale, a volte un po' folle, riscontrabile negli album originali ed è sicuramente per questo che, al momento della ripubblicazione in CD, si è scelto di adottare la discografia originale in entrambi i continenti.