venerdì 12 marzo 2010

Spoon - Transference (Merge, 2010)

Gli Spoon sono una band indie rock texana, o così dicono, attiva ormai da quasi vent'anni, con un curriculum di tutto rispetto. Avendo già proposto i suoi dischi migliori, investe il pubblico con una proposta non molto originale rispetto alla produzione passata, rimanendo comunque su livelli decisamente buoni. Un disco come "Transference" trova il suo perché nel momento in cui, dopo qualche ascolto (ne bastano pochi per cogliere l'aspetto superficiale, qualcuno di più per scoprire avvallamenti ed escoriazioni più profonde), ti premia con la sua grande combinazione di stilemi indie più o meno utilizzati dal panorama mainstream e qualche apprezzabile apporto personale della band medesima, combinazione di cui si fregia con un appeal catchy ma da non sottovalutare.
L'intensità del lavoro allontana i primi dubbi sull'invecchiamento della band con il trittico che lo inaugura, Before Destruction e la sua incisività quasi folk-cantautorale da parassitismo post-dylaniano (niente di negativo in realtà), che un po' ricorda gli Wilco, per penetrare poi nell'indie preso dal testamento dei Pixies (e magari un po' dei Butthole Surfers) di Is Love Forever? e la conseguenza di un'iniezione di spensieratezza neanche tanto a passo coi tempi ai Dandy Warhols e ai Verve (oddio che nomi!) che prende qui il nome di The Mystery Zone. Indie è una brutta definizione. Per questo chi ascolta questo album non si renderà conto di tutte le sfumature ma tenderà a snobbarlo. L'importante è sapere che brani come Written In Reverse, rallentamento di un brano degli Strokes (ritorniamo qui anche con Out Go The Lights e la bella Trouble Comes Running) con tutte le sue involuzioni à-la-Lou Reed rivisitato in salsa My Morning Jacket senza troppi fronzoli, e il veloce I Saw The Light che prima delle variazioni sul tema centrale puzza di Liam Gallagher americanizzato, non vengono certo da menti fredde ed assoggettate alla logica delle major come si crede quando si nomina, ormai, la parola "indie". Che palle, la parola indie. Questo è quasi meglio definibile art-rock, ed è per questo che la grazia di Goodnight Laura, quasi everettiana (meglio detto Mr Eels), o il garage punk di Got Nuffin che puzza pesantemente di Devo contaminati di dark tanto da diventare i Joy Division. Marea di nomi importanti per dire che questo non è un disco privo di influenze e sorprende la coesione dei vari elementi fino a mischiare il tutto con un'originalità preventivamente gonfiata dalle premesse gettate dai dischi precedenti. E il dubbio se ne va definitivamente con l'ultimo brano, Nobody Gets Me But You, che inganna con una falsa partenza quasi fosse un outtake di Thriller di Michael Jackson, per diventare poi pop d'autore alla buona ripreso dagli archivi dei Kraftwerk meno minimali (comunque tanto, tanto minimali) per concludersi in un incedere di rumori "industriali" da catena di montaggio proprio come questo riferimento critico suggerirebbe. Siamo lì. 
Britt Daniel è tutto sommato un buon frontman, tecnicamente al passo con gli altri e una spanna sopra molti dei gruppi che si vantano delle stesse etichette di questa band. I testi non sono particolarmente interessanti, ma conta poco in un disco dall'aria pop ma dall'impeto pesantemente punk rock, veloce e graffiante, disteso ed autocelebrativo, quanto basta per non risultare né palloso né esibizionista. Vi basta? Vaffanculo devo smetterla di leggere le recensioni di Rolling Stone.  

Voto: 7.5

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